martedì, luglio 07, 2015

Grecia, l’ora della verità

Fra qualche ora riprenderanno i negoziati tra la Grecia e l’Europa – Merkel e Hollande fanno sapere che i margini per un’intesa sono ridotti all’osso – Tsipras più forte in patria, ma più debole a Bruxelles, rischia di pagare il duro prezzo della sfida referendaria lanciata all’Europa

Martedì, 7 luglio 2015
Il referendum greco della scorsa domenica ha aperto definitivamente una fase nuova nel cammino dell’Europa. E’ infatti la prima volta che uno stato membro dell’Unione – non un semplice aderente, ma un paese che fa parte dell’Eurogruppo, cioè di quell’aggregazione che adotta la moneta unica e, dunque, segue un percorso di politiche economiche e finanziarie più stringente – ricorre all’espressione somma della democrazia per accettare o respingere le regole imposte ed alle quali dovrebbe attenersi per continuare a sedere nel consesso dei paesi che hanno adottato l’euro rinunciando alla propria moneta nazionale.
La circostanza è di per sé straordinaria, poiché ha messo a nudo i limiti di un’organizzazione sovrannazionale in cui le istituzioni, le strutture di potere, la leadership politica navigano in un mare di confusione e di approssimazione a dir poco esemplare. I segnali di questa pania in cui sembrano muoversi le istituzioni europee erano evidenti da tempo, così come era chiaro da tempo che la stanza dei bottoni non era a Bruxelles, ma era quanto meno affiancata da una saletta nella quale Germania e Francia, affiancate di volta in volta da qualche seconda linea, assumevano le decisioni e dettavano la linea generale.
E che non si tratti di una scoperta improvvisa ma di una constatazione basta osservare le modalità con le quali sono state gestite da parte dell’UE le questioni spinose più recenti. Chi ha seguito le vicende russo-ucraine sa bene quale sia stato il ruolo di Angela Merkel e di François Hollande, un incontestato ruolo di primo piano in nome e per conto dell’intera Unione, in virtù del quale hanno ritenuto di potersi porre come interlocutori diretti di Vladimir Putin e come mediatori delle posizioni di Petro Oleksijovyč Porošenko, presidente dell’Ucraina, e di Barack Obama, come se Bruxelles non avesse una certa signora Mogherini, soprannominata lady PESC, deputata sulla carta alla gestione della politica estera e della sicurezza comune dell’Europa.
Parimenti, il duo franco-tedesco ha da sempre assunto di fatto la guida delle politiche economiche e finanziarie dell’area euro in sovrapposizione alla Commissione – una sorta di governo – al quale sono delegati i poteri di controllo dell’attuazione delle politiche europee nell’ambito degli stati membri. In quest’ambito sono state varate le politiche di risanamento di Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, ovviamente con un occhio privilegiato agli interessi della coppia egemone che non ha esitato ad imporre l’applicazione di rigorose misure deflattive in direzione di un risanamento del rapporto deficit/PIL ai paesi nei quali tale rapporto superava il 3%.
Premesso dunque che Germania e Francia non avrebbero alcun potere formale di condizionare il funzionamento dell’UE, sta di fatto che le politiche varate dall’Europa, proprio perché condizionate da precisi interessi, hanno finito per creare attorno all’asse franco-tedesco un territorio brullo e arido, in cui alligna povertà diffusa, disoccupazione, crollo della produzione industriale, pressione fiscale oltre il sostenibile, progressiva distruzione del welfare e, cosa che paradossalmente più conta, un odio crescete nei confronti di un’Europa che con i suoi diktat ha distrutto ogni speranza di benessere, deluso le aspettative di intere generazioni che sull’integrazione avevano riposto grandi speranze e ,soprattutto, ha inflitto un colpo mortale a quel principio di solidarietà alla base dell’idea di Europa unita.
