Il destino dell’Europa e della Grecia ad un bivio
Il popolo greco dice no ai diktat dell’Europa – Ora la
Grecia è ad un passo dal baratro – Ma se Atene non ha motivo di gioire, Bruxelles
ha molto da temere da un default ellenico – Nella partita in cui sembrano tutti
aver perso l’unico vincitore è la democrazia
Lunedì, 6 luglio 2015
L’idea di un tavolo di poker in cui sono seduti Merkel,
Junker, Lagarde e Tsipras sarà balenata a molti, visto che quella che si sta giocando a Bruxelles è divenuta una partita
tra giocatori provetti ed esperti di bluff e la posta in gioco è di parecchie
centinaia di miliardi di euro.
Se così fosse avremmo un ulteriore buon motivo per lagnarci
di come la politica in genere, e non solo quella nostrana, passi il suo tempo
in attività ludiche di vario genere, scommettendo i soldi dei cittadini. Ma la
triste verità è che sebbene siano confermati sia i personaggi che la posta in
gioco non si tratta di una partita a carte, ma di uno scontro frontale tra
posizioni ideologiche di governo di un paese in cui, comunque vada, sarà il
popolo a pagare salato l’esito del big match.
La questione comunque merita d’essere esaminata anche alla
luce delle modalità con le quali l’Europa – ed è qui che si pone la prima
riflessione – sta affrontando il caso greco. In secondo luogo merita attenzione
il contenuto della ricetta con la lista delle medicine che l’Europa ha
approntato per curare la moribonda economia greca nella pretesa di salvarla.
In terzo luogo va considerata la legittimità d’imporre certe terapie e, nello
stesso tempo, il diritto del malato di rifiutarle e di suggerirne di
alternative, sino al punto di decidere d’indire un referendum popolare per
chiedere a coloro che dovrebbero fare sbornia di sciroppi, flebo, pastiglie e
medicamenti vari se si sentono in grado di sottoporsi alle cure proposte.
Non vi dubbio alcuno sulla legittimità che alla Grecia, in
gravissima crisi finanziaria ed economica e ormai ad un passo dal baratro del
fallimento, vengano richiesti certi sacrifici, dato che gli aiuti sino ad oggi
elargiti provengono dal Fondo monetario e dalle casse dei paesi membri dell’UE.
In linea di principio e considerata la situazione generalizzata di crisi
mondiale, che continua ad assediare indistintamente le economie,
è comprensibile che nessuno o almeno in pochi siano disponibili ad accollarsi i
debiti altrui. Tuttavia, il principio solidaristico che dovrebbe costituire la
base dell’UE, dovrebbe emergere proprio in queste circostanze, poiché difronte
a certe drammatiche situazioni di crisi non vi è in gioco la qualificazione
politica di chi negozia quanto un intero popolo afflitto da una povertà
incombente, che rischia di trasformarsi in miseria al cospetto di veti di
principio.
Né tale principio può venir meno in ragione di critiche
documentate sull’allegra gestione dei passati governi, in quanto è notorio che
il governo Tsipras ha ereditato dall’amministrazione dei precedenti esecutivi
di centro e di centrodestra un deficit
debito/PIL pari al 175%, come testimonia il World Economic Outlook del FMI per il 2014. Va altresì sottolineato
che lo stesso FMI ha ammesso senza riserve che gli obiettivi in termini di
debito pubblico sono stati vanificati da una recessione e deflazione
più pronunciate del previsto, causate da una sottostima degli effetti
collaterali delle politiche di austerità (si veda la Ex Post
Evaluation of Exceptional Access under the 2010 Stand-By Arrangement,
paragrafo 28, pag. 16), quindi riconoscendo che l’overdose di medicine ha
prodotto al malato un peggioramento gravissimo ed una spirale negativa sullo
stato di salute dell’economia.
Alla luce di questi risultati, ben si comprendono le ragioni
di Tsipras e del suo ministro delle finanze Varoufakis nell’insistere su una richiesta di ristrutturazione
del debito e sulla proroga dei termini di solvibilità accordati a suo tempo
dalla Troika al loro paese. Perseverare nel richiedere alla Grecia ulteriori
sacrifici e di onorare alle scadenze i debiti contratti con i creditori è
apparso fin da subito approccio senza senso e negazionista di quel principio di
solidarietà sopra richiamato.
In questa prospettiva, bene ha fatto Tsipras a sottoporre al
voto dei cittadini l’accettazione o il respingimento delle proposte ultimative
provenienti da Bruxelles, dato che le misure sostenute dall’Eurogruppo
avrebbero comunque dovuto impattare sul popolo e non certo sul governo. Anzi,
forte di un mandato elettorale conquistato di recente e basato sulla promessa
di cercare di alleviare quattro anni di durissimi sacrifici e politiche
ricattatorie, il premier greco ha ritenuto addirittura di mettere in gioco le
proprie dimissioni a fronte di un risultato referendario che avesse approvato
la ricetta dell’Europa.
E’ su questo passaggio che si pone un ulteriore elemento di
riflessione, poiché il legittimo ricorso al meccanismo principe della
democrazia, cioè il referendum, è stato ritenuto, da chi evidentemente la
democrazia ha riposto in soffitta ormai da tempo, come un errore o un affronto
bell’e buono. Questa critica, proveniente in particolare da quella politica che
da tempo sguazza senza ritegno nella più oscena autoreferenzialità e che non ha
fatto mistero di tifare per un improvvido sì, è stata vissuta come una sorta di
lesa maestà di un Europa che ha ormai la pretesa per mano di Angela Merkel e
del suo tristissimo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, del presidente
del consiglio europeo, il polacco di destra Donald Tusk, di François Hollande e
di Mario Draghi, di decidere le politiche dell’UE e di imporle ai paesi membri,
sebbene al di fuori di ogni legittimazione effettiva.
In un’Europa vuota di autorità e debole d’istituzioni in
grado di amministrarne la politica economica, affidata ad una Commissione gestita
dal chiacchierato Junker e da un drappello di pseudo ministri con poteri
risicati, si comprende bene perché abbiano voce i rappresentanti dei paesi
economicamente più forti. Ma ciò non può avvenire in prevaricazione di ogni
regola o al punto d’imporre con il ricatto misure mortificanti agli stati
membri dissenzienti o in difficoltà, in palese lesione della loro sovranità. E
se il referendum promulgato da Alexis Tsipras, con il suo risultato che ha
respinto al mittente quelle imposizioni, servirà adesso a ridefinire
istituzioni, poteri e ruoli, delle strutture di Bruxelles, sebbene il rischio
sempre più concreto della Grecia di precipitare nel default, si sarà comunque
fatto un passo in avanti verso quell’unità effettiva auspicata da più parti e rimasta da sempre
sulla carta.
Come è stato affermato da tanti osservatori politici e da accreditati economisti, con il risultato
referendario greco si è intrapreso un cammino in territori inesplorati, poiché
nei trattati europei non vi è alcuna previsione circa l’uscita di un paese
membro dall’area euro e sulle misure da mettere in atto e, dunque, è del tutto azzardato fare previsioni sulle
conseguenze che si scaricheranno sul resto d’Europa dall’uscita della Grecia
dalla moneta unica e dal fallimento cui sembra destinata.
Certo è che, qualunque cosa accada, nessuno potrà
dichiararsi estraneo o indenne dai risultati che si produrranno per effetto del
crollo greco; neppure quei paesi che sono rimasti a guardare in totale silenzio
o quelli che, mossi da livore per aver vissuto situazioni simili ed essersi
piegati ai diktat di quei poteri al comando, si sono resi conniventi della
linea dell’intransigenza.
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