Riforma Biagi del mercato del lavoro - Una generazione allo sbando
martedì, 19 set 2006 ore: 18.00
Continuando con l’elenco delle urgenze di intervento in capo all’amministrazione Prodi, necessarie a rendere più civile il paese, non può non sottolinearsi come sia ormai improcrastinabile procedere con assoluta priorità alla modifica della riforma Biagi varata dal governo Berlusconi, che, a suo dire, nell’intento di conferire la reclamata flessibilità al mercato del lavoro e favorire l’inserimento dei giovani nel mondo produttivo, - nel quale avevano stentato sino a quel momento a trovare una collocazione, - ha in definitiva generato un mostruoso meccanismo di stabile precariato del quale, come al solito, stanno avvantaggiandosi imprese di tutte le dimensioni e le neonate società di intermediazione di manodopera, sorte come funghi dopo il varo della nuova legge.
E così, mentre un’intera generazione di condannati al precariato dell’esistenza, con suggestive targhette di co.co.co, , contrattisti a progetto, contrattisti di staff leasing ed aberranti neologismi simili, affollano aziende, fabbriche, negozi, pizzerie, ospedali e persino pubblici uffici, percependo retribuzioni ai margini della sussistenza a fronte di una prestazione lavorativa che nulla ha da recriminare a quella di un qualche collega più fortunato, o meglio meno sfortunato, con buona pace dell’etica e del progresso, qualche mentecatto, dissimulando la propria ottusa cecità, continua ad osannare i vantaggi che sono derivati alla modernità ed all’economia dello Stivale dal varo di questa straordinaria riforma.
Che la riforma in questione sia da cestinare senza giudizio d’appello è cosa fin troppo evidente, dato che a fronte di queste forme d’impiego prive della più elementare forma di continuità, non si sono realizzate le tanto sperate condizioni di arricchimento professionale atte a colmare l’eterno gap tra scuola e mondo del lavoro, poiché dopo un primo contratto di precariato spesso non si assiste ad una stabilizzazione di rapporti, ma di regola si procede alla stipulazione di nuovi contratti analoghi ai precedenti con nuovi soggetti, così perpetuando un micidiale manpower revolving, che alla fine abbatterà sì anche la qualità ma sicuramente riduce i costi ed ingrassa i profitti.
Un esempio di questa giostra della carne umana è offerto dagli innumerevoli call center che costellano la penisola: le grandi aziende terziarizzano attività a basso valore aggiunto, come centralini, assistenza post vendita, informazioni, ecc., con significativi risparmi sui bilanci, affidandole a specialisti, non di rado improvvisati, di tali segmenti di business – come si suole ormai dire con ampollosa terminologia esterofila, - che assoldano stuoli di studenti, laureandi, diplomati e specializzati disperati, prestatori a part-time e maturi bisognosi per l’esecuzione di un’attività “facile” ma remunerata in maniera ridicola e comunque senza futuro, dato che gli strumenti graziosamente concessi dal governo precedente rendono ciò perfettamente lecito.
E’ bene subito precisare che chi scrive non ha alcun preconcetto verso i meccanismi di cui si parla, poiché gli stessi, pur se in altra forma e con nomi diversi, sono da tempi remoti utilizzati in parecchi paesi del mondo, proprio per offrire un’opportunità di reddito ai giovani che vogliono realizzare una certa indipendenza economica dalla famiglia d’origine.
Ciò che non è condivisibile e che costituisce un’indubbia patologia del loro funzionamento in Italia è l’uso indiscriminato che di tali meccanismi è consentito. A questo proposito, infatti, andavano fissati limiti credibili di fronte ai quali l’accesso a tale contrattualistica avrebbe dovuto essere inibito. A mero titolo d’esempio, andavano posti limiti alla ripetibilità dei contratti, l’obbligo che gli stessi fossero contenuti nell’ambito di una percentuale limitatissima rispetto al totale della forza dipendente; che fossero rilasciati al termine del periodo attestati di valutazione sull’effettiva acquisizione della professionalità per la quale il contratto era stato stipulato; che l’età del contrattista non dovesse superare un limite prefissato senza eccezione alcuna; che i contratti fossero stipulati solo per esigenze produttive congiunturali o per le quali non fossero già intervenuti contratti a termine di qualsivoglia natura, e così via, in modo da sbarrare la strada ai tanti abusi, più o meno leciti, che il permissivismo della legge medesima ha consentito. Naturalmente i rispetto dei vincoli avrebbe dovuto essere esercitato sotto la stretta sorveglianza di organi ispettivi, peraltro già presenti in ambito locale.
Un altro aspetto su cui varrebbe la pena sviluppare qualche approfondimento è relativo alle ragioni per le quali in Italia il provvedimento è stato accolto con sostanziale indifferenza da parte dei giovani, dato che l’entusiasmo degli industriali non può che comprendersi.
