sabato, aprile 27, 2013

Enrico Letta, l’uomo no frost



Si tenta il governo di larghe intese voluto da Napolitano - Battaglia sui nomi degli eventuali ministri e sul contenuto del programma – I grillini rimangono congelati e si chiamano fuori – La difficilissima via delle riforme nell’ipotesi di un governo PD-PdL

Sabato, 27 aprile 2013
Chi si fosse illuso che la strigliata di Giorgio Napolitano avrebbe potuto condurre sulla retta via i reprobi profumatamente pagati che spalmano quotidianamente le terga sugli scranni di Montecitorio e di palazzo Madama, andrà profondamente deluso. Tra professori veri, presunti e sedicenti, arrivisti della politica, famelici ambiziosi, assatanati dal potere, opportunisti ed altra macabra umanità, l’incarico affidato ad Enrico Letta è lungi dal potersi considerare di successo e comunque lontano dal poter scodellare un governo di qualità nell’ipotesi in cui vada a buon fine.
Le considerazioni predette non sono il frutto del pessimismo o del malanimo di chi scrive, - vale il famoso detto secondo il quale un pessimista è in realtà solo un ottimista ben informato, - quanto la constatazione della sussistenza di mille beghe ancora irrisolte all’interno dei palazzi della politica, a cominciare da quello del PD, dove la fronda contro Pierluigi Bersani e lo scontro tra le tante, troppe, correnti e i niet delle forze giovani ultimamente arrivate è lontano dall’essersi esaurito e lascia presagire ulteriori occasioni di resa dei conti.
Sul campo avversario – si fa per dire, visto che quel che dovrebbe nascere è negli auspici e nelle raccomandazioni del Colle un governo di “larghe intese” – lo sdoganamento imposto dalle parole di Napolitano ha scatenato gli appetiti più famelici, al punto da fare osare ai trucidi autori della più grande crisi del Paese dal 1929 persino l’arroganza di porre paletti sui nomi che il Presidente del Consiglio in pectore dovrebbe cooptare in alcuni ministeri chiave del suo governo, pena la negazione della fiducia in Parlamento.
Così, secondo il maggiordomo di Silvio Berlusconi, Angelino Alfano, Enrico Letta dovrebbe imbarcare oltre che lo stesso segretario del PdL anche il Mago Oz Renato Brunetta all’Economia, Maria Stella Gelmini all’Istruzione, Renato Schifani alla Giustizia – è già tanto che il diktat per questo ministero non riguardi il nome di Ghedini o Longo, notoriamente avvocati dell’ex Unto del Signore – e Paolo Romani all’Industria. Come dire la sansa del premiato oleificio PdL, da collocare proprio nei posti chiave, in grado di perpetuare lo sconcio dell’intimidazione della magistratura, lo sperpero del pubblico denaro a favore di qualche amichetto ammanicato con le opere pubbliche, l’ingrasso di qualche mecenate privato che ha investito in cultura di bassa lega.
Ma con un siffatto governo, pur prescindendo dai nomi che alla fine sarebbero collocati alla guida dei vari ministeri, c’è da chiedersi come potrebbero mai realizzarsi quelle riforme essenziali del sistema, prime fra tutte la legge sul conflitto d’interessi e la riforma della magistratura, che peraltro costituiscono impegni ineludibile della campagna elettorale del PD. Ha perfettamente ragione Nichi Vendola quando sostiene che con il governo di larghe intese è morta l’alleanza di centrosinistra, poiché se sarà persino difficile varare una riforma della legge elettorale con il consenso del centrodestra, chissà quale sarà il destino di riforme più pressanti come quella del lavoro o della fiscalità.
