giovedì, luglio 27, 2017

La farsa della riforma dei vitalizi



La Camera approva il sistema retributivo per i vitalizi parlamentari – Provvedimento con efficacia retroattiva in chiaro odore di incostituzionalità – Un provvedimento burla varato allo scopo di imbonire quanti protestano per i privilegi della politica – Fosse approvato in Senato e poi cancellato dalla Consulta, il merito andrebbe comunque all’ardito coraggio dei promotori – Guerra per la paternità tra PD e M5S



Giovedì, 27 luglio 2017
Il trucco c’è, ma non si vede. Ma la mente aguzza, quella abituata a ben valutare gli imbrogli che ci ammanniscono quei galantuomini che siedono nell’esclusiva serra romana in cui si discutono e si varano le leggi per gli Italiani, è ben presto in grado di decrittare cosa si nasconde dietro il magnifico provvedimento approvato alla Camera – e che adesso passa al Senato - che applicherebbe ai vitalizi le norme della Fornero, cioè il calcolo contributivo.
Ovviamente, questa approvazione è bastata a scatenare la gazzarra sulla primogenitura tra PD e M5S, poiché il provvedimento – dall’esito molto incerto in Senato, per le ragioni che si diranno -  più che rispondere ad un’esigenza di equità di trattamento tra cittadini e casta, costituisce una importantissima tacca sul cinturone di chi la proposta e portata al successo con il voto della maggioranza dei deputati. Il provvedimento, infatti, reclamato a gran voce e da tempo dai cittadini, è in prima battuta un escamotage per riconciliarsi con un corpo elettorale sempre più disgustato da una politica autoreferenziale e restia a limitare i troppi e scandalosi privilegi. Dunque, in questa prospettiva, cosa di meglio che un po’ di fumogeni nelle pupille degli allocchi pronti a credere che con quest’atto la politica mangiona e strafottente ha deciso un’inversione di rotta?
Ma il trucco c’è, eccome. Il provvedimento approvato alla Camera prevede il ricalcolo dei vitalizi su base contributiva, ma attenzione, il ricalcolo riguarda vitalizi futuri e vitalizi passati, ponendo così una pesantissima ipoteca sulla tenuta costituzionale del provvedimento medesimo, dato che questa retroattività lede un principio confermato e riconfermato innumerevoli volte dalla Corte Costituzionale, cioè che le leggi non possono in alcun modo ledere i cosiddetti diritti acquisiti.
Ben si comprende allora la ragione di tanto entusiasmo e prosopopea con cui PD e M5S si sono accapigliati per la paternità di un provvedimento in odore di incostituzionalità, poiché - ammesso che passi in Senato - è altissima la probabilità che venga bocciato dalla Corte, lasciando comunque intatto il merito di chi ha avuto il coraggioso ardire almeno di tentare di intaccare storici quanto odiosi privilegi.