Il caso Grecia, ultimo in ordine di tempo, è emblematico. E’ ormai un lustro che l’Europa tenta di raddrizzare il corso economico di un paese allo sbando, vittima di scellerate politiche di dissolutezza, che nonostante i correttivi imposti sprofonda sempre più nella melma di un debito pubblico dalle dimensioni inarrestabili. Ma il paradosso non sta nell’incapacità dei Greci di fare i sacrifici: i tagli all’occupazione nella pubblica amministrazione sotto il governo di Antōnīs Samaras sono stati micidiali, così come sono stati al di là di ogni tolleranza i tagli delle retribuzioni, l’azzeramento dei servizi sanitari e il drenaggio di risorse attraverso l’incremento della tassazione. Oggi la Grecia presenta un rapporto deficit/PIL vicino al 200%, un tasso di disoccupazione prossimo al 30%, che supera il 65% tra i giovani, ed un’evasione fiscale da parte delle classi più abbienti per parecchie decine di miliardi. Il gravissimo errore compiuto attraverso l’imposizione di politiche economiche restrittive – peraltro generalizzato in tutte le economie continentali in cui si è dovuto intervenire – è comunemente riconosciuto nell’assoluta incapacità di non realizzare che nessun sacrificio può essere imposto senza creare comunque le condizioni per una ripresa della macchina produttiva. Aumentare la pressione fiscale, espellere la cosiddetta disoccupazione nascosta  per ridurre i costi, tagliare le pensioni ed i servizi sociali, aumentare il tetto per l’accesso alla pensione avrà certamente l’effetto di tagliare la spesa, ma è miopia non rendersi conto che questi tagli selvaggi non finiscano per incidere in una spirale mortale sul livello dei consumi, degli introiti fiscali, sul ricambio occupazionale e, dunque, per vanificare buona parte delle misure tese all’abbattimento del deficit dello stato: i dati macroeconomici greci dicono che il paese in un quinquennio ha bruciato il 25% del PIL, con un accrescimento pauroso del tasso di povertà. Né deve ingannare il dato sulla produzione industriale, che nel primo semestre del corrente anno registra una crescita di circa il 2%, considerato che nel periodo 2008-2013 il dato registra una contrazione superiore al 30%.
Tra poche ore Alexis Tsipras, forte di uno storico successo referendario, presenterà all’Europa un piano alternativo a quello bocciato dai Greci domenica scorsa. E come segnale di buona volontà a negoziare ha chiesto le dimissioni a Yanis Varoufakis, quel ministro dell’economia così indigesto al suo omologo tedesco Wolfgang Schäuble. Non è ancora dato sapere quale fortuna potrà avere il piano approntato in queste ore dal premier ellenico, sebbene Merkel e Hollande abbiano già fatto sapere che i margini di manovra sono assai risicati.
Certo è che il ricorso al referendum ha rappresentato per il prestigio tedesco un vulnus rilevante e per l'Europa un precedente assai preoccupante, al punto da non potersi escludere, come osserva oggi Ezio Mauro su la Repubblica, che «Per una preoccupazione politica comprensibile e per un istinto burocratico di conservazione, Bruxelles potrebbe reagire a questa vera e propria crisi di statualità europea facendo pagare il conto interamente ad Atene, con un default controllato come esempio negativo oggi per domare possibili ribellioni domani, magari di Podemos in Spagna, di Le Pen in Francia, di Grillo o Salvini in Italia». Il che sarà anche comprensibile sul piano del primato delle istituzioni, ma mai si potrà parlare di successo quando l’interlocutore – sarebbe il caso di parlare di vittima -  è costretto ad accettare un accordo sotto la minaccia di una pistola puntata alla tempia o con un cappio al collo al cospetto di un boia pronto a spalancargli la botola sotto i piedi. Un Europa così concepita somiglia troppo a quella agognata da un anonimo austriaco divenuto tragicamente celebre, che profittò della gravissima crisi economico-sociale della Repubblica di Weimar per tentare di imporre la propria egemonia nel continente. Gli ottant’anni trascorsi da quella sconsiderata esperienza dovrebbero aver insegnato che estorcere un consenso calpestando l’orgoglio e la dignità di un popolo nasconde in sé il germe di una ribellione che presto o tardi esplode con conseguenze imprevedibili.
Nella foto, il dimissionario ministro delle finanze e dell'economia greche Yanis Varoufakis
 