Dunque, la prospettiva non lascia spazio agli ottimismi, ma induce a credere che lo spauracchio di dimissioni di Napolitano e il ritorno alle urne obbligherà il Paese a sciropparsi un’altra agonia fatta di provvedimenti cervellotici, di esasperazione delle tensioni sociali e di propaganda propedeutica all’erosione del consenso elettorale delle parti in gioco, nella prospettiva che l’eventuale giocattolo rappezzato, miracolosamente messo in piedi, si sfasci irrimediabilmente e si torni a votare, per verificare chi ha guadagnato e chi ha perso in questa commedia dell’assurdo.
A parte le questioni sulla composizione del governo, lo scontro tra le parti in causa investe poi temi giudicati irrinunciabili da tutto il centrodestra, spostando il confronto acceso sui contenuti dell’eventuale azione programmatica dell’esecutivo allo studio. E’ il caso dell’IMU, ritenuta dal PdL un’imposta da cancellare retroattivamente, con tanto di restituzione ai cittadini di quanto pagato nel passato, e dal PD una voce d’introito pubblico da correggere, ma comunque da mantenere per foraggiare le casse dello stato e dei comuni. Nell’acceso dibattito s’inserisce anche Scelta Civica di Mario Monti, che fa sapere per bocca di Lorenzo Dellai e Andrea Olivero che il loro partito non accetterà mai alcuna pregiudiziale sull’argomento, mentre è pienamente disponibile ad individuare soluzioni che non snaturino l’essenza degli obiettivi finanziari posti alla base della ragion d’essere sia dell’IMU che Irap. D’altra parte per un PdL che ha dovuto incassare con la sconfitta elettorale l’azzeramento della sua presenza negli snodi del potere non è sopportabile non portare a casa almeno un successo su uno dei punti posti al centro del proprio programma elettorale.
Come si vede la battaglia è assai complicata e quali saranno alla fine gli elementi su cui convergere e realizzare le eventuali compensazioni non è facilmente prevedibile al momento, quantunque anche all’interno dello stesso PD la questione IMU venga considerata un pass-par-tout non secondario per riconquistare una certa quota del consenso perso con la base elettorale. Voci di corridoio fanno sapere che lo stesso Letta avrebbe preso buona nota delle proposte merse nel corso dei colloqui con le delegazioni dei partiti in tema di IMU e si dice che sarebbe favorevole  ad un suo rimborso attraverso l'emissione di titoli di Stato.
C’è da registrare come i contatti per la formazione del governo abbiano riguardato anche l’M5S, al quale Enrico Letta ha ricordato che la rigidità della loro posizione si sta rivelando decisamente sterile, mentre uno “scongelamento” potrebbe essere utile ai fini dell’introduzione di elementi di novità nel programma di governo. Ma, nonostante le sollecitazioni, non sembra che M5S e Grillo intendano fare un passo avanti ed aprire uno spiraglio ad una possibile collaborazione.
Tutto si gioca, dunque, su due delicati versanti. Il primo è quello legato ai nomi degli eventuali ministri. Il secondo, che in qualche misura impatta anche sul primo, è il consenso all’interno del PD, dove permane una significativa area di contestazione all’ipotesi di un governo con il PdL, area che pur dovesse votare la fiducia almeno per spirito di corpo e di facciata non mancherà di creare enormi problemi di tenuta alla continuità del potenziale esecutivo.