Ma a ben meditare il provvedimento nasconde un ulteriore pericolosissimo rischio, che sconvolgerebbe le fondamenta dei nostri principi giuridici e finirebbe per ritorcersi sull’intera collettività. Si immagini, infatti, che il provvedimento venga trasformato in legge con l’approvazione del Senato e superi per imponderabili ragioni di opportunità il vaglio della Consulta. Da quel momento salterebbero tutte le certezze di salvaguardia giuridica che tutelano i diritti acquisiti, poiché basterebbe una qualunque leggina per azzerare diritti radicati e consentire alla politica di far strage di ogni certezza. A questo proposito non va sottovalutato il tentativo che da anni si cerca di perpetrare a danno del sistema pensionistico, che, in testa l’INPS, si vorrebbe ricalcolato retributivamente per alleggerire l’onere a carico dell’ente, pur mascherando il tentativo da fascinose ragioni di giustizia sociale a favore delle nuove generazioni, penalizzate non solo dalla riforma Fornero, ma anche dalla rarefazione del lavoro e dalla precarizzazione dell’impiego.
Su questo tema la lettura di Francescomaria Tedesco su Il Fatto Quotidiano appare assai lucida e predittiva: «I parlamentari, solerti nel riformare le pensioni per gli altri, si sono ben guardati, allora, dall’intaccare i propri privilegi. E questo è odioso come da sempre è odioso ogni privilegio della politica. Ora la soluzione è alla carlona. E questo, se volete, è ancora più scandaloso, soprattutto se si tratta, come pare, di un nuovo modo di agire a livello legislativo: lisciare il pelo all’elettorato, piazzando nei provvedimenti delle mine che compromettano la stabilità dell’edificio. In sostanza, il Parlamento delibera ciò che la gente vuole, compiacendola, ma sapendo che quelle deliberazioni saranno cassate, in toto o in parte, dalla Corte costituzionale, che riporterà la situazione allo stato precedente». Infatti le disposizioni sulla legge in generale stabiliscono che “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Tuttavia questo divieto non è assoluto e incontra alcune eccezioni. Di recente l’eccezione, a rischio di vero e proprio abuso, sta diventando più frequente di quanto dovrebbe essere. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che una norma possa avere valore retroattivo se ciò risponde a un criterio di ragionevolezza e di maggiore giustizia. Ma mentre in materia penale la retroattività peggiorativa di un provvedimento di legge è sempre esclusa dalla Costituzione, mentre è prevista quella migliorativa, in materia civilistica il principio di non retroattività è esposto a manipolazioni mascherate da ragionevolezza e giustizia, non sempre così palesi e immediate, che lasciano al legislatore margini molto spesso assai discutibili.
In questa prospettiva, traspare evidente l’inganno cui ha inteso ricorrere con finalità esclusivamente pubblicitarie il Parlamento, certo della sonora bocciatura che infliggerà la Consulta al provvedimento in questione.  «Questa legge suicida si profila come un deliberato inganno per i cittadini, - sentenzia amaro Tedesco - accontentati apparentemente nella loro sete di giustizia – ché non è populismo pensare alla riduzione dei privilegi della casta, che pure andrà pagata e profumatamente, però il troppo stroppia – ma gabbati da un provvedimento che non potrà applicarsi a quei parlamentari che quei privilegi li hanno già maturati e che stanno già godendo. E se è giusto così, se è giusto cioè che i diritti acquisiti non vengano intaccati (ma per i cittadini normali pare la cosa non valga poi tanto), non sarebbe stato più onesto dirlo apertamente, invece di mettere in piedi questa pantomima della retroattività?»