In Francia, dove il governo ha tentato di introdurre una legge simile per la liberalizzazione del marcato del lavoro, abbiamo assistito non solo ad una levata di scudi di politici e sindacati, ma alla protesta delle famiglie ed alle manifestazioni di piazza, non sempre pacifiche, delle categorie sociali colpite, tanto che, dopo un lungo e travagliato braccio di ferro, il governo ha dovuto invertire una vergognosa retromarcia ed accantonare ogni velleità di ammodernare la vita dei suoi giovani concittadini al pari dei loro cugini italiani.
E’ del tutto superfluo rammentare che il civismo, la coscienza sociale, il senso patrio d’appartenenza e quell’insieme di valori che costituiscono l’essenza del vero cittadino passano attraverso la capacità dello stato di garantire alla collettività un livello d’esistenza adeguato, che garantisca dignità e, per quanto possibile, certezze di visibilità futura. Tali obiettivi si realizzano sì con l’impegno di una classe dirigente seria, responsabile e capace di interpretare i bisogni del contesto in cui è chiamata ad operare e di cui è l’espressione delegata, ma altresì con volontà di creare condizioni di benessere comune cui ciascuno concorre attraverso il lavoro e la dignità dello stesso.
Sino a quando nella mente di qualche governante rimarrà la convinzione che democrazia sia da intendere come lo strumento per realizzare le esigenze di un élite ai danni delle reali necessità della stragrande maggioranza dei cittadini e che la felicità del popolo si consegue con un’automobile, un telefono cellulare, un lavoretto precario e tante cambiali, allora non v’è speranza alcuna.
Osannare l’accesso al consumismo sfrenato come demiurgo delle afflizioni umane, mezzo di promozione sociale e non creare, contemporaneamente, le condizioni affinché questo dio ancorché falso divenga effettivamente accessibile, significa solo propagandare nuove forme di oppio per il popolo e gettare i semi nefasti per far germogliare nel tempo nuovi e non sempre incruenti conflitti tra generazioni e ceti sociali.
Oggigiorno va di moda parlare di sviluppo sostenibile, di consumi sostenibili e così via, così che il “sostenibile” sembra essere divenuto una condizione ineludibile dell’azione umana. A questa stregua e se ciò è fondato, sarà opportuno avviare un dibattito sul mercato sostenibile del lavoro, in quanto causa l’attuale penuria d’impiego non è più possibile continuare a guardare ad un futuro senza famiglie, senza lavoro, senza casa, senza pensione e con l’arrogante presenza di un’élite dominante, che continua a tenerti ai margini di un’esistenza dignitosa e che, sorpresa a barare, alle giuste proteste si permette persino di ribaltare l’accusa tacciandoti di ignavia o di incapacità a sostenere i doverosi sacrifici di cui è cosparsa la via della redenzione.
Al di là di queste chiacchiere tese a tutelare la propria posizione di rendita una cosa è certa: i giovani esigono un lavoro che sia tale, non occupazione precaria e mal pagata che mortifica la loro dignità di uomini e di cittadini; un lavoro che permetta loro di costruirsi un futuro, come hanno fatto i loro padri, magari con sacrifici maggiori, ma nella certezza che il domani offre ancora opportunità e non unicamente solitudine e disperazione.
E così, mentre un’intera generazione di condannati al precariato dell’esistenza, con suggestive targhette di co.co.co, , contrattisti a progetto, contrattisti di staff leasing ed aberranti neologismi simili, affollano aziende, fabbriche, negozi, pizzerie, ospedali e persino pubblici uffici, percependo retribuzioni ai margini della sussistenza a fronte di una prestazione lavorativa che nulla ha da recriminare a quella di un qualche collega più fortunato, o meglio meno sfortunato, con buona pace dell’etica e del progresso, qualche mentecatto, dissimulando la propria ottusa cecità, continua ad osannare i vantaggi che sono derivati alla modernità ed all’economia dello Stivale dal varo di questa straordinaria riforma.
Che la riforma in questione sia da cestinare senza giudizio d’appello è cosa fin troppo evidente, dato che a fronte di queste forme d’impiego prive della più elementare forma di continuità, non si sono realizzate le tanto sperate condizioni di arricchimento professionale atte a colmare l’eterno gap tra scuola e mondo del lavoro, poiché dopo un primo contratto di precariato spesso non si assiste ad una stabilizzazione di rapporti, ma di regola si procede alla stipulazione di nuovi contratti analoghi ai precedenti con nuovi soggetti, così perpetuando un micidiale manpower revolving, che alla fine abbatterà sì anche la qualità ma sicuramente riduce i costi ed ingrassa i profitti.
Un esempio di questa giostra della carne umana è offerto dagli innumerevoli call center che costellano la penisola: le grandi aziende terziarizzano attività a basso valore aggiunto, come centralini, assistenza post vendita, informazioni, ecc., con significativi risparmi sui bilanci, affidandole a specialisti, non di rado improvvisati, di tali segmenti di business – come si suole ormai dire con ampollosa terminologia esterofila, - che assoldano stuoli di studenti, laureandi, diplomati e specializzati disperati, prestatori a part-time e maturi bisognosi per l’esecuzione di un’attività “facile” ma remunerata in maniera ridicola e comunque senza futuro, dato che gli strumenti graziosamente concessi dal governo precedente rendono ciò perfettamente lecito.
