sabato, dicembre 17, 2011

Non si salva il paese con i giochi di parole

Sabato, 17 dicembre 2011
Che l’Italia sia ormai da tempo un paese nel quale si allevino i migliori nani e le più versatili ballerine del globo è cosa risaputa. Ed è questo un primato che non c’è agenzia di rating in grado di mettere in discussione. Non perché non vi sia qualcuno che tenti di spodestarci dal vertice di questa tragicomica classifica, quanto perché, almeno nei cosiddetti paese sviluppati, le scuole socio-culturali in cui formare i Bossi, i Calderoli, i Cota, gli Scilipoti, i Brunetta – giusto per citare alcuni nomi a caso – non riscuotono grandi consensi e finiscono per durare lo spazio d’un mattino.
C’è poi altrove un’etica dei mestieri che impone il tacito rispetto di alcuni principi di massima: gli imprenditori fanno gli imprenditori, i professori se ne stanno nelle scuole e nelle università, i commercianti curano i loro negozi ed i politici stanno nei palazzi della politica per occuparsi, più o meno competentemente, dell’antichissima arte di amministrare la cosa pubblica, magari servendosi dei pareri e dei consigli degli esperti delle varie materie quando debbono proporre o decidere di specifici argomenti.
In Italia, invece, faro del mondo, in genere tutti san fare tutto: dal portare al trionfo una squadra di calcio al condurre al successo un’impresa, dal varare piani di sviluppo sostenibili – quest’aggettivo abbinato oramai a qualunque altro termine conferisce a chi lo usa una sorta di potere mistico – al proporre progetti per il recupero del territorio e così discorrendo, al punto che una sorta di osmosi consolidata tra i mestieri è divenuta la regola per assegnare incarichi, cooptare nei posti di responsabilità o, quando non ci sia alle spalle uno sponsor, per proporsi alla pubblica opinione con le carte in regola per assumere un incarico dove tanti altri hanno fallito.
Chi chiedendosi dove stia la ragione del successo di un tale meccanismo ritenesse la risposta al quesito complicata, commetterebbe un grosso errore, poiché la risposta è affatto difficile e sta da un lato nella propensione a credere ciecamente nelle capacità magiche di chiunque possa vantare un pedigree di successo, poco importa come conseguito, e nella spocchiosa supponenza con la quale chiunque si proponga per qualcosa riesce con maestria a vendere le proprie qualità, anche quelle che non possiede, avendo nel retrocervello la riserva che, al bisogno, potrà far scattare le clientele, le amicizie equivoche, il malaffare, le protezioni di lobby, eccetera, pronte a dar man forte con consensi sperticati e battage pubblicitari micidiali al pupillo di turno disposto a qualunque corvé pur d’appagare la propria vanità.
Uno degli esempi più fulminanti di questa way of life, come direbbero in America, - poco razionalizzata ma assai radicata qui da noi, - è quanto accaduto nell’ultimo scorcio d’anno con le dimissioni, poco volontarie ma molto sperate, di Berlusconi e l’insediamento del professor Monti ai vertici del governo della Repubblica.
Che il cavaliere Berlusconi fosse ciò che s’è rivelato era cosa nota al mondo intero. Un ex saltimbanco formatosi sulle navi da crociera, con alle spalle un genitore ben introdotto negli ambienti bancari e amici nei posti giusti, pronti a farlo decollare, certi di aver individuato in lui un ecclettica propensione alla scalata del successo da cui spremere vantaggi. E che fosse anche un intimo amico-sostenitore di quel Craxi cacciato con un nutrito lancio di monetine e sottratto all’ira della folla dalla provvidenziale gita senza ritorno ad Hammamet, era cosa altrettanto risaputa. Ciononostante, quando, al declino della stella craxiana, decise di scendere in campo, dichiarando che faceva questo per amor di patria e non certo per difendere con unghie e denti il cospicuo discutibile gruzzolo che aveva racimolato con la tecnica della mano che lava l’altra, l’esercito sgangherato degli opportunisti, degli affaristi border line, dei servi del potere, degli abbagliati dal successo facile e non ultimi degli illusi in buona fede, non esitò a portarlo in spalla. Fu un trionfo, nell'auspicio del "più benessere per tutti", "meno tasse per tutti" e altre idiozie simili, che convinsero schiere di beoti che il messaggero della mitica Bengodi fosse arrivato - che la dice lunga su quanto il popolo italiano in fondo, tra il tirarsi su le maniche e mettersi a lavorare sodo e ubriacarsi d’improbabile benessere promesso dal primo ducetto di periferia, preferiscano la seconda via.
