domenica, novembre 12, 2017

Le elezioni siciliane chiudono l’epoca Renzi



Sconfitta del PD alle elezioni già prevista – Matteo Renzi diserta la campagna elettorale nella speranza di non accollarsene il risultato – Micari, un carneade senza speranza – Come consuetudine nella terra della mafia trionfa qualunquismo e malaffare – M5S primo partito ma resta opposizione

Domenica, 12 novembre 2017
Era già assodato che il risultato del PD in Sicilia sarebbe stato disastroso. E di tale disastro incombente era certo anche Matteo Renzi, che alla campagna elettorale del partito nell’isola ha dedicato appena 52 minuti di presenza. Del resto il Guappo di Rignano ha sempre fatto così, s’è sempre tenuto alla larga dai luoghi e dalle situazioni non positive e nelle quali una sua presenza avrebbe potuto nuocere in qualche modo alla sua immagine. Aveva tenuto questo comportamento alle amministrative, quando alla débâcle del suo partito per liquidare l’argomento e non affrontare le ragioni della sconfitta aveva commentato che, in fondo, si trattava solo di elezioni locali, in cui il voto politico conta poco mentre è il tornaconto ad influenzare la scelta dell’elettore. Adesso sta tentando d’usare la stessa tecnica in queste disastrose regionali, sperando così d’evitare il giusto processo a cui ogni leader di partito è e deve essere sottoposto ogni qual volta porti a casa un risultato negativo.
E’ bastata la voce stonata di un carneade del suo sodalizio, Davide Faraone, a far capire quali siano gli umori del Nazareno, dove si stanno studiando le ragioni più inverosimili per ammannire ai gonzi una credibile spiegazione della Caporetto siciliana e così tentare di salvare la più che compromessa immagine di un segretario che ha distrutto tutto il poco che era rimasto nel PD e la cui protervia ha portato alla scissione dell’ala storica del partito. La scelta poi di Fabrizio Micari quale candidato governatore dell’isola è stata fatale. Non perché il rettore dell’università palermitana avesse problemi di presentabilità, ma al di là del suo ruolo accademico è un perfetto sconosciuto e, sicuramente, un signor nessuno in confronto a Nello Musumeci, candidato per il centrodestra.
L’acume di Davide Faraone ha però individuato in Pietro Grasso, presidente del senato e recentemente fuoruscito dal PD a causa dei reiterati voti di fiducia imposti sulla legge elettorale nazionale, il colpevole della sconfitta del partito in Sicilia, che con il suo rifiuto di accettare la candidatura a governatore avrebbe compromesso il risultato dei democratici.
In buona sostanza nessuna autocritica né dichiarazione che lasci intravvedere un cambiamento se non  di rotta almeno di metodo, utile per tentare un recupero di fiducia con un elettorato profondamente disilluso dal quinquennio Crocetta, contraddistinto da mille promesse tradite e da un’insipienza persino superiore a quella di Angelo Lombardo. E la sconfitta siciliana non può essere attribuita neanche al maleficio della sorte che incombe su qualunque lotteria. Il successo di un confronto elettorale è basato su elementi molto precisi: le qualità dei candidati, la credibilità dei programmi, l’organizzazione della campagna elettorale. E a ben osservare in questo caso non ricorreva alcuno dei presupposti previsti.
Ma a prescindere dall’analisi delle ragioni della sconfitta in sé, il problema vero è e rimane Matteo Renzi, il quale non è certo la prima volta che incappa in clamorosi insuccessi e che costituisce il vero ed unico problema di credibilità del partito democratico.
