martedì, maggio 21, 2013

Le misure per il lavoro che non c’è


Le parole di Napolitano alla commemorazione di D’Antona ucciso dalle BR – L’Italia nella morsa della crisi economica e della disoccupazione – Quali misure per uscire dal tunnel ed offrire un futuro ai giovani – Gli effetti velenosi della famigerata legge Fornero sulle pensioni



Martedì, 21 maggio 2013
L’Italia sta vivendo una «crisi angosciante e drammatica» che «impone alle istituzioni, alle forze sociali e alle imprese la messa in atto di efficaci soluzioni per rilanciare l'occupazione e lo sviluppo economico e sociale del Paese».
Queste le parole del Capo dello Stato in occasione dell’anniversario della morte di Massimo D’Antona, il docente e giuslavorista consulente del Ministero del Lavoro passato alla storia per gli studi giuridici sulla natura dei diritti derivanti dal contratto di lavoro non assimilabili ai diritti discendenti  da qualunque nozione generale di contrattualistica. Ucciso dalle BR come il suo collega Marco Biagi, ispiratore della legge 30 del 2003 sulla flessibilità del lavoro, D’Antona ha scritto pagine importantissime in tema del lavoro, che hanno conferito un profilo rilevante al prestatore d’opera: «Ci sono dei diritti fondamentali nel mercato del lavoro che devono riguardare il lavoratore, non in quanto parte di un qualsiasi rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come proprio programma di vita, che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e personalità». Parole nobili, tese a qualificare il lavoro come una componente fondamentale della vita e della cittadinanza; parole che suonano quasi beffarde nell’epoca che stiamo vivendo.
Una commemorazione amarissima, dunque, se si pensa che con i presupposti sopraddetti e a valle della normativa sulla contrattualistica flessibile, varata proprio attingendo agli studi di D’Antona e di Biagi, oggi il Paese registra paurose percentuali di disoccupazione particolarmente tra i giovani, cioè tra coloro che avrebbero dovuto beneficiare delle nuove opportunità d’impiego offerte da una normativa innovativa e progressista. Le statistiche parlano di un 39% di disoccupati, ma la distribuzione territoriale di questo dato, assai disomogenea, è stimata in punte del 55% al Sud, con prevalenza per le donne.
La commemorazione di quest’anno cade in un momento particolare, poiché il governo Letta appena insediato sembrerebbe avere allo studio una serie d’iniziative volte a frenare il crescente fenomeno, quantunque nessuno si faccia illusioni su chissà quali risultati si possano realizzare nel clima di perdurante crisi economica.
Certo è che questa emergenza sociale ci colpisce particolarmente, al punto che una recente rilevazione su dati comunitari  vede il nostro Paese al venticinquesimo posto tra i 27 membri dell’UE, appena davanti alla Spagna ed alla Grecia. Dunque, qualunque sia l’ipotesi allo studio del governo una soluzione a questo gravissimo problema sociale non è più differibile e, allo stesso tempo, non è più accettabile si faccia finta di non capire che il nocciolo della questione risiede nell’urgente modifica di due provvedimenti di per sé esiziali ai fini di una politica occupazionale incisiva: il sistema pensionistico e le norme sulla flessibilità contrattuale.
La questione non riguarda certo l’ordine con cui va affrontata la materia. Anzi, è probabile che la contemporanea trattazione di sistema pensionistico e flessibilità dei contratti di lavoro costituisca il metodo decisivo. Non è infatti più possibile fingere di ignorare che la riforma Fornero del sistema pensionistico ha inferto un colpo mortale al mercato del lavoro, chiudendo definitivamente ogni speranza di ricambio generazionale. L’innalzamento dell’età per il pensionamento, se da un lato ha consentito alle casse pubbliche di programmare notevoli risparmi in termini di erogazioni pensionistiche, dall’altro, ha definitivamente bloccato ogni possibilità di creare occupazione sostitutiva, complice peraltro la crisi economica che di per se stessa ha fortemente contratto l’impiego esistente.
Sull’altro fronte, sono anni che si continua a predicare che le regole sulla flessibilità, probabilmente positive in fasi di sviluppo e di piena occupazione, sono divenute un potentissimo veicolo per lo sfruttamento selvaggio  e per la precarizzazione della forza lavoro, non consentendo alcuna stabilità né una remunerazione dignitosa sulla quale poter impostare un minimo di futuro. E’ pertanto consequenziale che la crisi economica abbia prodotto primariamente l’espulsione dal mercato dei lavoratori precari, cioè di coloro che per la natura del rapporto non godevano di alcuna tutela conservativa del posto di lavoro. Successivamente, grazie alla inesistenza di garanzie e alle remunerazioni da fame, i contratti di precariato sono serviti a turare i pochissimi buchi che si sono aperti negli organici delle imprese, quantunque tali “buchi” siano divenuti rari a causa della gravissima recessione indotta dalla crisi economica e dalle assurde politiche fiscali e di taglio della spesa pubblica per investimenti decisa dal famigerato governo dei professori. Il risultato è stato di una disoccupazione montante e l’esplosione del ricorso a sussidi d’ogni genere, nel tentativo di mitigare la caduta verticale dei redditi delle famiglie.
Nella fase attuale, dunque, il Paese si trova nel classico cul de sac della deflazione e della recessione, dal quale uscire, senza cambiare le regole del gioco, appare, più che arduo, del tutto impossibile.
La soluzione, pertanto, non può che venire da scelte coraggiose e, sotto certi aspetti, sgradite a quelle categorie sociali che sino ad oggi hanno tratto ingenti vantaggi dai metodi di gestione della crisi. E in primo luogo sarebbe opportuno che si procedesse alla sospensione della famigerata legge 30, che ha permesso un utilizzo selvaggio del lavoro profittando dello stato di bisogno e con retribuzioni terzomondiste. Nello stesso tempo sarebbe doverosa una rimodulazione dei criteri d’uscita per pensionamento, in modo da favorire la sostituzione di manodopera anziana con lavoratori giovani e inoccupati. Il tutto dovrebbe essere accompagnato da incentivi previdenziali che invoglino i lavoratori anziani a lasciare il lavoro e incentivi fiscali significativi che stimolino le imprese ad assumere. Queste misure, possibilmente accompagnate da un piano di rilancio degli investimenti pubblici in settori trainanti per gli investimenti privati – recupero territoriale, ammodernamento dei sistemi di trasporto e mobilità, tutela del patrimonio artistico e archeologico, infrastrutture turistiche, ecc., - potrebbero effettivamente mettere il Paese in condizione di avviare un piano strutturale di ripresa, che permetta di intravvedere l’uscita dal lungo tunnel in cui da tempo ci si è inoltrati.


mercoledì, maggio 15, 2013

Governo e pattume



Il PD implode e s’affida all’inciucio con il PdL per non morire – Molti strappano la tessera e giurano di non votarlo più - La condanna di Berlusconi scatena l’ennesima gazzarra, e i suoi problemi giudiziari non sono ancora finiti – I ministri in quota PdL in piazza contro le istituzioni che rappresentano – E’ ormai un’Italia da cui fuggire?

Mercoledì, 15 maggio 2013
Chi aveva sperato che le elezioni generali  avrebbero potuto rappresentare l’inizio di una lunga fase di pulizia nella casa della democrazia italiana certamente s’è ritrovato deluso.
Ma il termine non rende affatto lo stato d’animo di quanti hanno assistito increduli prima alla farsa dell’elezione del nuovo Presidente di questa sfasciatissima Repubblica – conclusasi con la rielezione di Giorgio Napolitano  e contrassegnata dall’implosione del PD, vincitore del voto sul piano numerico -  e poi allo sconcertante varo di un governo a guida PD in collaborazione con quel PdL autore del grande sfascio d’Italia con il quale prima, durante e dopo la campagna elettorale i democratici avevano giurato e spergiurato che mai avrebbero potuto condividere alcunché.
Naturalmente le poche righe sopra condensano una serie di vicende a dir poco allucinanti che hanno contrassegnato la vita pubblica del Paese, rappresentate dallo sfascio del PD e la morte politica di Pierluigi Bersani, i deliri dell’M5S di Grillo, la marcia su Milano degli squadristi nominati in seno al movimento fascista PdL di Silvio Berlusconi e, ultime, le vicende giudiziarie del padrone di questo partito, emblema nella geografia del mondo occidentale della politica intesa come lasciapassare per la commissione di ogni nefandezza.
E che di nefandezze si tratti potremmo oggi dire che se ne parli al di là d’ogni ragionevole dubbio, visto che un tribunale d’appello ha confermato che Silvio Berlusconi è un delinquente a tutti gli effetti, confermandogli una condanna a ben quattro anni di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, e che lo stesso personaggio rischia da qui a breve un ulteriore condanna in altro processo per i reati infamanti di prostituzione minorile e concussione ad ulteriori sei anni, con annessa interdizione perpetua.
Tutto questo mentre non solo la schiera dei servi, dei leccaculo e dei lobotomizzati continua a martellare i testicoli degli Italiani con assurde accuse ai magistrati di persecuzione giudiziaria ai danni del loro vergognoso leader, ma tenta d'insinuare il sospetto che dietro le decine di processi a carico del suo padrone si celi una congiura vera e propria, dimostrata proprio dall’incredibile numero dei processi a suo carico. Mai a nessuno di questi – ma c’è da eccepire lo stesso appunto a coloro che muovono critiche alla figura impresentabile di Berlusconi – è venuto in mente di sottolineare che il numero dei processi cui è sottoposto il “delinquente abituale” dipende esclusivamente dalla mostruosa quantità di reati commessi e che sono venuti alla luce e che, dunque, ai danni dell’ex Unto del Signore non vi è alcuna persecuzione, ma solo l’adempimento di un obbligo di legge che non prevede facoltativa l’azione giudiziaria. D’altra parte, se il nostro uomo non si fosse avventurato in storie di corruzione, di concussione, di prostituzione, di compravendita di parlamentari ed altre schifezze simili, nessuno si sarebbe mai potuto inventare decine di processi a suo carico, costruendo falsi elementi probatori. Dunque, questa semplice e banale considerazione fa cadere qualunque ipotesi di congiura e disvela i miserabili intenti di tutti coloro che, non contenti d’essersi giocati la faccia in parlamento con la buffonata del voto sulla presunta nipote di Mubarak, insistono su tesi innocentiste basate su malevole fantasie.
Ma quel sconvolge non è tanto il frullato d’aria fritta che innocentisti prezzolati e garantisti in malafede continuano a somministrare agli inguaribili gonzi che infestano lo Stivale, quanto il paradossale comportamento del PD, che in nome d’un senso di responsabilità assai discutibile verso il Paese e i suoi problemi, è caduto nella trappola tesagli dagli scagnozzi del delinquente di Arcore ed ha accettato di sedere allo stesso tavolo di governo al fianco di personaggi che non perdono occasione per dimostrare quale sia il loro infimo senso dello stato e delle istituzioni e la direzione cui tendono con la partecipazione a questo governo d’inciucio. Basterebbe e avanzerebbe il comportamento tenuto da Alfano, Lupi e degli altri pidiellini doc, in occasione della manifestazione di Brescia all’indomani della sentenza di condanna per corruzione di Berlusconi, per fugare i dubbi. Ma queste prove di strumentale pacificazione nazionale a Letta sembrano non bastare, convinto com’è che un appello ai suoi ministri di tenersi lontani da altre manifestazioni o da talk show televisivi sia sufficiente a garantire una separazione tra responsabilità di governo e vicende private del leader di quella maggioranza che lo sostiene.
«Non so se il Partito democratico sia ancora il mio partito» ha affermato Francesco Guccini da Bologna, intervistato in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro discografico. Un’affermazione che sostanzia il pensiero di tanti, di molti di coloro che avevano affidato al quel partito le speranze di un riscatto dell’Italia per uscire dal fango in cui è ormai precipitata con il ventennio berlusconiano. E quello di Guccini è l’addio amaro di uno che era sempre stato come tanti fiducioso che alla fine quella creatura politica ce l’avrebbe fatta. Quest'amara conclusione è il risultato delle tante speranze tradite e di quell’assurda complicità con Silvio Berlusconi e il suo Pdl consumatasi con il varo del governo Letta.
D’altra parte, è altresì stupefacente come il PD non si sia reso e non si renda ancora conto di quanto l’abbraccio mortale del PdL  e le posizioni che prima o poi sarà costretto ad esternare sulle vicende personali di Berlusconi costituisca  la sala di rianimazione dalla quale difficilmente potrà sperare d’uscire in vita.
Sebbene parecchi non vi credessero e avessero rimosso quell’infausta ipotesi, le parole di Guccini dell’altra sera che rammentavano un suo sinistro presagio, «Alle prossime elezioni vincerà Berlusconi con la promessa di togliere l’Imu e io mi dimetterò da Italiano», hanno trovato sconcertante conferma: Berlusconi ha perso nei numeri, ma ha vinto nei fatti e continua a condizionare la vita disgraziata di un Paese disperato alla ricerca di una via d’uscita.
Non vorremmo che adesso non resti che passare all’ultima fase: la restituzione del passaporto per la ricerca di una nuova e meno umiliante cittadinanza.