Napolitano, la Procura di Palermo e la Consulta: alla fine avranno perso tutti
Venerdì. 17 agosto
2012
L’iniziativa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nei
confronti della procura di Palermo continua a suscitare vivaci polemiche.
A conferma autorevole di quanto già avevamo commentato sulla
questione, pubblichiamo un articolo di Gustavo Zagrebelsky, già presidente
della Corte Costituzionale, dal titolo Napolitano,
la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione apparso oggi sul quotidiano la
Repubblica, che sostanzialmente giunge all’amara conclusione che, comunque si
chiuda lo scontro tra in atto, alla fine avranno perso le istituzioni e tutte
le parti in causa, senza per questo aver fornito alcun elemento di chiarezza
nella squallida vicenda della trattativa tra lo stato e la mafia, che portò
alla morte di Paolo Borsellino e, prima di lui, di Giovanni Falcone.
*****
Eterogenesi dei fini.
Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella
trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più,
non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È
davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il
conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani,
abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato
d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito,
isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su
ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la
"trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla
straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano
non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire
parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa
costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è
grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.
Questa è una prima
considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte
costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che
il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa
intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da
altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a
pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si
tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il
diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla
spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema
costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come
istituzione, quanto come persona.
Non è questione, solo,
di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto
straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa
costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un
giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e
personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al
confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente
l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono
entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante,
al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che
si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi
che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso
in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa
ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza
schiacciante.
A perdere sarà anche
la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata
d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il
giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così
possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile,
d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della
tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della
tranquillità del diritto.
C'è ancora dell'altro.
Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene
che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi,
riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e
quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta
espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e
della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica
dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto
tradimento.
"In ogni
caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale
"Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con
poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle
intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni
indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a
parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei
processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne
riportano i contenuti. Niente di niente.
A questo punto, si
entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi.
Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per
far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che
occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare
con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle
quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una
lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale
risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò
che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i
cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo
modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo
il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per
alto tradimento e attentato alla Costituzione.
La
"irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità",
"intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie,
obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole
e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è
chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e
l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si
chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale,
per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda
il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della
Repubblica.
Ma, in presenza di
tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che
facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe,
propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in
forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei
Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della
Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma
di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle
intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a
venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del
Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente,
atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?
Coinvolgimento in una
"operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze
di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una
riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei
pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza
seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di
chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si
manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga
le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie
le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si
appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti"
tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori
così come la si è ricevuta dai predecessori.
Nella Repubblica,
l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma
caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla
Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto
è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro
tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato
ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27
giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo
per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte
invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui,
in ultimo, il conflitto mira - la distruzione delle intercettazioni, per la
parte riguardante il presidente della Repubblica -
attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza
previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta
con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse
che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la
legge?
GUSTAVO ZAGREBELSKY
(nella foto, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky)
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