lunedì, luglio 06, 2015

Il destino dell’Europa e della Grecia ad un bivio



Il popolo greco dice no ai diktat dell’Europa – Ora la Grecia è ad un passo dal baratro – Ma se Atene non ha motivo di gioire, Bruxelles ha molto da temere da un default ellenico – Nella partita in cui sembrano tutti aver perso l’unico vincitore è la democrazia


Lunedì, 6 luglio 2015
L’idea di un tavolo di poker in cui sono seduti Merkel, Junker, Lagarde e Tsipras sarà balenata a molti, visto che quella che si  sta giocando a Bruxelles è divenuta una partita tra giocatori provetti ed esperti di bluff e la posta in gioco è di parecchie centinaia di miliardi di euro.
Se così fosse avremmo un ulteriore buon motivo per lagnarci di come la politica in genere, e non solo quella nostrana, passi il suo tempo in attività ludiche di vario genere, scommettendo i soldi dei cittadini. Ma la triste verità è che sebbene siano confermati sia i personaggi che la posta in gioco non si tratta di una partita a carte, ma di uno scontro frontale tra posizioni ideologiche di governo di un paese in cui, comunque vada, sarà il popolo a pagare salato l’esito del big match.
La questione comunque merita d’essere esaminata anche alla luce delle modalità con le quali l’Europa – ed è qui che si pone la prima riflessione – sta affrontando il caso greco. In secondo luogo merita attenzione il contenuto della ricetta con la lista delle medicine che l’Europa ha approntato per curare la moribonda economia greca nella pretesa di salvarla. In terzo luogo va considerata la legittimità d’imporre certe terapie e, nello stesso tempo, il diritto del malato di rifiutarle e di suggerirne di alternative, sino al punto di decidere d’indire un referendum popolare per chiedere a coloro che dovrebbero fare sbornia di sciroppi, flebo, pastiglie e medicamenti vari se si sentono in grado di sottoporsi alle cure proposte.
Non vi dubbio alcuno sulla legittimità che alla Grecia, in gravissima crisi finanziaria ed economica e ormai ad un passo dal baratro del fallimento, vengano richiesti certi sacrifici, dato che gli aiuti sino ad oggi elargiti provengono dal Fondo monetario e dalle casse dei paesi membri dell’UE. In linea di principio e considerata la situazione generalizzata di crisi mondiale, che continua ad assediare indistintamente le economie, è comprensibile che nessuno o almeno in pochi siano disponibili ad accollarsi i debiti altrui. Tuttavia, il principio solidaristico che dovrebbe costituire la base dell’UE, dovrebbe emergere proprio in queste circostanze, poiché difronte a certe drammatiche situazioni di crisi non vi è in gioco la qualificazione politica di chi negozia quanto un intero popolo afflitto da una povertà incombente, che rischia di trasformarsi in miseria al cospetto di veti di principio.
Né tale principio può venir meno in ragione di critiche documentate sull’allegra gestione dei passati governi, in quanto è notorio che il governo Tsipras ha ereditato dall’amministrazione dei precedenti esecutivi di centro e di centrodestra  un deficit debito/PIL pari al 175%, come testimonia il World Economic Outlook  del FMI per il 2014. Va altresì sottolineato che lo stesso FMI ha ammesso senza riserve che gli obiettivi in termini di debito pubblico sono stati vanificati da una recessione e deflazione più pronunciate del previsto, causate da una sottostima degli effetti collaterali delle politiche di austerità (si veda la Ex Post Evaluation of Exceptional Access under the 2010 Stand-By Arrangement, paragrafo 28, pag. 16), quindi riconoscendo che l’overdose di medicine ha prodotto al malato un peggioramento gravissimo ed una spirale negativa sullo stato di salute dell’economia.