Il Cavaliere ha impiegato ben 17 anni per mostrare i suoi limiti anche ai più increduli, tanti quanti ne aveva impiegato quell’altro esemplare di vanità e di vuotologia dal nome Benito Mussolini. Ma la conclusione è stata la stessa: un paese lasciato allo sbando e sul lastrico, alla disperata ricerca di una classe politica dirigente in grado di indicare la strada e condurlo fuori dalla melma del disastro economico e sociale in cui sì è ritrovato.
Certo, Berlusconi non è stato travolto dagli esiti di una tragica guerra in armi. Ma considerare le disastrose conseguenze delle sue negazioni di una crisi internazionale senza precedenti, le assenze nell’assunzione di misure correttive, la sua politica di lassez faire, lassez passer sulle vere emergenze dello stato e l’esasperata attenzione ai suoi personali problemi giudiziari, meno deleterie di ciò che il conflitto mussoliniano aveva prodotto, non darebbe la reale portata della crisi in cui versa il paese, giunto sull’orlo del default economico e di una crisi di credibilità internazionale mai registrata prima.
Ciò che Berlusconi è stato è oramai storia ed a questa va lasciato il compito di giudicare le sue azioni. Ma la sua uscita di scena dalla regia dello stato, al momento, non sembra aver ridato al paese quella serenità e quel vigore per affrontare con il necessario coraggio lo sfascio preoccupante che ha lasciato in eredità.
Il governo Monti, un governo di tecnici patrocinato dal presidente della Repubblica e sostenuto con motivazioni diverse sia dall’opposizione che dall’ex maggioranza, non ha dato alcun segnale di quelle scelte eque ed equilibrate di cui ci sarebbe stato salutare bisogno.
Sotto il condizionamento di un PdL ancora in grado di interdire le scelte con i suoi numeri parlamentari, i provvedimenti che sono stati assunti hanno finito per schiacciare definitivamente nell’angolo le aspettative e le condizioni di vita dei ceti medi lavorativi, poiché su di loro sono caduti ancora una volta i colpi di maglio del declamato risanamento. Tasse su tasse, tagli pazzeschi ai trattamenti pensionistici, accompagnati da simbolici aggravi per le categorie più abbienti sono il menu di un piano di rilancio dell’economia che non si può esitare dal definire ottuso e persecutorio. L’assenza di una patrimoniale e di misure serie contro l’evasione fiscale, vera cancrena del sistema Italia, sono il sintomo di condizionamenti che non lasciano ben sperare, che rendono sempre più concreta l’ipotesi di una durissima protesta popolare dagli esiti inimmaginabili.
Il presidente Monti s’è sentito piccato dall’accusa di aver varato un piano di sacrifici privo di fantasia, per realizzare il quale non c’era certo bisogno di scomodare l’intellighenzia universitaria del paese. Ma piaccia o meno all’ex rettore della Bocconi, è vero che la sua manovra ha tutti i requisiti della peggiore macelleria sociale. Non si può pretendere dalla massa dei lavoratori a reddito fisso, che peraltro guadagnano stipendi largamente al di sotto della media europea e si confrontano con un mercato dei beni primari con prezzi fuori dalla portata di un reddito medio, che si stringa la cinghia oltre ogni decenza, mentre i santuari del profitto finanziario, della speculazione selvaggia, dell’arricchimento illecito rimangono esenti da ogni onere. Duole doverne prendere atto, ma Monti ha scelto l’usuale percorso di esproprio persino della dignità del nerbo produttivo della nazione, senza una contropartita in termini di provvedimenti tesi a cancellare le condizioni di sfruttamento schiavistico di milioni di giovani o una chiamata al proprio dovere anche a quella Chiesa proprietaria di un patrimonio immobiliare miliardario, che continua a godere di esenzioni fiscali vergognose.
Giustizia sociale ed equità sono bellissime parole se accompagnate da azioni concrete che ne fanno percepire il senso effettivo. Ma quando divengono solo slogan meschini con i quali mascherare vere e proprie ribalde azioni di massacro allora non sono che vili espedienti lessicali per negare la propria sconfitta.

