venerdì, agosto 17, 2012

Gli avvelenatori dell’umanità


Venerdì, 17 agosto 2012
La vicenda dell’Ilva di Taranto, che tanto spazio di polemiche sta trovando sulle pagine della stampa nazionale e internazionale, è una storia esemplare dei tanti misfatti compiuti ai danni dell’ambiente e della salute delle persone in nome  del lavoro da una parte e di un capitalismo disinvolto e senza regole dall’altra.
Dopo anni e anni di sistematiche violazioni di precise norme di legge sul rispetto di contratti di lavoro, omissione di norme antinfortunistiche e leggi sulle emissioni inquinanti, la siderurgia dell’Ilva si ritrova sul banco degli imputati, questa volta per inquinamento e disastro ambientale, la cui gravità sembrerebbe tale e conclamata da aver indotto la procura tarantina ad assumere provvedimenti di sequestro degli impianti ed il fermo dell’attività produttiva.
Le vicende cui si accenna, che hanno subito una brusca accelerazione nelle ultime settimane,  sono ormai note. Così come è noto l’ennesimo braccio di ferro apertosi tra istituzioni e magistratura a seguito del provvedimento di sequestro deciso dalla procura di Taranto degli impianti produttivi Ilva e degli avvisi di garanzia notificati ai vertici della società siderurgica, colpevoli di non aver adottato le misure necessarie per abbattere i veleni dispersi nell’aria e in mare prodotti nelle fasi di lavorazione dell’acciaio.
Fin qui la vicenda sembrerebbe rientrare in una storia ordinaria di omissioni gravi di obblighi precisi in ordine all’assunzione di provvedimenti tesi a salvaguardare la salute pubblica, se non fosse che tale ordinarietà viene meno dovendo valutare che l’Ilva dà lavoro a oltre 20 mila persone, oltre che ad un massiccio indotto, e rappresenta l’impianto siderurgico più grande e tecnologicamente avanzato del vecchio continente. Era, dunque, evidente che le iniziative della magistratura, non più dilazionabili in virtù dei campionamenti di aria, acque e suoli, oltre che degli indici di mortalità per cancro registrati nell’area, facessero scoppiare uno scontro violento tra azienda e magistratura, sindacati e azienda, istituzioni locali e magistratura e persino tra governo e procura di Taranto, oltre che tra sigle sindacali fra di loro. Un bailamme dal quale è difficile prevedere come si verrà fuori, ma nel quale – c’è da star certi – il colpo d’ala all’italiana metterà a tacere tutto in attesa della prossima puntata.
Certo è che ancora una volta sul campo resteranno le macerie vergognose dello scontro tra una magistratura, sì zelante e puntigliosa, ma certamente in inaudito e gravissimo ritardo nell’assumere provvedimenti già dovuti da moltissimi anni, e un governo centrale sceso in campo con ben tre ministri per assestare l’ennesimo colpo alla credibilità degli organi inquirenti, spinto dall’emergenza occupazionale conseguente la chiusura della fabbrica e dall’ormai consolidata abitudine di delegittimare l’operato dei magistrati che intralciano in qualche maniera il loro, talvolta spregiudicato, metodo di gestione del potere e della cosa pubblica.
Eppure ci sono delle evidenze incontrovertibili. Le analisi condotte sui campioni di aria e di acqua marina prelevati dagli esperti, nominati dal magistrato che conduce le indagini, dicono che i valori inquinanti rilevati sono tali da non ammettere equivoci, così come sono inequivoche le prove acquisite sulla corruttela dei periti che in passato erano stati incaricati di svolgere analoghi accertamenti. Accertamenti addomesticati a suon di mazzette e nel disprezzo assoluto della vita di quanti, incolpevoli, hanno vissuto esposti allo stillicidio mortale degli scarichi della fabbrica. Ciononostante, anziché puntare ad un piano d’emergenza per attrezzare rapidamente con sistemi antinquinamento la fabbrica di morte, i ministri inviati sul posto stanno affannosamente cercando la strada per aggirare i provvedimenti dei giudici, preannunciando persino un ricorso alla Consulta per dirimere quello che Corrado Clini, responsabile del dicastero per l’Ambiente, non ha esitato a definire l’ennesimo sconfinamento delle competenze dei magistrati nell’ambito riservato alle decisioni spettanti alla politica in materia di compatibilità ambientale delle attività produttive. Come dire che spetta alla politica stabilire come e quando i cittadini debbono passare a miglior vita e nessuno può permettersi di contestare la legittimità di queste decisioni.
E’ evidente, quindi, che il caso Ilva travalica l’ordinarietà e sconfina in una vicenda di inqualificabile follia e delirio d’onnipotenza di un personaggio con incarichi ministeriali e a cui non mancano né titoli né competenze specifiche in materia, ma che non può certamente arrogarsi il potere di rilasciare patenti al di fuori di ciò che stabilisce la legge e al di sopra del potere di controllo delegato da quelle stesse leggi agli organi giudiziari.
Ma, d’altra parte, da un governo guidato da un simpatico vecchietto, che, per smentire presunte manovre allo studio per correggere il peso insopportabile di una tassazione giunta a livelli demenziali, arriva persino a dichiarare che non solo non vi erano studi in corso per un ritocco dell’Irpef e che tale notizia non la si era voluta dare il giorno del ferragosto per non amareggiare gli Italiani in una giornata di festa, cosa si vuol pretendere? C’è da augurarsi che questo esecutivo di tecnici, dalle capacità sempre più sospette, non decida d’inviare la Severino o la Cancellieri o la Fornero a turno nelle case degli Italiani magari per rimboccare loro le coperte, perché allora sarebbero certe notti d’incubi supplementari a quelli già prodotti dalla loro presenza e dalle loro iniziative  nelle lontane serre d'inverno romane. 
 
(nella foto, una veduta dell'Ilva di Taranto dal mare dalla quale si sprigionano i fumi inquinanti)            

Napolitano, la Procura di Palermo e la Consulta: alla fine avranno perso tutti


Venerdì. 17 agosto 2012
L’iniziativa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nei confronti della procura di Palermo continua a suscitare vivaci polemiche.
A conferma autorevole di quanto già avevamo commentato sulla questione, pubblichiamo un articolo di Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, dal titolo Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione apparso oggi sul quotidiano la Repubblica, che sostanzialmente giunge all’amara conclusione che, comunque si chiuda lo scontro tra in atto, alla fine avranno perso le istituzioni e tutte le parti in causa, senza per questo aver fornito alcun elemento di chiarezza nella squallida vicenda della trattativa tra lo stato e la mafia, che portò alla morte di Paolo Borsellino e, prima di lui, di Giovanni Falcone.
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Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.
Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.
Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.
A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.
C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.
"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.
A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.
La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.
Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?
Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.
Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira  -  la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica  -  attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?
GUSTAVO ZAGREBELSKY

(nella foto, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky)