giovedì, aprile 30, 2015

La democrazia del ricatto: o mi voti o vai a casa



Il premier Renzi impone la fiducia sull’Italicum – Solo due precedenti di fiducia in cent’anni su una legge elettorale – La minoranza del PD protesta e in tanti votano contro o si astengono – Un gravissimo atto eversivo che evoca il ventennio fascista



Giovedì, 30 aprile 2015
Un atto di debolezza o un atto di responsabilità verso il Paese. Queste sostanzialmente le valutazioni che si fanno sulla decisione di Renzi di imporre la fiducia sull’Italicum. Ma a chi scrive il dilemma non appare in questi termini, poiché si sottovaluta quanto, più semplicemente, la decisione del segretario del PD e capo del governo rappresenti un puro atto di arroganza e di disprezzo per il dissenso, quel dissenso di cui una legge come quella elettorale dovrebbe assolutamente tener conto per potersi presentare come uno strumento di reale e condivisa democraticità. Quindi non debolezza derivante dal disfacimento del PD e dal crollo degli accordi con Berlusconi e soci; né atto di responsabilità verso il Paese, che con un tasso di disoccupazione ormai al 13% è certo se ne freghi bellamente della legge elettorale e delle scaramucce delle camarille presenti nella serra delle istituzioni.
Il dubbio che è stato più volte espresso e che ritorna imperioso è che il baldanzoso ex-sindaco di Firenze sia convinto che in fondo la politica debba essere fatta di pura sopraffazione e che lo scettro del comando, più che un simbolo di potere, debba servire a mazziare senza riguardo quanti osano interferire con i suoi disegni palesemente autoritari. La prova lampante di questa distorta e nostalgica visione è nelle 39 richieste di fiducia imposte al parlamento dalla nomina del suo direttorio, con le quali ha estorto l’approvazione di misure che hanno cancellato persino l’ultimo baluardo in difesa del lavoro dallo strapotere padronale di licenziare a proprio piacimento. Ma se il ricorso alla fiducia può avere un senso quando si tratti di decidere sull’emanazione di provvedimenti di una certa urgenza, in qualche modo essenziali per la risoluzione di contingenti interessi dello Stato, nulla può giustificarne l’imposizione se la materia in discussione ha risvolti costituzionali e, comunque, nulla ha a che vedere con la continuità improrogabile della vita pubblica.
Questo presupposto anzi dovrebbe indurre un governo responsabile e scevro da tentazioni dall’odore golpiste di proporre una modifica costituzionale che limiti la pratica del ricorso alla fiducia a casi ben individuati, che non costringano il parlamento a sottostare allo squallido ricatto del primo ducetto di turno che approfitta dello strumento per mortificarne il ruolo e le finalità.
In altri termini, non è concepibile in una democrazia occidentale evoluta che con la minaccia di privarti della poltrona s’imponga l’approvazione della prima schifezza partorita dagli umori di un capo di governo.
E su questo assunto si pone un’altra questione di democrazia, che investe direttamente il ruolo dei tanti peones che bivaccano nel parlamento al solo scopo di godersi il lauto appannaggio riconosciuto loro da leggi autoreferenziali. Sì, perché quello del dissenso che grida alla violenza in questi frangenti e si trincera sull’Aventino del non voto o del voto contrario farebbe molto più rumore se disertasse l’aula in cui si consuma la farsa del voto di fiducia e facesse votare con la fiducia solo a Renzi ed i suoi boys una legge che, in quanto ad infamia e lesione dei più elementari diritti costituzionali, che non è di certo seconda a quell’orrendo Porcellum a cui intende sostituirsi.
E tragicamente anche oggi quasi una nemesi della storia vissuta 90 anni fa, l’Italia si trova da una parte un personaggio proveniente dalla sinistra ad imporre un golpe strisciante con una legge elettorale che reca in sé tutti i requisiti per disfarsi del dissenso e, dall’altro, una questione Libia, che oggi è di sicurezza e non di ambizioni colonialiste fuori moda, per la soluzione della quale non ha fatto mistero in qualche passaggio che un intervento militare con il quale mostrare i muscoli non sarebbe stato scartato.
Un altro elemento che dovrebbe preoccupare la pubblica opinione è la continuità che sta evidenziando Renzi rispetto al suo predecessore Berlusconi, una continuità perniciosa perché basata su proclami roboanti più che su fatti tangibili, di manifestazioni di potere autoritario, di insensibilità ai problemi delle classi più deboli, di sudditanza e acquiescenza ai poteri forti nazionali e internazionali, di modestissimo peso politico nel consesso europeo nel quale è obbligato a subire le imposizioni di Merkel, Draghi e  Lagarde che lasciano intendere che il non rigare dritto porterebbe ad un commissariamento del Paese.
Una cosa è certa in ogni caso e cioè che nell’ambito del maggior partito della sinistra non sono mancati nel tempo i dissensi, anche forti, e le scissioni, ma mai nessuna segreteria è giunta al punto di non ritorno tirando la corda come quella di Matteo Renzi: sostituire i membri della Commissione affari costituzionali in dissenso con la linea della segreteria è stato un atto  mentecatto, tipico di regimi dittatoriali sudamericani, sicché l’atto finale del voto di fiducia, come ha scritto Ezio Mauro nel suo editoriali di ieri, è divenuto un «attestato di sfiducia reciproca tra Renzi e la sinistra Pd, una sfiducia così forte da finire fuori controllo, fino a una decisione che sfida il Parlamento, ma soprattutto il buon senso. Renzi ha il diritto di portare avanti le sue riforme, - conclude Mauro, - anche la legge elettorale, e il Paese ha bisogno di cambiamento. In politica però non conta solo il "quanto", cioè il saldo del voto finale, ma anche il come, vale a dire il percorso, le alleanze, il consenso che si sa costruire».
E in questa prospettiva chissà che la cosiddetta minoranza del PD al voto finale non abbia uno scatto di dignitoso orgoglio e mandi a casa quella che ogni giorno di più appare solo la macchietta del triste personaggio del famigerato ventennio del secolo scorso.