martedì, dicembre 06, 2011

Sviluppo economico: largo ai vecchi!

Martedì, 6 dicembre 2011
Bene ha fatto il governo in carica a modificare i requisiti per accedere alla pensione. Era ora che si desse una svolta ad una questione che oramai da troppo tempo si trascinava e che riguardava la presunzione di precoce invecchiamento degli ultra sessantenni, vera forza vitale del nostro Paese e di tutte le economie avanzate.
Avevamo assistito sino a ieri allo sconcio che vedeva arzilli giovanotti collocarsi a riposo, a spese della collettività peraltro, quando ancora avrebbero potuto dare al lavoro un contributo rilevante. E qui non parliamo solo di lavori manuali, che per definizione richiedono l’impiego di una forza fisica e di una lena certamente patrimonio fisico di un sessantenne qualunque, ma anche di lavoro intellettuale, di quello che si basa su di una produttività fatta di idee, fantasia, flessibilità e rapidità decisionale nell’applicazione di regole e modelli, che invero costituiscono il punto di forza di ogni individuo che abbia superato il dodicesimo lustro.
Da domani, quindi, per decreto statale si assisterà alla riclassificazione della popolazione in ragazzi, giovani e anziani in ragione di criteri nuovi e maggiormente rispondenti criteri sperimentati, che classificano vecchi coloro che avranno superato il settantesimo anno d’età ed avranno lavorato per oltre quarantacinque anni della loro esistenza.
E’ una sorta di rivoluzione demografica nella quale sarà archiviata la commovente immagine del nonno che accompagna il nipotino a scuola, per sostituirla con quella più verosimile del nipote che accompagna il nonno ai cancelli di Mirafiori affinché l’avo, recandosi a lavoro magari per il turno di notte, possa dare orgogliosamente il proprio contributo fattivo all’economia del paese, rendendo così concreto il contenuto di quel decantato patto generazionale da più parti reclamato.
Non è dato ancora sapere come questa subitanea trasformazione di ex pensionandi in forza viva della produzione sarà accolta dalle imprese che sino ad ieri hanno cinicamente espulso dal mondo del lavoro schiere di cinquantacinquenni e poco più considerati incapaci di continuare ad essere impiegati in attività sospettate faticose: edilizia, facchinaggio, conduzione di mezzi pesanti e così via. Persino lo stato – c’è d’augurarsi si ravveda tempestivamente – nega il rinnovo dei permessi di guida per periodi superiori a cinque anni a chi abbia superato i cinquantacinque anni d’età. Ma al riguardo si sperano correttivi tempestivi, poiché se da una lato si riconosce al sessantenne la capacità di reggere il ritmo della catena di montaggio non si comprenderebbe in base a quale perverso meccanismo logico dovrebbe negarsi allo stesso soggetto la capacità di pilotare un tir o una più contenuta utilitaria.
Certo è che qualora le aziende dovessero imperterrite continuare nella loro consolidata politica di pulizia anagrafica dei ranghi, il meccanismo voluto dal governo in essere si tramuterebbe in una beffa amara, poiché il risultato sarebbe esclusivamente quello di aver posticipato a calende greche il pensionamento, che non è certo un premio di vecchiaia ma un reddito di sussistenza per cessate e capacità lavorative, e d’aver creato un esercito di disperati a cui sarebbe negato il diritto di sopravvivere.
In altri termini, non è concepibile stabilire per legge una conclamata capacità lavorativa, al solo fine di risparmiare nell’erogazione degli assegni di previdenza, e non varare al contempo strumenti che salvaguardino il diritto alla percezione di un reddito per coloro che da questo virtuosismo contro natura non riescono a trarre alcun beneficio. D’altra parte è noto che l’espulsione dal processo produttivo di masse significative di lavoratori avviene per ragioni di natura economica: anzianità di servizio significa anche anzianità retributiva, dunque maggiori oneri per le imprese, che ragionevolmente preferiscono sostituire quelle risorse con giovani a costo più contenuto, se non addirittura sottopagati e sfruttati, grazie ad una legislazione connivente e illusoria della capacità di creare nuovi posti di lavoro.
Oggi Innocenzo Cipolletta, economista e già direttore generale di Confindustria, ha evidenziato l’esistenza di questo gravissimo problema, per il quale nulla è stato fatto nel corso degli anni e che in questi tempi di crisi aggressiva si sta rivelando come una vera emergenza sociale. Si parla allora di salario minimo garantito da erogare a tutti i lavoratori rimasti senza impiego a prescindere dall’età anagrafica, ma che nel caso degli ultracinquantenni dovrebbe servire proprio a garantire il sostentamento di coloro che non trovano più lavoro e, contemporaneamente, non possono accedere al pensionamento per carenza di requisiti contributivi e d’età. Tale salario dovrebbe essere posto a carico delle imprese che dismettono la manodopera, poiché, secondo Cipolletta, loro è il beneficio della riduzione di costo.
L’idea non è malsana. Peccato che Cipolletta ci abbia pensato adesso, da libero pensatore, e non quando rivestiva un ruolo significativo nel consesso degli industriali, dal quale avrebbe potuto essere senza dubbio maggiormente determinante nel trasformare in provvedimento vero quel che appare di questi tempi un pio desiderio o solo un pentimento tardivo.
Dopo di che c’è solo da augurarsi che il professor Monti lasci spazio al parlamento sovrano per emendare le misure che ha presentato agli Italiani, rinunciando a porre voti di fiducia che negherebbero ogni spazio ad un ravvedimento su alcuni aspetti del suo pacchetto che palesemente difettano di equità. Speriamo che Monti abbia con la sua manovra voluto dimostrare che realizzare piani di risanamento non è cosa impossibile, ma solo una questione di buona volontà, sebbene la buona volontà non deve mai diventare supponenza ed arroganza dei tecnicismi, per i quali sarebbe stato sufficiente un Tremonti qualsiasi.