martedì, luglio 18, 2017

Monti – Renzi, la guerra dei morti viventi




Scontro durissimo tra i due ex capi di governo sulla richiesta di Renzi di mutare il fiscal compact voluto da Monti – Nella tenzone i danni prodotti dalle politiche dei due diventano motivi di orgogliosa vanteria – Un dibattito che non appassiona più nessuno

Martedì, 18 luglio 2017
Un duello in piena regola. Come definire diversamente lo scontro in atto tra Mario Monti e Matteo Renzi, il velenoso scambio d’accuse tra le due menti fine che in questo scorcio di millennio hanno ridotto allo stremo un Paese già sull’orlo del baratro dopo l’incredibile ventennio berlusconiano.
Uno scontro poco interessante, potrebbero pensare in tanti, visto che uno in quelle rare occasioni in cui dichiara qualcosa non fa che parlare di minestra riscaldata, mentre l’altro sembra aprir bocca solo per amplificare l’antipatia profonda di chi è costretto ad ascoltarlo e che da tempo l’accompagna. Eppure lo scontro in sé ha un nonsoché di esilarante, non fosse perché il tenzone oppone due pavoni sognatori ormai spennacchiati – qualcuno persino spernacchiato, - che si beccano ferocemente per orgoglio. Entrambi sono accecati da una smisurata auto considerazione, al punto che le fallimentari politiche messe in atto durante il loro improvvido governo di cui non mostrano pentimento alcuno, sono da loro additate quali prove della straordinaria efficacia con la quale hanno rispettivamente gestito il mandato.
Così il primo magnifica d’aver traghettato il Paese fuori da una fase comatosa, di cui lo spread era il sintomo evidente, grazie a misure tali da far impallidire persino Quintino Sella. Il secondo rivendica i successi in tema di lavoro e occupazione realizzati con il Jobs Act – giusto per citare uno dei provvedimenti più inutili e perversi partorito dal suo fervido talento, - i cui risultati, a dispetto dei ridicoli ed arroganti proclami con i quali ammorba le platee, sono sotto gli occhi di tutti gli Italiani: tasso di disoccupazione totale vicino al 12%, di cui giovanile prossimo al 40%.
Eppure a ben guardare e a dispetto delle dichiarate divergenze i duellanti qualcosa in comune ce l’hanno. Chi non ha impresse nella mente le allucinanti motivazioni con le quali il prode accademico nonché senatore Mario Monti sosteneva la necessità di cancellare l’articolo 18 dello Statuto: “Ciò che blocca gli investimenti stranieri nel nostro Paese è la presenza di un sistema di tutele del lavoro ormai anacronistico.” – aveva proclamato con severa competenza – “L’abolizione dell’articolo 18 consentirà l’ingresso di nuovi capitali e, dunque, la crescita dell’occupazione”. Ma lui, nonostante la buona volontà, non riuscì nell’impresa. La raccomandazione invece fu raccolta al volo dal talentuoso Matteo Renzi, che in quattro e quattr’otto si liberò del fastidiosissimo lacciuolo, certo degli effetti prodigiosi che si sarebbero prodotti con quel miracoloso specifico di Dulcamara.

E’ superfluo commentare che la cancellazione di quell’articolo dello Statuto dei Lavoratori si è rivelata una delle più esecrande iniziative della storia della sinistra italiana, in primo luogo perché in palese collisione con la sua missione ideologica di tutelare gli interessi della classe operaia o – in chiave più moderna – delle categorie dei prestatori di lavoro. In secondo luogo, perché i fiumi di investimenti attesi non sono mai arrivati – stupisce che la fervida fantasia renziana non abbia attribuito la colpa alla siccità ed ai cambiamenti climatici – e di nuovi posti di lavoro e di calo della disoccupazione, specialmente giovanile, non s’è sentito manco l’odore e sebbene gli effetti del Chianti non siano diversi dal Bordeaux, neanche da sbronzi s’è vista la corsa all’impiego promessa da Renzi.

Ma il professor Monti non rimprovera a Renzi di certo questa iniziativa. S’è imbufalito per le critiche che il Guappo di Rignano gli muove a proposito del fiscal compact, - quel provvedimento comunitario che impone stretti vincoli di pareggio di bilancio agli stati membri, da realizzare attraverso il rigoroso rispetto del rapporto deficit/PIL e debito/PIL, al quale l’Italia aderì al tempo del governo Monti. Il geniale segretario del PD vorrebbe adesso stravolgerne i termini, che a suo avviso consentirebbero di destinare maggiori risorse allo sviluppo ed al sostegno della debole ripresa che s’intravvede. Ecco allora che un Monti indignato accusa Renzi di essere come “un disco rotto, che ripete senza fine i suoi slogan e le sue accuse, senza rispetto alcuno per gli interlocutori e la realtà”. Ovviamente Matteo Renzi non si lascia intimidire dalle critiche durissime di Monti, anzi incalza e dichiara con l’usuale spocchioso disprezzo verso quelli che considera intralci al suo pensiero che “la cultura dell’austerity ha visto aumentare il numero delle famiglie in povertà, crescere le diseguaglianze ed il rapporto debito/PIL. Tutto ciò è da addebitare al grazioso regalino fattoci da Monti con il fiscal compact”. La stoccata velenosa del professore però non si fa attendere e si condensa in un lapidario: “Renzi è sempre lo stesso: fa precedere gli annunci, troppi, alla riflessione”.