Ringalluzzito dal quasi 41% delle elezioni europee del 2014 il soggetto ha sempre rifiutato di prendere in considerazione che dietro quel risultato ci fossero condizioni irripetibili: la mancia di ottanta euro distribuita in una fase economica del paese postuma al punitivo governo Monti ed all’insipiente governo Letta avevano creato l’illusione che con Renzi fosse iniziata un’inversione di politica, maggiormente attenta ai bisogni del ceto medio e della classe operaia, che così duramente erano stati colpiti dal rigore montiano e dalle frustranti iniziative di Elsa Fornero in tema di pensioni.
L’illusione duro l’espace d’un matin, poiché a quel successo elettorale seguirono una serie di provvedimenti di tutt’altro segno, che andarono dall’abolizione dell’articolo 18 al Jobs Act, dalla cosiddetta buona scuola alle regalie ai diciottenni, allo scippo ai pensionati della rivalutazione delle pensioni, all’Italicum, al referendum costituzionale, ossia ad iniziative cervellotiche tesa a conquistare non la fiducia di un elettorato sempre più afflitto dalla mancanza di lavoro e in crisi reddituale, ma di accreditarsi a livello internazionale come un leader dotato di polso e di grande dote di decisionismo.
Questo atteggiamento decisionista e autoritario fu il carburante per innescare un conflitto senza precedenti all’interno del PD, culminato con le dimissioni di Renzi da primo ministro e dalla segreteria del partito dopo il flop referendario, ma seguito da un finto congresso per l’elezione di un nuovo segretario, con tanto di primarie, una sua rielezione e la definitiva scissione dell’intellighenzia storica dal PD verso il nuovo soggetto politico Mdp – articolo 1.
A voler tirare le somme della gestione Renzi il risultato conseguito dal PD, dunque, non può che apparire nella sua drammaticità fallimentare, essendosi consuntivata la sostanziale dilapidazione del credito che il PdS prima e il PD dopo s’erano guadagnati nel corso del tempo, processo consumato con rapidità fulminea al grido del ridicolo slogan “rottamare”.
Si può certamente anche non condividere il giudizio sul segretario del PD, ma il risultato delle scelte che ha imposto è sotto gli occhi di tutti e le profonde divisioni della sinistra sono un dato di fatto incontrovertibile, divisioni che sarà difficilissimo ricucire sino a quando Matteo Renzi non sarà definitivamente cancellato dalla scena politica del paese.
Qualche giorno fa Vittorio Feltri ha scritto a tutta pagina sul suo quotidiano, Libero, “Stop a Renzi? Bisogna sparargli”, un titolo infelice con il quale ha voluto significare quanto difficile sarà liberarsi della ingombrante figura del giovane segretario del partito democratico, ma che ben centra quale sia il serio problema della sinistra italiana, che nella sua storia ha dimostrato di possedere da sempre gli anticorpi che le hanno inibito lunga vita ogni qual volta sia riuscita ad andare al governo. Ma mentre in passato ha dovuto passare la mano a causa delle spinte interne ad una accelerazione nella realizzazioni di programmi da vera sinistra – ad esempio, si ricorderà la battaglia di Bertinotti per le trentacinque ore – oggi, paradossalmente, la mano passa per il fallito tentativo di spostare l’asse delle politica verso quell’illusoria centralità nella quale risiederebbe il consenso popolare, come se dalla realizzazione di progetti tesi a maggiore giustizia sociale, equità, ridisegno della curva della distribuzione della ricchezza, politiche per il lavoro, welfare si dovesse temere il dissenso generalizzato. E fino a quando la sinistra non avrà capito che la sua missione consiste nella la traduzione in atti concreti di progetti con queste finalità e non certo di governare compiacendo i potentati conservatori il suo è un destino d’opposizione.  
 