giovedì, aprile 23, 2015

Italicum Waterloo di Renzi?



Continua la guerra tra i dem – Mossa inaudita di Renzi che sostituisce gli oppositori in seno alla Commissione Affari Costituzionali – Le ragioni dell’opposizione sono tutt’altro che peregrine – Il ruolo del Capo dello Stato nello scontro in atto e per la tutela della democrazia
Giovedì, 23 aprile 2015
Il lungo silenzio che ha contraddistinto questo blog, contrariamente a quanto qualcuno ha sospettato, non è certo sintomo di pedissequa condivisione delle vicende politiche che hanno segnato la vita pubblica del Paese. A parte le connotazioni del tutto volontaristiche di questo blog e gli impegni di altra natura che assorbono il tempo a disposizione, potremmo anche confessare che siamo rimasti ad osservare non senza sbalordimento l’incalzare delle gesta di Renzi e delle sue truppe cammellate, per meglio formulare giudizi complessivi e critiche maggiormente basate su dati di fatto consolidati.
Considerato che sono stati spesi fiumi d’inchiostro sul discutibile provvedimento degli 80 euro, sulla riforma del Senato, sullo scellerato jobs act, sugli improvvidi accordi del Nazareno con Berlusconi e soci, franati all’alba dell’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, vale la pena soffermarsi sulla guerra interna ancora in corso all’interno del PD tra i cosiddetti renziani e la consistente minoranza del partito, giunti ormai a rappresentare ben un terzo della compagine dem. L’argomento principe rimasto sul tappeto, che sta vivendo una fase di scontri senza esclusione di colpi e che ad ogni giorno che passa sembra preludere alla resa dei conti, è l’Italicum,  cioè il progetto di nuova legge elettorale varato con l’appoggio di FI in forza dell’accodo del Nazareno, la cui approvazione è oggi messa in discussione persino da quel Berlusconi per gli interessi del quale ha assunto la fisionomia contestata dalle componenti minoritarie del PD.
La vicenda ha dei risvolti a dir poco sconcertanti, poiché, se non per oscuri fini egemoni ed autoritari che hanno avvinto Renzi, non si capisce l’ostinazione con la quale il capo del governo e segretario del PD insiste nel voler mantenere inalterato il corpo del provvedimento già votato al Senato e che invece i gruppi riferiti a Bersani, Cuperlo, Civati, Speranza e Boccia, vorrebbero emendato alla Camera.
Com’è noto, oggetti del contendere sono l’espressione delle preferenze da parte del corpo elettorale nella scelta dei candidati da eleggere ed il quorum previsto per accedere al premio di maggioranza. Tali aspetti della legge, da sempre contestati dalla minoranza PD, hanno scatenato una battaglia senza quartiere, al punto che al Senato l’approvazione del provvedimento è avvenuta con una maggioranza risicata di alcuni voti. Alla Camera, dove il provvedimento è stato inviato in Commissione prima di passare al voto dell’Aula, per anticipare la presentazione di emendamenti contrari Matteo Renzi, con un provvedimento mai visto in una democrazia occidentale, ha deciso di rimuovere i componenti sgraditi sostituendoli con altrettanti yes men di sua fiducia che gli potessero garantire l’approvazione del testo di legge da sottoporre al voto del Parlamento senza variazione alcuna rispetto al testo passato al Senato.
Dire che quella di Renzi è stata un’iniziativa da democrazia nord coreana o da parlamento bulgaro degli anni più bui per disfarsi dell’opposizione interna non fa sufficiente giustizia della terminologia che effettivamente bisognerebbe usare in questi casi. Certo è che coloro che l’accusano di deriva autoritaria e d’aver compiuto un atto eversivo delle regole democratiche  non hanno torto e che con il trascorrere del tempo lo spavaldo ex-sindaco si stia rivelando un pericoloso bullo è sostanzialmente nei fatti.