(nella foto, una riunione di lavoratori in carriera in una nota azienda del nord Italia)

lunedì, dicembre 05, 2011

Monti e le attese deluse

Lunedì, 5 dicembre 2011
In molti hanno tirato un profondo sospiro di sollievo quando il nome di Monti, professore della Bocconi, nonché, di quell’ateneo considerato il gotha della cultura nostrana, magnifico rettore, s’è fatto strada tra le tante ipotesi del dopo Berlusconi.
Dopo un triennio di politica marcatamente di destra, che ha vessato all’inverosimile il lavoro, le pensioni e lo sviluppo, negando la crisi e lasciando indenni da ogni intervento i redditi alti, le rendite finanziarie e immobiliari, i grandi patrimoni e l’evasione fiscale, dal professor Monti e dalla sua dubbia squadra di tecnici indipendenti dai condizionamenti partitici, ci si sarebbe attesa una serie di provvedimenti che andassero a colpire coloro che storicamente sono stati esentati dai sacrifici imposti ai ceti medi e alle categorie del lavoro dipendente.
E il daffare sarebbe stato veramente tanto, qualora si fosse avuto un approccio improntato alla tanto decantata equità e giustizia sociale, di cui il professore e i suoi specialisti s’è riempito più volte la bocca nel corso di interviste e conferenze stampa. Tuttavia, l’equità e la giustizia sociale sono concetti e non valori numerici, pertanto è sempre assai difficile stabilire se, come e quando un determinato provvedimento in quella direzione soddisfi pienamente l’obiettivo o, imbellettato di quell’etichetta, manchi clamorosamente il bersaglio.
Ieri sera, con una presentazione che ha sovvertito i classici rituali sterili cui ci aveva abituato il governo precedente, Monti e la sua squadra ha svelato al Paese il piano di salvataggio che intende mettere in opera e provvedimenti che ha inteso approntare nella direzione della tanto preannunciata equità. E lo ha fatto in primo luogo con un antefatto forse sfuggito a tanti nel suo significato, ma che, per quanto di valore solo estetico, la dice lunga sul profondo rispetto che il professore nutre per i cittadini, non più sudditi cui tutto può imporsi, ma meritevoli di una considerazione archiviata da tempo. Lo ha fatto lanciando una sorta di appello propedeutico, in piedi, con alle spalle il tricolore e la bandiera dell’Europa, quasi a rimarcare la solennità dell’evento e il riconoscimento della supremazia del popolo sulla politica e suoi rappresentanti.
Le misure assunte, tuttavia, non hanno convinto del tutto, poiché hanno confermato come il fulcro dei provvedimenti più onerosi per lo sperato salvataggio del Paese siano ancora una volta concentrati sul ceto medio e sulle pensioni, mentre deboli sono apparse le iniziative atte a promuovere la ripresa dell’economia e inconsistenti, per non dir del tutto assenti, i provvedimenti di lotta all’evasione e quelli ben più attesi per costringere finalmente intere categorie esentate sino ad oggi dai sacrifici a dare un significativo contributo alle finanze dello stato.
Francamente e con il massimo rispetto per l’impegno che avrà richiesto la complessità delle misure presentate, l’assenza di una vigorosa patrimoniale a carico delle grandi ricchezze finanziarie, - non certo mitigata dall’ 1,50% di tassazione aggiuntiva dei capitali scudati a suo tempo con un ridicolo 5% da Berlusconi e Tremonti, - ci pare una grave lacuna, non fosse perché la ristrettezza delle risorse disponibili ha imposto il blocco dell’indicizzazione degli assegni di quiescenza che superano il doppio della pensione minima. Né bastano le lacrime del ministro Elsa Fornero a cancellare la grave ingiustizia che tale blocco provoca ai percettori di pensione ai limiti della sussistenza, chiamati così a contribuire inermi a misure anticrisi che francamente appaiono spropositate.