Certo, il professore non sbaglia quando definisce Renzi un malato affetto da cortocircuitosi tra terminale audio e sistema centrale d’elaborazione dati, sebbene si covi il sospetto che la patologia gli sia così nota per familiarità, dato che non è possibile spiegare altrimenti - ad esser magnanimi - quali folgorazioni scientifiche lo abbiano colpito al tempo in cui la sua fida Sancho Panza, Elsa Fornero, partoriva con la sua accademica benedizione quell’infamante obbrobrio spacciato per riforma delle pensioni.

Certo si può anche capire che la previdenza del Paese vive una gravissima crisi di solvibilità e che è necessario, come lo sarebbe stato ai tempi della Fornero, una riforma radicale del sistema. Tuttavia se per combattere la fame nel mondo la soluzione fosse individuata nella soppressione degli affamati nessuno potrebbe negare che più che di terapia si parla di sterminio di massa.
Si potrà anche obiettare che l’esempio è un po’ esagerato, ma a questi chiosatori, ipocriti perbenisti, bisognerebbe chiedere quale sia la differenza con la decisione di lasciar morire d’inedia lenta e di disperazione chi il cibo non può comprarselo perché gli si nega il diritto di acquisire un mezzo di sostentamento per acquistarlo.

Non parliamo poi dei giovani e del gravissimo problema occupazionale che li affligge. Pur prendendo atto che ad autorevole giudizio di Elsa Fornero la generazione corrente e costituita da choosy , cioè esigenti fannulloni difficili da accontentare, il signor Monti ed il suo sodalizio di geniali tecnocrati non si è fatto minimamente sfiorare dal dubbio che la precarietà del lavoro è un cancro che si deve combattere con misure straordinarie. In un Paese in cui l’obbligo scolastico e il miraggio di un’occupazione meglio retribuita hanno creato eserciti di diplomati e di laureati, comunque manodopera intellettuale ad alta qualificazione, non è pensabile varare provvedimenti che, come antidoto allo sfruttamento, pongono solo ridicoli divieti di novazione contrattuale o che escludono dai benefici della stabilizzazione quanti, per lavorare, debbono essere iscritti ad un albo professionale. Ciò ha significato truffare intere generazioni, poiché avvocati, ingegneri, architetti, biologi, geometri, ragionieri, commercialisti, giornalisti, medici potranno continuare ad essere precarizzati sine die, avendo per loro previsto la liceità della procrastinazione dei contratti a termine.

Al contrario, Renzi, che non a caso è uomo di elevato talento, prima abbocca alla panzana montiana dell’effetto miracoloso dell’abolizione dell’articolo 18, poi s’inventa la scemenza del Jobs Act e, in fine, dopo anni in cui una certa Gelmini ha fatto strage d’insegnanti per tagliare i costi dell’istruzione e trasferirne l’onere alla previdenza sotto forma di pensioni, sbalordisce il mondo con il progetto della “buona scuola”, che in un colpo solo imbarca oltre centomila nuovi insegnanti e disintegra migliaia di famiglie, spedendo madri ad insegnare a mille chilometri dalla propria casa ed i rispettivi mariti ad altrettanti chilometri in direzione opposta.
E così, lo scontro tra i due pavoni continua tra triccheballacche e improbabili rivendicazioni, non rendendosi conto entrambi di aver abbondantemente percorso il viale del tramonto e della credibilità. In questo duello inutile c’è da sperare, in ogni caso, che entrambi mettano a segno la stoccata decisiva, così, come avviene per tutti i personaggi che scompaiono definitivamente dalla scena, anche loro forse nella memoria degli ignari potranno passare per eroi.