Il cavallo di Troia
Finito lo spoglio delle schede elettorali, si apre tra i
vincitori la competizione per la formazione di un governo – Il PD è adesso ago
della bilancia – Una vittoria di Lega e M5S fondata sulla promessa di irrealizzabili
sogni – La politica cambia gli attori, ma i copioni sono sempre gli stessi.
Sabato, 10 marzo 2018
A poche ore dalla chiusura dei seggi elettorali e mentre è in pieno
sviluppo il dibattito sullo scenario possibile di governo vale la pena
chiedersi quali siano le ragioni della disfatta politica del PD e della
schiacciante vittoria di M5S da una parte e Lega dall’altra, due forze
politiche populiste, antagoniste, ma con parecchi punti in comune nei
rispettivi programmi elettorali.
In questa analisi non ci si può esimere primariamente dal tentativo di
dare una motivazione alla débâcle del PD, che ha conseguito un risultato del
18,7% alla camera e un 19,1% al senato, risultato tra i più modesti della sua
storia e che lo colloca al terzo posto tra le forze presenti nel parlamento.
Non vi è dubbio alcuno che la sconfitta del PD sia strettamente legata alla
figura di Matteo Renzi, segretario del partito dal dicembre del 2013, che ha
dettato la politica dei democratici per oltre quattro anni e che dal febbraio 2014
al dicembre del 2016, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, è stato
presidente del consiglio.
Del periodo in cui Matteo Renzi è stato a capo del governo e dei suoi
aspetti caratteriali, che non gli hanno di certo aumentato simpatie e consenso
dell’elettorato, si è parlato a lungo e poco vi è da aggiungere. Molto invece vi è da sottolineare della
strategia politica sulla quale ha basato l’azione del suo governo e la stessa guida
del partito, strategia e modello di leadership che ne hanno logorato l’immagine,
l’affidabilità e persino la credibilità popolare e che hanno determinato infine
il crollo dell’intera sinistra nazionale.
Ma più che soffermarci sugli aspetti caratteriali del personaggio è
fondamentale un excursus sulla strategia politica che ha seguito, protesa da
una parte a gestire l’uscita dalla crisi dell’Italia e all’acquisizione di una
posizione di maggior peso in ambito europeo con particolare riguardo alle
problematiche migratorie, dall’altra alla gestione di vere e proprie emergenze
sociali interne, quali l’occupazione giovanile, lo sviluppo del Mezzogiorno, la
moralizzazione della vita pubblica particolarmente in quelle aree del paese
divenute vere e proprie radicate palestre di malaffare e di corruzione.
Non va certo trascurato il campanello d’allarme che era rumorosamente
squillato all’indomani delle elezioni regionali, non ritenuto utile a motivare
un dovuto cambiamento di rotta in vista delle elezioni nazionali. D’altra parte
quei risultati, per esempio in Sicilia, erano stati il frutto dell’inqualificabile
amministrazione Crocetta, dell’insipienza del PD e del suo segretario, che
avevano assistito svogliatamente agli sprechi di pubblico denaro, ai soliti
giochi di clientele, allo sfacelo della sanità, ai provvedimenti vergognosi di
scandaloso aumento delle guarentigie e degli emolumenti dei parlamentari
regionali, al degrado inarrestabile della rete infrastrutturale della regione,
ecc.