giovedì, novembre 02, 2017

La repubblica dei bonus



Arriva in parlamento la manovra finanziaria 2018, che quest’anno ingloba la cosiddetta mille proroghe – Orgia di bonus in piena tradizione renziana – Un’operazione da Superciuk: toglie ai poveri per dare ai ricchi – Le solite regalie alle imprese in cambio di impegni che non manterranno

Giovedì, 2 novembre 2017
E chi non ricorda la grande Mina con Alberto Lupo cantare Parole, Parole? C’era una passaggio in cui la Tigre di Cremona alle promesse di Lupo rispondeva “caramelle non ne voglio più”, ma non perché disdegnasse i bonbon, quanto per l’inaffidabilità di chi quelle promesse le proferiva.
Così se si guarda alla manovra di Gentiloni e Padoan sembrano ripetersi quel duetto e quelle promesse, con tante caramelle più virtuali che concrete, ma che servono da esca ai tanti elettori gonzi che andando a votare all’inizio del nuovo anno si sentiranno motivati a mettere la croce sotto al nome di qualche mandarino scelto tra i propri lacchè e imposto in lista da quel filantropo di Matteo Renzi e dai rispettivi boss di partito.
Tra l’altro la manovra, nota in passato con il nome di mille proroghe, ma che sarebbe ormai il caso di riclassificare in mille bonus, è già partita alla grande con i settanta articoli iniziali divenuti 120 a pochi minuti dal suo approdo in aula, visto che con l’imminenza dello scioglimento delle camere una vera e propria mille proroghe non ci sarà e, dunque, bisognava infarcire di mance, prebende, regalie e cotillon la manovra medesima, in modo da poter contentare ciascuno la propria fetta d’elettorato.
Peccato che i tanti bonus previsti non siano il frutto di soldi freschi, ma provengono come in passato dai tagli chirurgici effettuati ai danni di altre voci di spesa. E si badi, non di spese inutili o di vere e proprie ruberie istituzionali come i trattamenti autoreferenziali della casta, ma di tagli alla sanità principalmente che la Corte dei Conti ha stimato in circa 10,5 miliardi complessivi nel periodo 2015/2018, che penalizzeranno ancora una volta i contratti e le convenzioni ormai fermi da ben otto anni e che, finalmente, vedono al livello della Grecia la nostra spesa pubblica per la sanità.
Ma la penalizzazione di una categoria o di un settore dell’economia è cosa irrilevante rispetto al clamore che genera l’elargizione dei soliti 80 euro, confermati anche per il prossimo anno a beneficio delle retribuzioni non superiori a 26.800 euro annui. Poco importa che questa mancetta costerà ai percettori magari due o tre volte tanto in aumento di ticket o in riduzioni delle coperture mediche o nel degrado delle struttura sanitarie. Vale sempre il principio che le malattie vengono agli altri e non a noi, per cui un chi se ne frega è d’obbligo. Parimenti, mentre vengono confermati i 500 euro per la cultura ai diciottenni, l’esclusione dagli ottanta euro è stabilizzata per i cosiddetti incapienti, cioè per coloro che guadagnano da un lavoro precario o da quasi schiavi cifre da morti-di-fame e che, forse per agevolarne il rapido decesso da inedia, il bonus continueranno a non averlo.  
In compenso informa il fatto quotidiano tirano un sospiro di sollievo «le società d’intermediazione finanziaria, che vengono graziate dall’addizionale IRES, le Pmi che intendono quotarsi in borsa, gli avvocati, gli allevatori di bovini e suini, i giardinieri» – noti per il rilascio di documentazione fiscale ogni qual volta recidono un filo d’erba nel giardino dei loro clienti, - «le povere società calcistiche professionistiche e dilettanti» – altrettanto note per mettere in seria difficoltà economica i calciatori, gli allenatori e le loro rispettive famiglie con retribuzioni terzomondiste, - «gli scavatori di pozzi» (sic!), rappresentanti di una categoria lavoratrice diffusissima nel nostro sconcertante paese.
Altra categoria di baciati dalla fortuna sono i pendolari condannati all’uso dei mezzi pubblici, che potranno beneficiare del 19% di abbattimento dell’imposizione sul reddito per una spesa per abbonamento non superiore a 250 euro. Di migliorare il servizio, la puntualità di treni, autobus e tram non se ne parla neanche, anche perché in questo caso s’invaderebbe l’area d’intervento di comuni e regioni e in quel caso fare promesse equivarrebbe ad un vero e proprio sfottò.
Ma la panoramica della regalistica non s’esaurisce così, solo che dalle persone fisiche si passa alle aziende, per le quali viene confermato lo sgravio triennale per un massimo di 3.000 euro all’anno per le assunzioni a tempo indeterminato con il Jobs Act: ovviamente poco importa che nella passata edizione il meccanismo si sia rivelato un mezzo flop. Più ricchi gli incentivi agli investimenti ed all’innovazione sotto forma di ammortamento, pari al 140% del valore del bene nel caso d’investimento e al 250% in caso d’innovazione. Rimangono, pur se ridotti al 50%, gli incentivi alle ristrutturazioni e i bonus energia.
Come si può vedere una straordinaria abbuffata di variopinte promesse, che come in passato sarà estremamente complicato tradurre in benefici effettivi, in considerazione di iter burocratici molto spesso assai laboriosi. Né mancano già all’esordio le contestazioni. Alternativa Popolare ha già fatto sapere che deve essere riconfermato il bonus bebè e dovrà essere introdotta nella manovra qualche misura a sostegno delle famiglie, area d’intervento sociale che pare dimenticata nel provvedimento. Mdp ha già notificato il proprio voto contrario alla manovra, non condividendo il rinnovato provvedimento di rottamazione delle cartelle esattoriali, che giudica una sorta di condono mascherato, mentre non è ancora esplicita la richiesta di modifica o gli emendamenti che saranno presentati dalle destre di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che non s’esclude possano presentarsi all’incasso del ticket staccato in occasione della fiducia accordata sulla legge elettorale.
Stranamente e forse per evitare nuove grane con la categoria, nella manovra non si parla né di pensioni né di pensionati, sebbene sia da scartare l’ipotesi che certi avidi furbetti, a cominciare da Boeri, abbiano rinunciato alla logica del bancomat con la quale hanno gestito la disgraziata categoria. Per costoro, come per gli incapienti, non è prevista alcuna provvidenza, anzi nei loro riguardi il desiderio malcelato che passino a miglior vita il più presto possibile è sempre vivo negli auspici sia della politica che dell’INPS. Nessuna misura è prevista per l’adeguamento delle pensioni minime, né per il blocco dell’innalzamento dell’età pensionabile in ragione dell’aumento delle aspettative di vita. Eppure è grazie ai pensionati ed alla loro sovente partecipazione con il loro reddito al sostentamento dei nuclei familiari d’appartenenza che con ogni probabilità ad oggi si sono evitati conflitti sociali dai risvolti imponderabili, ma che così continuando non può escludersi possano presto o tardi sfociare in tragici epiloghi. Ciononostante l’incommensurabile sfacciataggine della politica ha l’impudico coraggio di chiedere a questa gente un rinnovato voto di fiducia alla prossime elezioni.