lunedì, ottobre 01, 2018

La disfatta della politica


La fine delle ideologie ha cancellato le differenze tra destra e sinistra – La ricchezza, spesso mascherata, l’unico elemento di divisione sociale – Perché trionfa il populismo

Lunedì, 1 ottobre 2018
Sinistra e destra sono ormai da tempo definizioni prive di significato ideologico, rimaste nel gergo politico esclusivamente per etichettare formazioni contrapposte da programmi e prassi di governo. S’è infatti perso ogni riferimento sottostante di pensiero, visione dell’organizzazione dello stato, categorie sociali di riferimento e, soprattutto, tutela di interessi peculiari di specifici ceti sociali.
In questa distruzione di radici ideologiche stati determinanti i profondi mutamenti sociali determinatisi a causa della crisi economica planetaria, dello sviluppo tecnologico, dei processi lavorativi sempre più pervasi da tecnologie labour saving e dalla notevole riduzione delle manualità in tutte le fasi di realizzazione dei prodotti, mutamenti che la politica non solo non ha colto, ma di cui si è resa conto con ritardo a dir poco grave e che, dunque, non è stata in grado di interpretare con l’avvio di nuove iniziative politiche che tenessero conto delle istanze emergenti. In questo stravolto scenario, infatti, parlare oggi di proletariato, di borghesia, di classi e ceti sociali è decisamente anacronistico, essendosi creata nel tempo una massa priva di confini certi, di comune identità ideologica, i cui unici elementi di distinzione sono rappresentati dal denaro, dalla quantità di cui dispongono effettivamente.
La ricchezza effettiva è, dunque, l’unico elemento distintivo, sebbene tale fondamentale elemento sia spesso impercettibile, a causa della massificazione di simboli di status che rende frequentemente ingannevole la percezione della reale situazione economica. Ma quest’aspetto, più attinente alla sociologia comportamentale e che comunque può costituire un indicatore erroneo del benessere effettivo, ha generato generalizzate e pressanti ambizioni di promozione sociale, a cui la politica è rimasta sostanzialmente insensibile o non ha saputo dare adeguate risposte, o per la carenza della capacità interpretativa prima detta o per la limitatezza delle risorse disponibili da attivare. Inoltre la massificazione degli status symbol ha paradossalmente confuso ulteriormente le cose, rendendo meno percepibile l’appartenenza di classe sociale.
A questa crisi della politica, rappresentata dal crollo dei partiti storici, si sono associati gli effetti, per certi versi perversi, di alcuni fenomeni ciclici dell’economia, – la lunga e non ancora conclusa crisi mondiale, - la rapida globalizzazione e, nel caso nazionale, gli effetti del ventennio berlusconiano, che hanno accelerato il processo di pressante domanda di crescita sociale e l’assunzione di modelli di vita ad economia più florida.
La risposta della politica è stata gravemente insufficiente, poiché ha creduto di poter rispondere a queste istanze con l’assunzione di provvedimenti di liberalizzazione eccessiva, che hanno finito per acuire le distanze tra le sparute categorie effettivamente agiate e le masse disagiate sempre più ampie e pressate ai margini. L’elemento principe di questo processo è stato nelle politiche per il lavoro, sempre più improntate alla precarizzazione e con salari privi di dignità, nell’improvvida convinzione che la deregolamentazione del mercato avrebbe generato miracolosi effetti occupazionali. Che tali misure siano state condivise o addirittura promosse dalla sinistra, quella sinistra che aveva fondato la propria missione politica sul diritto al lavoro, su un compenso equo, sull’abbattimento delle barriere sociali, sulla realizzazione di un benessere diffuso,  non può affatto stupire che abbia generato, più che reflusso del suo elettorato, un autentico odio per chi quelle politiche ha avallato e che, nei fatti, si sono rivelate un pozzo senza fondo per un nuovo arricchimento incontrollato dei santuari capitalistico-finanziari. Né può trascurarsi che il peso della crisi internazionale abbia prodotto i suoi nefasti effetti principalmente sulle masse più deboli, già esposte alle perturbazioni delle crisi: pensionati, giovani in cerca di lavoro, salariati, ceti medi, sottoproletariato urbano, vittime del taglio del welfare, delle illusorie politiche di sostegno delle imprese, dei processi di riorganizzazione e ristrutturazione industriale, delle delocalizzazioni, della fuga dei capitali e delle speculazioni finanziarie. Le iniziative intraprese per favorire un’inversione di rotta si sono spesso rivelate peggiori degli effetti della malattia che avrebbero dovuto curare. I provvedimenti per l’occupazione, ad esempio, varati in assoluta assenza di coraggio, sono serviti solo a perpetuare precariato selvaggio a retribuzioni terzomondiste.
L’ottusa cecità con la quale le politiche suddette sono state portate avanti ha riguardato sia la destra che la sinistra, al punto da annullare ogni differenza e trasferire ai cittadini la convinzione che tra i due schieramenti non ci fossero più distinguo, confini, progettualità, ma un vero e proprio continuum, rappresentato dall’esercizio del potere fine a se stesso. In altri termini se il liberismo senza regole era per la destra un presupposto per legittimare la propria esistenza, la tutela di quel liberismo era divenuto per la sinistra il tramite per rivendicare il diritto di potervisi sostituire.
E’ evidente che ogni popolo ha una sua capacità di tolleranza e che quando i limiti di tale tolleranza vengono superati il disagio sociale che ne deriva si traduce in rivolta verso il sistema. E così infatti è avvenuto il 4 marzo, quando i cittadini, sfiniti da una politica corrotta, autoreferenziale, sorda ai bisogni della gente, snervati dalle sterili querelle tra lobby e gruppi d’interesse, vessati da intollerabili livelli di tassazione, impossibilitati a garantire la sopravvivenza a se stessi e le proprie famiglie, hanno deciso con una sciagurata svolta di gettarsi nelle braccia del becero populismo di Lega e M5S, obnubilati dalla mirabolante promessa di un riscatto delle loro condizioni, che difficilmente potrà realizzarsi, fatto di reddito di cittadinanza, taglio generalizzato di tasse e gabelle, accesso facilitato alla pensione, magica moltiplicazione delle opportunità di lavoro.
La svolta, dunque, non è stata ideologica, non fosse perché nei 5 Stelle di ideologico non c’è nulla e poco c’è nella Lega di Salvini. La svolta è più da addebitare al rancore profondo che è via via maturato verso la politica tradizionale, sorda e inetta, incapace d’uscire dal putrido acquitrino in cui ha condotto il paese e nel quale è naufragato ogni barlume di speranza.
E sta proprio in queste motivazioni d’odio e invidia profonda da una parte e di illusorie promesse dall’altra a fondamento del consenso di questi movimenti populisti che risiede la speranza per la politica vera, quella seria a cui non siamo più da tempo abituati, di creare le condizioni per la propria rinascita. L’odio ed il rancore non hanno mai avuto grandi possibilità di durare nel tempo e le illusioni fanno presto a svanire quando al sorgere del sole la realtà s’illumina di ciò che effettivamente è in grado d’offrire.
E’ allora necessario che la politica rifondi se stessa con umiltà ma con concretezza d’obiettivi, riacquisendo un rapporto di contiguità con la gente, con i suoi bisogni, con i suoi dolori, e sia in grado di tradurre quelle istanze in progetti veri e, soprattutto, credibili e realizzabili, non con false scorciatoie, ma con una suddivisione a tutti i livelli dell’impegno e dei sacrifici necessari, privilegiando il tema fondamentale dell’esistenza, rappresentato dal lavoro e dalla sua tutela.