Questo spettacolo indecente s’è consumato mentre il governo elargiva
mance demenziali a insegnanti e diciottenni, dimenticando che le categorie
sociali maggiormente bisognose, particolarmente in un Sud atavicamente ai
margini della ricchezza nazionale, era costituito da pensionati ai limiti della
povertà, da poveri assoluti e dai milioni di inoccupati per assenza di
opportunità di lavoro o disoccupati per la progressiva desertificazione del
tessuto industriale e produttivo. Senza mettere in conto la drammatica
situazione della inoccupazione giovanile con punte del 70% e il paradossale
stato di sfruttamento, ai limiti della pratica schiavistica, dei pochi
fortunati assoldati con contratti fasulli e retribuzioni offensive della
dignità umana nel polverizzato tessuto produttivo e commerciale residuale. A
questo proposito, quando si vaneggia sul ruolo degli Ispettorati del lavoro e
degli organi di controllo preposti alla verifica del rispetto delle norme di
legge sul lavoro bisognerebbe avere il buon gusto d’inserirli negli enti da
sopprimere seduta stante, visto che rappresentano un costo privo di qualunque
beneficio, la loro attività sul campo è inesistente e nelle rarissime occasioni
in cui svolgono il loro compito di verifica si ha la consolidata sensazione che
fingono di ignorare il diffuso disprezzo per la legalità radicato nell’imprenditoria
meridionale.
Questo quadro di disperazione diffusa ha costituito l’humus su quale
M5S e Lega, cioè l’antipartitismo ed il populismo allo stato puro, hanno potuto
affondare le loro radici. Le loro mirabolanti promesse hanno ammaliato i tanti delusi
e le schiere dei disperati come il canto delle sirene, un canto con ritornelli
fatti di improbabili redditi di cittadinanza o di dignità, generose riforme
pensionistiche, impalpabili progetti occupazionali, colpi di scure alla
tassazione ed altre irrealizzabili amenità, che ha consentito di irrompere
nelle menti dei cittadini a con un cavallo di Troia infarcito di sogni
goduriosi. Tra l’altro, mentre le promesse dei pentastellati provengono da un
movimento del quale mancano riscontri sulla capacità di governo e, dunque, la
cautela sarebbe stata d’obbligo vista anche l’evidente impossibilità di rendere
effettivi i loro progetti, stupisce alquanto che abbia potuto far breccia la
melodia leghista, particolarmente nel sud del paese, che per anni è stato
bersaglio del più indicibile vituperio da parte leghista. In tanti sembra
abbiano dimenticato i “forza Etna”, i “terroni tornatevene a casa” o lo
sprezzante “meglio un negro in casa che un terrone all’uscio” di Bossi o
Borghezio. Così come lascia basiti che il successo della Lega sia ascritto all’interno
di una coalizione in cui era presente l’impresentabile Silvio Berlusconi, quel
condannato per gravissimi reati fiscali che durante la campagna elettorale non
ha risparmiato strali contro evasione ed elusione.
Con buona pace delle speranze degli elettori delle due compagini in
questione, che a meno di miracoli difficilmente vedranno realizzare gli impegni
cui hanno carpito fede, si pone adesso un difficilissimo problema di governabilità
del paese, poiché nessuna delle due fazioni vincitrice può vantare una
maggioranza utile per la formazione di un esecutivo. Paradossalmente ago della
bilancia rimane il PD, che ha già dichiarato di non intendere appoggiare né M5S
né Lega, quantunque al suo interno le spinte per uscire da quel che viene
considerato come isolamento sono molteplici. La direzione del partito, fissata
per il prossimo 12 marzo, potrebbe sciogliere ogni dubbio.
A proposito dell’appoggio del PD ad una delle due compagini vincitrici
delle lezioni si è aperto un ampio dibattito tra favorevoli e contrari. Il
paradosso è che entrambe le ipotesi conducono ad analoga conclusione e che cioè
il partito democratico è destinato a scomparire, perché finirebbe per essere
fagocitato dai pentastellati. L’ipotesi, pur se suggestiva, ha un suo
fondamento logico, costituito da quel 7% di elettorato piddino passato ai 5
stelle che rappresenterebbe l’inizio dell’emorragia. Nell’ipotesi di un
sostegno al movimento di Di Maio, invece, il PD verrebbe meno al mandato
elettorale che, avendolo voluto all’opposizione, non tollererebbe l’ennesimo
tradimento. E’ solo nelle prossime settimane che conosceremo le strade che il
PD intende imboccare per arginare quello che, al momento, appare come il
preludio della fine di una lunghissima storia della sinistra italiana.
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