Anche sul lato dei tagli reclamati da più parti ai costi della politica ed agli assurdi benefici della casta ci sembra che le risposte abbiano latitato. Sarà anche apprezzabile che Monti abbia ufficialmente comunicato di aver rinunciato alle indennità di presidente del consiglio e di ministro dell’economia vicario, ma questa è una misura conseguente una decisione personale e non inferisce certo nel guazzabuglio di privilegi e di ricchissimi appannaggi che godono i suoi colleghi parlamentari. E, in fine, non sarà certo il preannunciato taglio delle rappresentanze provinciali che potrà far dire che l’opera di bonifica del sistema politico, avido e ladrone, può ritenersi conclusa.
Discorso a parte meritano poi le pensioni, il mostro invincibile degli ultimi quindici anni della politica nostrana, a cui sono stati attribuiti tutti i mali del sistema economico: dall’incremento degli esborsi della finanza pubblica alla disoccupazione giovanile crescente, dal rischio di fallimento del sistema della previdenza pubblica al mancato adeguamento delle pensioni al minimo a livelli più dignitosi. Qui non intendiamo entrare in un dibattito sterile e, di fondo, rivelatosi più ideologico che tecnico, poiché il sistema pensionistico avrebbe potuto essere salvaguardato nel tempo anche con il supporto di interventi su meccanismi, - chissà perché, - considerati tabù indiscutibili: separazione della previdenza dall’assistenza, sterilizzazione della cassa integrazione dal calderone INPS, gestione separata della maternità e delle invalidità o rafforzamento delle pensioni integrative. Troviamo tuttavia pesantissima la decisione di stravolgere ancora una volta il sistema con la duplice manovra sull’età di accesso e contribuzione minima e la scelta dello strumento della contribuzione in sostituzione di quello della retribuzione per il calcolo. Crediamo che sarebbe arduo persino per l’autore di questa ennesima riforma spiegare in virtù di quale magico strumento l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni, - dunque con la permanenza in servizio di risorse umane più decotte che efficienti, - possa favorire il tanto sospirato ricambio generazionale dell’occupazione e rappresentare il toccasana per un precariato orami strutturale del nostro mercato del lavoro.
Parimenti, quale siano i risultati di una lotta all’evasione diffusa derivanti dalla limitazione a 1000 euro delle transazioni monetarie in contanti ci sfugge, poiché la grossa evasione non è fatta solo di movimenti di denaro di grossa entità, ma principalmente dalla sommatoria di omissioni fiscali di prestazioni di artigiani, commercianti e professionisti – avvocati, ingegneri, architetti, dentisti, ecc. – che omettono il rilascio della fattura sotto il noto ricatto dello sconto fasullo dell’IVA. Uno stato serio, che vuol colpire la micro evasione diffusa dovrebbe ricorrere non solo a provvedimenti che limitano la circolazione del contante, ma anche a meccanismi di bonus fiscale a favore di coloro che siano in grado di dettagliare nel modo più esauriente possibile, con tanto di fatture, le spese che hanno sostenuto, sì da incentivare la pretesa di documenti fiscalmente idonei nei confronti di quei soggetti che notoriamente si esentano dal certificare le entrate.
Come si vede, gli argomenti che possono ulteriormente contribuire a rimodellare i provvedimenti di Monti non mancano e c’è da sperare che il governo non intenda porre la fiducia in parlamento nel momento in cui il pacchetto dovrà essere convertito in legge, poiché questa decisione non solo priverebbe l’organo legislativo per eccellenza della nostra democrazia di richiamare ad un’ulteriore riflessione d’equità l’esecutivo, ma farebbe venir meno le occasioni per nuovi contributi di intelligenza di cui il Paese ha oggi ancor più particolarmente necessità.

(nella foto, il ministro Elsa Fornero, in evidente stato di commozione nel corso della conferenza stampa di ieri alla presentazioni delle durissime iniziative di riforma della pensioni)