martedì, maggio 08, 2018

Bancarotta della politica


Impossibile un’intesa tra i partiti per formare un governo – Il rimpallo dei veti incrociati determina lo stallo della politica – L’economia del paese corre gravissimi rischi, ma i partiti pensano solo al proprio tornaconto – Nuovo ricorso alle urne, ma con il serio rischio di una massiccia astensione


Lunedì, 8 maggio 2018
Era già tutto previsto. Una legge elettorale cervellotica, creata appositamente per non far vincere alcun partito, ha reso del tutto inutile il voto popolare e costringerà a breve a nuove elezioni. Mai s’era verificata una situazione del genere dal 1946, data di fondazione della repubblica, nonostante l’Italia abbia attraversato fasi politiche problematiche, controverse e conflittuali contraddistinte da governi balneari, governi tecnici e governi d’emergenza. Il degrado attualmente toccato dalla politica è ormai ad un minimo tale da non avere non solo precedenti, ma da non lasciare speranza alcuna su un’uscita dal tunnel degli egoismi vergognosi in cui marciano senza meta i suoi imbecilli leader.
Ma l’analisi della situazione non può esaurirsi con la semplice constatazione che il paese è ormai in mano ad un manipolo di sciagurati dai quali non c’è da attendersi niente. L’analisi deve necessariamente passare dalla disamina delle responsabilità di questa accozzaglia d’incapaci nella speranza che il popolo guarisca dalla miopia con la quale sino ad oggi ha espresso le proprie preferenze di voto e al prossimo turno infligga una dura lezione a coloro che, comunque la si giri, hanno dimostrato e continuano a dimostrare di pensare solo ai propri meschini interessi più che a quelli di chi nei grassi posti del potere li ha mandati.
Né in questo squallore istituzionale ci si può esimere dal valutare anche il ruolo della Presidenza della Repubblica, colpevole a nostro avviso di due errori rilevanti che hanno agevolato la situazione in cui versa il paese. Errori assolutamente evidenti, costituiti dal mancato scioglimento delle camere l’indomani delle dimissioni di Matteo Renzi sconfitto nel referendum istituzionale e sostituito da Paolo Gentiloni e dall’apposizione della firma di promulgazione dell’allucinante legge elettorale, oggi sotto processo, approvata con ben otto voti di fiducia e senza alcun dibattito parlamentare. Vero è che il Capo dello Stato non ha poteri interdittivi delle leggi promulgate dal parlamento, ma è altrettanto noto che conserva il potere di rinvio alle camere delle leggi in odore di incostituzionalità o di dubbia legittimità e il non aver esercitato questa facoltà attribuitagli dalla Carta comunque lo rende in qualche misura responsabile del disastro cui assistiamo.
C’è poi la responsabilità palese del Movimento 5 Stelle e del suo leader Luigi Di Maio, affetto da delirio d’onnipotenza, che ha condotto una campagna elettorale sull’insulto agli avversari e sulla convinzione che vagonate di fandonie e ridicole e irrealizzabili promesse avrebbero consentito alla congrega Grillo-Casaleggio di portare a casa una maggioranza schiacciante. Per quanto non v’è dubbio alcuno che buona parte degli Italiani sia facilissima preda di venditori di fumo e d’illusionisti dell’ultima ora, – e i risultati conseguiti dal M5S ne confermano la vocazione, - l’incantatore Di Maio non ha esito persino all’impiego di toni sprezzanti nei confronti degli avversari, ai quali ha proposto in caso di una sua vittoria senza la maggioranza assoluta la composizione di un governo guidato da lui basato incondizionatamente su punti fissati dalla sua parte politica, sui quali avrebbe dovuto aderire chiunque ci stesse senza per questo poter ambire a posizioni nell’ambito di quell’esecutivo. Una posizione idiota, priva di qualunque senso logico, che avrebbe visto relegato qualunque alleato a ruolo di stampella del suo governa, su cui magari scaricare le responsabilità dei propri probabili insuccessi.
A nulla è valso lo smorzamento dei toni quando, dopo i risultati elettorali non proprio in linea con le aspettative, Di Maio ha dovuto prendere atto che la coalizione di centro-destra, Matteo Salvini in testa, aveva conseguito una maggioranza relativa che le consentiva di rivendicare la guida del governo del paese. Sempre più intronato dalla propria indole superba il giovanotto s’è inventato i due forni, PD da una parte e Lega dall’altra, per ipotizzare un governo a guida pentastellata, ricevendo un inequivoco niet da entrambi i panettieri. Nel caso della Lega il rifiuto è stato motivato dall’incondizionata richiesta a Matteo Salvini di escludere FI e Silvio Berlusconi da qualunque trattativa per la definizione del programma e la composizione del governo, dunque dalla pretesa di dissolvere il centro-destra. Nel caso del PD, il no è stato conseguenza di una campagna elettorale basata sulle gravissime accuse di contiguità mafiosa mosse dallo stesso Di Maio alla dirigenza piddina e dalle valutazioni profondamente negative espresse sui provvedimenti dei governi Renzi e Gentiloni.