 

martedì, aprile 23, 2013

Napolitano rieletto Capo dello Stato



Giorgio il domatore frusta le belve spelacchiate al Barnum di Montecitorio – Le parole durissime del neo Presidente - Gli applausi liberatori dei cazziati – L’M5S nell’angolo e Grillo sempre più vaneggiante che grida al golpe  e lancia la profezia di un’apocalisse in autunno


Martedì, 23 aprile 2013
C’è chi l’ha descritto come Daniele nella fossa dei leoni, se non fosse che ci si trovava di fronte ad un vecchio, un vecchio con gli attributi però, e la fossa non ospitava leoni, ma solo disgraziati irresponsabili, oltre a qualche lenone – l’assonanza è salva – e qualche troia, - così per confermare il Battiato pensiero. C’è chi l’ha descritto come un domatore, intento a frustare le belve ribelli di un circo immaginario. A dire il vero in questa veste il vecchio con gli attributi è apparso sì in un circo sgangherato, ma le belve erano più randagi spelacchiati che non felini d’alto rango.
Il vecchio è quel Giorgio Napolitano che è già stato Presidente di questa repubblica farsa per sette anni e che adesso, alla veneranda età di quasi 88 primavere, davanti all’impossibilità di trovare una quadra sul nome del suo successore, è stato implorato di restare al suo posto per un altro settennato e continuare a guidare la baracca, più che pericolante, palesemente sfasciata.
«Non prevedevo di tornare in quest'Aula: è un fatto legittimo ma eccezionale» dichiara visibilmente commosso il vegliardo, anche se nella voce si coglie una certa contrarietà; tuttavia «bisognava offrire al mondo un'immagine di fiducia e di coesione nazionale. Per questo non potevo declinare, ero preoccupato per le sorti del Paese. V’è l’esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale», - ha detto Giorgio Napolitano – esigenza che alla fine lo ha convinto ad accettare, non senza sacrificio, un compito sicuramente duro.
Dopo i ringraziamenti a chi ha voluto accordagli la fiducia, però, è iniziato il discorso che in tanti temevano, quello di forte rimprovero ai partiti politici, che hanno dimostrato con «contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi» una profonda incapacità di dare «soluzioni soddisfacenti» alle richieste di riforma e di rinnovamento provenienti dalla società civile.
Agli applausi scrosciati che sono seguiti a queste dichiarazioni d’esordio – grotteschi, se si considera che lo stato di degrado in cui versa il Paese è certamente il frutto dell’ignavia di coloro che adesso si spellano le mani, - Napolitano mostra quasi irritazione e ammonisce di non lasciarsi andare con quell’applauso ad «alcuna autoindulgenza», poiché certi comportamenti sono stati  «corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell'amministrazione e di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme», a cominciare dalla legge elettorale, la cui «mancata revisione ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell'abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare». Insomma, una cosa è certa, avverte Napolitano: se dovesse trovarsi di nuovo di fronte a «sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato», lui non esisterà «a trarne le conseguenze dinanzi al Paese».
Se questo è stato il messaggio chiaro e forte ai partiti tradizionali, non è certo mancata la rampogna a Grillo e ai sui sanculotti dell’M5S, che ben si son guardati dal partecipare all’applauso ripetuto a Napolitano. Il capo dello Stato rivolgendosi ai grillini dice di apprezzare il loro impegno per il cambiamento, ma indica loro la giusta via, che è quella di una «feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza, rete e Parlamento».
Un monito generale poi a prestare grande attenzione alle pulsioni eversive, alimentate dal clima di profonda sfiducia che serpeggia nel Paese. Occorre ricreare un clima di stabilità in Paese stremato dalla crisi e dall’angoscia della disoccupazione, condizioni che favoriscono l'affermarsi di «nuove pulsioni criminali ed eversive e fenomeni di tensione e disordine nei rapporti tra diversi poteri dello Stato».
In questo quadro è imperativo indicare un percorso: preso atto dei fallimenti della classe politica, è tempo di passare ai fatti. Per Napolitano quelli dei “saggi” sono «documenti di cui non si può negare, se non per gusto di polemica intellettuale, la serietà e concretezza». Ed è da quei documenti che bisogna ripartire per un governo basato «tassativamente sull'intesa tra forze diverse. Sulla base dei risultati elettorali, di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no, non c'è partito o coalizione che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto - se si preferisce questa espressione - si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni». Per Napolitano non v’è dubbio alcuno che i risultati elettorali «indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale». Per il capo dello Stato «che si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione della democrazia, di un diffondersi dell'idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica».
Infine il commiato dal Parlamento e il reinsediamento al Colle, non senza aver osservato il protocollo di rito, con l’omaggio al milite ignoto e l’ingresso al Quirinale con il saluto delle forze armate e l’alzo della bandiera presidenziale.
Di questa giornata storica, in cui per la prima volta l’Italia ha assistito alla rielezione di un Presidente uscente, rimangono le immagini dei leader politici dei maggiori partiti con le orecchie basse e con in volto la rassegnazione a dover intraprendere da domani la strada in salita di intese che ridiano al Paese la governabilità mancante da troppo tempo. Sullo sfondo, l’immagine di un Grillo, che ottusamente continua a gridare al golpe per la scelta effettuata dal Parlamento di rieleggere Napolitano, ma che, in fondo, con le sue sciocche proteste rivela solo la pochezza del suo movimento e la sterilità di una protesta emotiva, capace solo di proclami senza senso – l’ultima è di un fallimento del Paese nel prossimo autunno - e completamente priva di propositività.


sabato, aprile 20, 2013

Gioco al massacro



Il PD nel caos – Si dimettono Bersani e Bindi - Rodotà inspiegabilmente  inviso ad una  parte del partito di cui è stato presidente – E sotto   pesano gli  inconfessabili   inciuci  con il PdL 