E che la componente minoritaria del PD abbia ragioni da vendere nel contestare quegli aspetti della nuova legge elettorale è confortato dalla valutazione che del provvedimento danno parecchi costituzionalisti. «Non c’è dubbio. Intanto l’Italicum è un’emerita porcheria. E soprattutto a mio avviso è palesemente incostituzionale, confermando tutti i profili d’illegittimità ai quali la Corte àncora la decisione sul Porcellum, relativi alla rappresentatività delle assemblee e alla libertà e all’eguaglianza del diritto di voto, come “il più fondamentale dei diritti”», ha affermato Massimo Villone, emerito costituzionalista dell’università Federico II di Napoli ed ex senatore in un intervista a il Fatto Quotidiano. «Sotto il profilo della rappresentatività, la Corte dice che si può limitare a beneficio della governabilità,»continua Villone, - «ma con un iperpremio di maggioranza e in aggiunta anche un ballottaggio, sono sicurissimo di avere la maggioranza. E allora le soglie, a che servono? Sono un limite inutile ed eccessivo, di cui non c’è bisogno, per garantire la governabilità. In realtà puntano a una semplificazione forzosa del sistema politico, che non è un fine costituzionalmente rilevante e bilanciabile con il voto, e anzi si pone in contrasto con l’art. 49 della Costituzione.»
La legittimità costituzionale del provvedimento investe poi anche la questione delle candidature plurime oltre che quella delle liste bloccate. A mero titolo d’esempio s’immagini di esprimere la preferenza per un certo candidato, ma di non voler eletto il capolista in cui il nome di quel candidato è compreso. Non v’è dubbio alcuno che quella preferenza contribuirà a far eleggere anche quel capolista che non avrei mai votato. Nello stesso tempo votare un certo candidato in un dato luogo, per esempio Catania, che magari s’è presentato in un’altra città, per esempio Bari, qualora questo candidato dovesse optare per l’elezione a Bari il voto espresso non avrà contribuito all’elezione di un altro candidato a Catania a cui non era stato assegnato quel voto? E se questo non fosse sufficiente a dimostrare che l’Italicum reca in seno perversioni persino peggiori del Porcellum, ci si è resi conto che con il meccanismo del ballottaggio e del premio di maggioranza l’unico partito che avrà candidati eletti anche con le preferenze e sarà quello che avrà vinto, mentre gli altri avranno eletti provenienti dalle liste bloccate. «Ricordiamoci poi che la legge elettorale vale per la Camera, ma s’intreccia con la riforma del Senato,»ha avverte il professor Villone, che poi conclude: «Per com’è disegnato è un Senato dei nominati: così si colpisce ancora il principio di rappresentanza dei cittadini e si aggrava il vizio sistemico. Aggiungo: arriveremmo a un governo padrone del parlamento, grazie alla ghigliottina prevista nella riforma. Secondo me la Costituzione serve a limitare il potere, non a ingigantirlo a danno della partecipazione democratica.»
Alla luce di queste considerazioni ben si comprende come il malumore interno al PD sia tutt’altro che uno strumentale dissenso teso ad indebolire politicamente la figura di Matteo Renzi. E’ probabile che un po’ per indole e un po’ perché offuscato dalle pressioni di cattivi consiglieri il capo dell’esecutivo si sia lasciato prendere la mano dalla frenesia di chiudere un capito lo ormai aperto da troppo tempo. Tuttavia sottovaluta le conseguenze sia di un frettoloso epilogo della questione che le reazioni tutte da verificare del Capo dello Stato, cui competerà la firma finale di promulgazione della legge.
A questo proposito non si può trascurare che Sergio Mattarella viene dalla Corte Costituzionale, quell’organo costituzionale di cui era membro proprio ai tempi della bocciatura del Porcellum, cui l’Italicum in qualche maniera sembra riprendere i punti peggiori su cui si è focalizzata l’attenzione della Corte. E il sospetto che Mattarella possa anche opporsi in prima battuta di apporre la sua firma sul clone di quella legge infame questa volta non potrà certo essere superato con la sostituzione dell’inquilino del Quirinale.