A chiusura di questa sintetica analisi degli svarioni del M5S vi è anche l’imperdonabile errore d’aver considerato il forno PD alternativo a quello diametralmente opposto della Lega, trattandosi di partiti politici con caratura ideologica, etica e obiettivi politico-sociali talmente diversi da non poter costituire l’uno alternativa all’altro se non in omaggio alla cieca ambizione di un leader privo di sensibilità politica, motivato solo da un’indecente sete di potere da prima repubblica.
Diversa la posizione della Lega, sebbene anche Matteo Salvini non abbia fatto sconti alla demagogia più becera nel conquistare il consenso elettorale a suon di promesse altrettanto improbabili, come l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni e una miracolosa flat tax con la quale abbattere l’iniquo peso della tassazione generale. Tuttavia, da politico ben più navigato, Salvini, probabilmente cosciente delle difficoltà di pervenire alla formazione di un governo con una legge elettorale votata anche da lui, ha puntato alla leadership del centro-destra, convinto della bollitura di Silvio Berlusconi e dell’insignificanza di FdI. L’operazione è andata bene egli ha consentito di assurgere alla guida della coalizione, guida consolidata grazie ai buoni risultati ottenuti alla amministrative in Molise e Friuli. Forte di questa posizione da primo attore il capo della Lega, forte dei risultati di coalizione, ha rivendicato l’incarico di primo ministro, cozzando però sull’impossibilità di formare una maggioranza senza il M5S o l’appoggio del PD. Ovviamente il PD non avrebbe mei potuto accettare di sostenere un governo antitetico alla sua etica politica, mentre il M5S sono rimasti saldamente fermi sul rifiuto di dialogare con una forza politica in cui fosse presente Berlusconi. Da qui un’impasse trascinatasi per oltre due mesi e che ha determinato una situazione di stallo a cui dovrà essere il Capo dello Stato a fornire una via d’uscita.
Sul fronte PD la situazione presenta tratti sconcertanti, sia perché dopo la débâcle elettorale si ritrova nella scomoda posizione di ago della bilancia, sia perché le profondissime divisioni interne, mai placatesi dopo la storica scissione di Bersani e D’Alema, ha un conto aperto con Matteo Renzi, ritenuto la mente grigia di ogni fallimento di dialogo con il M5S nonostante abbia lasciato la segreteria del partito in seguito alla sconfitta elettorale. A prescindere da queste baruffe chiozzotte tutte interne, stupisce che nel partito che ha governato l’Italia per un quinquennio e che ancora oggi in attesa di un nuovo esecutivo continua a dirigere la vita economica e sociale del paese non vi sia stata dal 4 di marzo nessun commento sulle ragioni di una sconfitta e sugli errori che alla sconfitta hanno portato. Non vi è dubbio che la spocchia di Matteo Renzi ed i provvedimenti varati dal suo governo siano le cause della disfatta storica subita dal PD. Ma quantunque queste ragioni siano del tutto chiare il percorso di rifondazione che dovrà essere affrontato da questo partito non può prescindere da un’analisi di questa natura e da un cambiamento di rotta che lo riconcili con il proprio elettorato. In ogni caso bene ha fatto il PD ha rifiutare ogni alleanza con il M5S, verso il quale ha perso parecchio del proprio elettorato, proprio per marcare non solo una diversità di politiche e di programmi, ma perché, a pena del definitivo dissolvimento, non è pensabile un’alleanza o un sostegno con forze che sino a ieri non hanno risparmiato attacchi persino furibondi al suo programma.
In questo scenario il Presidente Mattarella, a cui è tornato in mano il cerino, ha già preannunciato la costituzione di un governo di tregua neutrale, che duri sino a dicembre, data alla quale si scioglierebbero le camere per tornare al voto nel febbraio 2019. In alternativa, in assenza di una fiducia, il ricorso al corpo elettorale sarebbe probabile tra luglio e settembre prossimi, con immaginabili conseguenze sulla ricaduta della già precaria situazione economica del paese.  



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