Sabato, 20 aprile 2013
Siamo già alla quinta votazione per l’elezione del Capo dello Stato, due nomi sono stati definitivamente bruciati, quello di Franco Marini e quello di Romano Prodi, e nulla lascia prevedere quando quella che con il passare delle ore assume l’aspetto di un’incredibile buffonata arriverà alla conclusione.
Che Beppe Grillo avesse già lanciato il suo anatema contro la vecchia classe politica, definita di zombie da mandare a casa, è cosa arcinota, ma che i sepolcri imbiancati che, piaccia o meno, stanno dimostrando d’occupare abusivamente un posto in Parlamento decidessero così in fretta il suicidio di massa, francamente, non se lo sarebbe mai aspettato nessuno.
A guardare questa pulp fiction in corso, in cui sono cadute le teste anche di Anna Finocchiaro e quella di D’Alema oltre a quelle dei sopra menzionati candidati ufficiali del PD, ci si rende conto della squallida pochezza dell’intero partito democratico, gruppo dirigente in testa, che con i veti incrociati, le imboscate, i tradimenti nel segreto dell’urna e le defezioni ha dimostrato in modo inequivoco come le porcherie, i giochi sporchi, gli accordi sottobanco e quant’altro di esecrabile fosse pratica usuale anche all’interno del partito leader della sinistra italiana.
Le dimissioni di Rosi Bindi dalla presidenza del partito e quelle di Pierluigi Bersani dalla segreteria, sebbene segno evidente del disfacimento mortale del partito, non fanno certo giustizia del reato di altissimo tradimento perpetrato da questa miserabile nomenklatura ai danni della base elettorale, che pur per pochi voti aveva fatto vincere le elezioni al PD ed aveva sperato che fosse in grado di imprimere alla marcia politica nazionale, ammorbata da ventennio  berlusconista, una svolta nuova e di riscatto.
Non si comprende in questo sciagurato quadro la ragione per la quale un nome come quello di Stefano Rodotà, insigne costituzionalista, ex parlamentare nazionale ed europeo, ex presidente dell’Autorità garante della privacy e, se mai non bastasse, ex presidente del PD, sembri risultare persino inviso al partito di Bersani, che ben s’è guardato d’inserirlo nel mazzo delle candidature possibili per il Colle, sapendo altresì che il suo nome era largamente condiviso dai “cittadini” di Grillo e che il convergervi avrebbe aperto un ampio spiraglio ad un possibile dialogo con l’M5S.
Tutto ci si poteva attendere dal PD e da un Bersani che alla vigilia dell’inizio delle votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica aveva dichiarato tronfio che le elezioni si sarebbero concluse in breve, dato che il carnet dei nomi proponibili era “ampio e condiviso”, tranne che nell’arco di 48 ore, cioè nel giro di quattro tornate di votazioni, distruggesse definitivamente il partito. L’aria puzza talmente di morte al punto da far stimare agli addetti ai lavori una perdita di oltre il 10% per il PD qualora s’andasse a nuove elezioni nazionali. Un risultato pazzesco se si pensa che sino ad una ventina di giorni or sono Pierluigi Bersani, nonostante le nubi fosche all’orizzonte, aveva ricevuto un incarico per tentare la formazione di un governo per il paese e ancora parlava di “smacchiare i giaguari”.
Se queste sono le tragiche ed amare conclusioni, allora non resta che chiedersi quale sia il grado di dignità residuo rimasto a questa gente. Molto poco, a quanto si può dedurre, visto che nonostante abbia ricevuto sollecitazioni di ogni sorta, accompagnate da contestazioni infarcite da insulti dalla piazza, ha testardamente proceduto per la sua strada in modo sprezzante. Se poi si guardano le immagini strabilianti mandateci da tutti i canali televisivi del moratale abbraccio tra Bersani e Alfano nell’emiciclo di Montecitorio, si afferra il senso sconcertante delle connivenze tra il PD e il PdL, due movimenti politici antagonisti per definizione almeno in pubblico, pronti ad un collaborazionismo abominevole nelle stanze dei bottoni.
E di questi minuti la notizia che diverse delegazioni di partito hanno chiesto udienza a Napolitano per  sollecitargli di rendersi disponibile ad un nuovo mandato in considerazione del gravissimo caos in atto nell’elezione del suo successore.
Non è chiaro cosa potrà rispondere il Presidente in carica, ma è indubbio il suo imbarazzo dovuto da una parte all’alto senso di responsabilità per la situazione e, dall’altro, al doversi misurare con un personaggio come Stefano Rodotà, amico e collaboratore, sostenuto ancora dai grillini, che hanno fatto sapere di non voler far convergere il loro voto sull’attuale inquilino del Quirinale.
La mossa, pertanto, potrebbe essere la seguente. Accettare la rielezione dopo aver parlato con Rodotà e preannunciargli che a lui sarà affidato l’incarico di formare il nuovo governo, in modo da metterlo in condizione di ritirare la propria canditura al Colle. Tale mossa metterebbe in grosse difficoltà i grillini, che perderebbero il candidato di bandiera ritrovandoselo poi come presidente incaricato, al quale difficilmente potrebbero negare la loro collaborazione. Nello stesso tempo, Napolitano potrebbe accettare di ricandidarsi con l’impegno dei partiti a varare quelle riforme urgentissime, come la legge elettorale, al varo della quale indire nuove elezioni per poi dimettersi e lasciare ad un nuovo parlamento, questa volta eletto con una legge decente, il compito di insediare un Presidente della Repubblica.
Certo è che, comunque vadano le cose, questa volta di cadaveri al suolo ne resteranno tanti.