E’ bene subito precisare che chi scrive non ha alcun preconcetto verso i meccanismi di cui si parla, poiché gli stessi, pur se in altra forma e con nomi diversi, sono da tempi remoti utilizzati in parecchi paesi del mondo, proprio per offrire un’opportunità di reddito ai giovani che vogliono realizzare una certa indipendenza economica dalla famiglia d’origine.
Ciò che non è condivisibile e che costituisce un’indubbia patologia del loro funzionamento in Italia è l’uso indiscriminato che di tali meccanismi è consentito. A questo proposito, infatti, andavano fissati limiti credibili di fronte ai quali l’accesso a tale contrattualistica avrebbe dovuto essere inibito. A mero titolo d’esempio, andavano posti limiti alla ripetibilità dei contratti, l’obbligo che gli stessi fossero contenuti nell’ambito di una percentuale limitatissima rispetto al totale della forza dipendente; che fossero rilasciati al termine del periodo attestati di valutazione sull’effettiva acquisizione della professionalità per la quale il contratto era stato stipulato; che l’età del contrattista non dovesse superare un limite prefissato senza eccezione alcuna; che i contratti fossero stipulati solo per esigenze produttive congiunturali o per le quali non fossero già intervenuti contratti a termine di qualsivoglia natura, e così via, in modo da sbarrare la strada ai tanti abusi, più o meno leciti, che il permissivismo della legge medesima ha consentito. Naturalmente i rispetto dei vincoli avrebbe dovuto essere esercitato sotto la stretta sorveglianza di organi ispettivi, peraltro già presenti in ambito locale.
Un altro aspetto su cui varrebbe la pena sviluppare qualche approfondimento è relativo alle ragioni per le quali in Italia il provvedimento è stato accolto con sostanziale indifferenza da parte dei giovani, dato che l’entusiasmo degli industriali non può che comprendersi.
In Francia, dove il governo ha tentato di introdurre una legge simile per la liberalizzazione del marcato del lavoro, abbiamo assistito non solo ad una levata di scudi di politici e sindacati, ma alla protesta delle famiglie ed alle manifestazioni di piazza, non sempre pacifiche, delle categorie sociali colpite, tanto che, dopo un lungo e travagliato braccio di ferro, il governo ha dovuto invertire una vergognosa retromarcia ed accantonare ogni velleità di ammodernare la vita dei suoi giovani concittadini al pari dei loro cugini italiani.
E’ del tutto superfluo rammentare che il civismo, la coscienza sociale, il senso patrio d’appartenenza e quell’insieme di valori che costituiscono l’essenza del vero cittadino passano attraverso la capacità dello stato di garantire alla collettività un livello d’esistenza adeguato, che garantisca dignità e, per quanto possibile, certezze di visibilità futura. Tali obiettivi si realizzano sì con l’impegno di una classe dirigente seria, responsabile e capace di interpretare i bisogni del contesto in cui è chiamata ad operare e di cui è l’espressione delegata, ma altresì con volontà di creare condizioni di benessere comune cui ciascuno concorre attraverso il lavoro e la dignità dello stesso.
Sino a quando nella mente di qualche governante rimarrà la convinzione che democrazia sia da intendere come lo strumento per realizzare le esigenze di un élite ai danni delle reali necessità della stragrande maggioranza dei cittadini e che la felicità del popolo si consegue con un’automobile, un telefono cellulare, un lavoretto precario e tante cambiali, allora non v’è speranza alcuna.
Osannare l’accesso al consumismo sfrenato come demiurgo delle afflizioni umane, mezzo di promozione sociale e non creare, contemporaneamente, le condizioni affinché questo dio ancorché falso divenga effettivamente accessibile, significa solo propagandare nuove forme di oppio per il popolo e gettare i semi nefasti per far germogliare nel tempo nuovi e non sempre incruenti conflitti tra generazioni e ceti sociali.
Oggigiorno va di moda parlare di sviluppo sostenibile, di consumi sostenibili e così via, così che il “sostenibile” sembra essere divenuto una condizione ineludibile dell’azione umana. A questa stregua e se ciò è fondato, sarà opportuno avviare un dibattito sul mercato sostenibile del lavoro, in quanto causa l’attuale penuria d’impiego non è più possibile continuare a guardare ad un futuro senza famiglie, senza lavoro, senza casa, senza pensione e con l’arrogante presenza di un’élite dominante, che continua a tenerti ai margini di un’esistenza dignitosa e che, sorpresa a barare, alle giuste proteste si permette persino di ribaltare l’accusa tacciandoti di ignavia o di incapacità a sostenere i doverosi sacrifici di cui è cosparsa la via della redenzione.
Al di là di queste chiacchiere tese a tutelare la propria posizione di rendita una cosa è certa: i giovani esigono un lavoro che sia tale, non occupazione precaria e mal pagata che mortifica la loro dignità di uomini e di cittadini; un lavoro che permetta loro di costruirsi un futuro, come hanno fatto i loro padri, magari con sacrifici maggiori, ma nella certezza che il domani offre ancora opportunità e non unicamente solitudine e disperazione.
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