martedì, dicembre 06, 2011

Sviluppo economico: largo ai vecchi!

Martedì, 6 dicembre 2011
Bene ha fatto il governo in carica a modificare i requisiti per accedere alla pensione. Era ora che si desse una svolta ad una questione che oramai da troppo tempo si trascinava e che riguardava la presunzione di precoce invecchiamento degli ultra sessantenni, vera forza vitale del nostro Paese e di tutte le economie avanzate.
Avevamo assistito sino a ieri allo sconcio che vedeva arzilli giovanotti collocarsi a riposo, a spese della collettività peraltro, quando ancora avrebbero potuto dare al lavoro un contributo rilevante. E qui non parliamo solo di lavori manuali, che per definizione richiedono l’impiego di una forza fisica e di una lena certamente patrimonio fisico di un sessantenne qualunque, ma anche di lavoro intellettuale, di quello che si basa su di una produttività fatta di idee, fantasia, flessibilità e rapidità decisionale nell’applicazione di regole e modelli, che invero costituiscono il punto di forza di ogni individuo che abbia superato il dodicesimo lustro.
Da domani, quindi, per decreto statale si assisterà alla riclassificazione della popolazione in ragazzi, giovani e anziani in ragione di criteri nuovi e maggiormente rispondenti criteri sperimentati, che classificano vecchi coloro che avranno superato il settantesimo anno d’età ed avranno lavorato per oltre quarantacinque anni della loro esistenza.
E’ una sorta di rivoluzione demografica nella quale sarà archiviata la commovente immagine del nonno che accompagna il nipotino a scuola, per sostituirla con quella più verosimile del nipote che accompagna il nonno ai cancelli di Mirafiori affinché l’avo, recandosi a lavoro magari per il turno di notte, possa dare orgogliosamente il proprio contributo fattivo all’economia del paese, rendendo così concreto il contenuto di quel decantato patto generazionale da più parti reclamato.
Non è dato ancora sapere come questa subitanea trasformazione di ex pensionandi in forza viva della produzione sarà accolta dalle imprese che sino ad ieri hanno cinicamente espulso dal mondo del lavoro schiere di cinquantacinquenni e poco più considerati incapaci di continuare ad essere impiegati in attività sospettate faticose: edilizia, facchinaggio, conduzione di mezzi pesanti e così via. Persino lo stato – c’è d’augurarsi si ravveda tempestivamente – nega il rinnovo dei permessi di guida per periodi superiori a cinque anni a chi abbia superato i cinquantacinque anni d’età. Ma al riguardo si sperano correttivi tempestivi, poiché se da una lato si riconosce al sessantenne la capacità di reggere il ritmo della catena di montaggio non si comprenderebbe in base a quale perverso meccanismo logico dovrebbe negarsi allo stesso soggetto la capacità di pilotare un tir o una più contenuta utilitaria.
Certo è che qualora le aziende dovessero imperterrite continuare nella loro consolidata politica di pulizia anagrafica dei ranghi, il meccanismo voluto dal governo in essere si tramuterebbe in una beffa amara, poiché il risultato sarebbe esclusivamente quello di aver posticipato a calende greche il pensionamento, che non è certo un premio di vecchiaia ma un reddito di sussistenza per cessate e capacità lavorative, e d’aver creato un esercito di disperati a cui sarebbe negato il diritto di sopravvivere.
In altri termini, non è concepibile stabilire per legge una conclamata capacità lavorativa, al solo fine di risparmiare nell’erogazione degli assegni di previdenza, e non varare al contempo strumenti che salvaguardino il diritto alla percezione di un reddito per coloro che da questo virtuosismo contro natura non riescono a trarre alcun beneficio. D’altra parte è noto che l’espulsione dal processo produttivo di masse significative di lavoratori avviene per ragioni di natura economica: anzianità di servizio significa anche anzianità retributiva, dunque maggiori oneri per le imprese, che ragionevolmente preferiscono sostituire quelle risorse con giovani a costo più contenuto, se non addirittura sottopagati e sfruttati, grazie ad una legislazione connivente e illusoria della capacità di creare nuovi posti di lavoro.
Oggi Innocenzo Cipolletta, economista e già direttore generale di Confindustria, ha evidenziato l’esistenza di questo gravissimo problema, per il quale nulla è stato fatto nel corso degli anni e che in questi tempi di crisi aggressiva si sta rivelando come una vera emergenza sociale. Si parla allora di salario minimo garantito da erogare a tutti i lavoratori rimasti senza impiego a prescindere dall’età anagrafica, ma che nel caso degli ultracinquantenni dovrebbe servire proprio a garantire il sostentamento di coloro che non trovano più lavoro e, contemporaneamente, non possono accedere al pensionamento per carenza di requisiti contributivi e d’età. Tale salario dovrebbe essere posto a carico delle imprese che dismettono la manodopera, poiché, secondo Cipolletta, loro è il beneficio della riduzione di costo.
L’idea non è malsana. Peccato che Cipolletta ci abbia pensato adesso, da libero pensatore, e non quando rivestiva un ruolo significativo nel consesso degli industriali, dal quale avrebbe potuto essere senza dubbio maggiormente determinante nel trasformare in provvedimento vero quel che appare di questi tempi un pio desiderio o solo un pentimento tardivo.
Dopo di che c’è solo da augurarsi che il professor Monti lasci spazio al parlamento sovrano per emendare le misure che ha presentato agli Italiani, rinunciando a porre voti di fiducia che negherebbero ogni spazio ad un ravvedimento su alcuni aspetti del suo pacchetto che palesemente difettano di equità. Speriamo che Monti abbia con la sua manovra voluto dimostrare che realizzare piani di risanamento non è cosa impossibile, ma solo una questione di buona volontà, sebbene la buona volontà non deve mai diventare supponenza ed arroganza dei tecnicismi, per i quali sarebbe stato sufficiente un Tremonti qualsiasi.

(nella foto, una riunione di lavoratori in carriera in una nota azienda del nord Italia)

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