Alla luce di questi risultati, ben si comprendono le ragioni di Tsipras e del suo ministro delle finanze  Varoufakis nell’insistere su una richiesta di ristrutturazione del debito e sulla proroga dei termini di solvibilità accordati a suo tempo dalla Troika al loro paese. Perseverare nel richiedere alla Grecia ulteriori sacrifici e di onorare alle scadenze i debiti contratti con i creditori è apparso fin da subito approccio senza senso e negazionista di quel principio di solidarietà sopra richiamato.
In questa prospettiva, bene ha fatto Tsipras a sottoporre al voto dei cittadini l’accettazione o il respingimento delle proposte ultimative provenienti da Bruxelles, dato che le misure sostenute dall’Eurogruppo avrebbero comunque dovuto impattare sul popolo e non certo sul governo. Anzi, forte di un mandato elettorale conquistato di recente e basato sulla promessa di cercare di alleviare quattro anni di durissimi sacrifici e politiche ricattatorie, il premier greco ha ritenuto addirittura di mettere in gioco le proprie dimissioni a fronte di un risultato referendario che avesse approvato la ricetta dell’Europa.
E’ su questo passaggio che si pone un ulteriore elemento di riflessione, poiché il legittimo ricorso al meccanismo principe della democrazia, cioè il referendum, è stato ritenuto, da chi evidentemente la democrazia ha riposto in soffitta ormai da tempo, come un errore o un affronto bell’e buono. Questa critica, proveniente in particolare da quella politica che da tempo sguazza senza ritegno nella più oscena autoreferenzialità e che non ha fatto mistero di tifare per un improvvido sì, è stata vissuta come una sorta di lesa maestà di un Europa che ha ormai la pretesa per mano di Angela Merkel e del suo tristissimo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, del presidente del consiglio europeo, il polacco di destra Donald Tusk, di François Hollande e di Mario Draghi, di decidere le politiche dell’UE e di imporle ai paesi membri, sebbene al di fuori di ogni legittimazione effettiva.
In un’Europa vuota di autorità e debole d’istituzioni in grado di amministrarne la politica economica, affidata ad una Commissione gestita dal chiacchierato Junker e da un drappello di pseudo ministri con poteri risicati, si comprende bene perché abbiano voce i rappresentanti dei paesi economicamente più forti. Ma ciò non può avvenire in prevaricazione di ogni regola o al punto d’imporre con il ricatto misure mortificanti agli stati membri dissenzienti o in difficoltà, in palese lesione della loro sovranità. E se il referendum promulgato da Alexis Tsipras, con il suo risultato che ha respinto al mittente quelle imposizioni, servirà adesso a ridefinire istituzioni, poteri e ruoli, delle strutture di Bruxelles, sebbene il rischio sempre più concreto della Grecia di precipitare nel default, si sarà comunque fatto un passo in avanti verso quell’unità effettiva  auspicata da più parti e rimasta da sempre sulla carta.
Come è stato affermato da tanti osservatori politici e da accreditati economisti, con il risultato referendario greco si è intrapreso un cammino in territori inesplorati, poiché nei trattati europei non vi è alcuna previsione circa l’uscita di un paese membro dall’area euro e sulle misure da mettere in atto e, dunque, è del tutto azzardato fare previsioni sulle conseguenze che si scaricheranno sul resto d’Europa dall’uscita della Grecia dalla moneta unica e dal fallimento cui sembra destinata.
Certo è che, qualunque cosa accada, nessuno potrà dichiararsi estraneo o indenne dai risultati che si produrranno per effetto del crollo greco; neppure quei paesi che sono rimasti a guardare in totale silenzio o quelli che, mossi da livore per aver vissuto situazioni simili ed essersi piegati ai diktat di quei poteri al comando, si sono resi conniventi della linea dell’intransigenza.