domenica, dicembre 22, 2013

Per il lavoro un progetto già morto



Il neosegretario del PD, Matteo Renzi, fa sapere di aver pronto un piano di rilancio per il lavoro - Oscar Farinetti e il modello Eatily sembrerebbero le linee guida che lo ispirano - Sarà solo benzina sul fuoco?
                                Oscar Farinetti
Domenica, 22 dicembre 2013
Consumato il rito dell'elezione del neosegretario, il PD si appresta adesso a promuovere una serie di provvedimenti che non mancherà di accendere polemiche e scontri non solo con i soci di governo dell'Ncd di Angelino Alfano e le opposizioni, ma anche al suo interno, dove le anime contrapposte sembrano momentaneamente placate in attesa di un'occasione che non tarderà ad arrivare.
Il nuovo segretario, Matteo Renzi, che conta sugli effetti benefici della mossa d'aver piazzato uno dei suoi avversari, Gianni Cuperlo, alla presidenza del partito s'è già mosso con l'avvio di una serie di contatti a tutto campo sul tema scottante della legge elettorale, che rappresenta un grosso scoglio sul cammino della sua leadership, sebbene l'ostacolo più difficile c'è ragione di credere si dimostrerà quel Job Act sbandierato a gran voce dai palchi, ma che nei contenuti è ancora tutto da formulare.
Nelle dichiarazioni dei suoi stretti collaboratori e sostenitori già è emerso qualche indizio, ma è bastato quello per dar fuoco alle polveri della polemica e lasciare intendere che la strada di una riforma del mercato del lavoro sarà fortemente in salita, a causa delle ovvie contrapposizioni che prelude tra sindacati e organizzazioni datoriali: in mezzo allo scontro i giovani, i precari, i disoccupati, che attendono oramai da troppo tempo una terapia efficace per la creazione di opportunità di quell'occupazione che è base necessaria e fondamentale per la ripresa dell'economia del Paese.
Le premesse, comunque, non fanno prevedere tempi brevi, non fosse perché s'è ricominciato a parlare di modifica dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè di quelle norme di stabilità e garanzia del posto di lavoro che ha rappresentato il muro su cui si sono schiantati sia il ministro Sacconi nel governo Berlusconi che Elsa Fornero nel governo Monti e su cui s'è assistito a numerosi naufragi di ogni tentato progetto di riforma del mercato del lavoro.
Contrariamente a ciò che viene costantemente spacciato per modernismo ed elemento imprescindibile di un rilancio del mercato del lavoro da schiere di dissimulati opportunisti, la riforma dell'articolo 18 è questione falsa e per ciò priva d'ogni fondamento, poiché la rarefazione delle opportunità d'impiego non dipende certo da norme che garantiscono la stabilità del rapporto di lavoro, quanto dalla profondissima contrazione delle attività produttive e, dunque, dal minore fabbisogno di manodopera impiegata nel processo produttivo.
L'altro elemento che gioca un ruolo esiziale a sfavore della domanda di lavoro è rappresentato dai pesanti oneri a carico del lavoro medesimo, che fungono da disincentivo all'assunzione di nuovo personale. Non è infatti un caso che la riduzione massiccia di manodopera abbia riguardato i lavoratori con maggiore anzianità, che godono di retribuzioni più elevate e quindi assoggettati ad oneri contributivi più pesanti. Allo stesso tempo le poche assunzioni che sono state effettuate hanno riguardato sì giovani, ma con contratti a termine e con retribuzioni d'ammontare ridicolo se non da terzo mondo.
Un esempio di questo andamento - preoccupante se si pensa che il personaggio rappresenta un punto di riferimento dell'idea renziana di riforma del mercato del lavoro - è quanto accada in un azienda considerata di successo in quest'epoca di crisi generale. Parliamo di quell'Eatily, di Oscar Farinetti, in cui orde di disperati, ricattati dalla penuria di lavoro, prestano la loro opera per 40 ore settimanali, senza domeniche e festivi, per una retribuzione lorda di 8 euro, inferiore a quella riconosciuta ad una colf ad ore rumena o polacca. In più, - almeno stando alle notizie che si leggono sulla stampa ed alle stupefacenti dichiarazione dell'interessato, - in un clima di vessazione e di controllo da far invidia a quelli in atto nei peggiori regimi totalitari.
«Noi non chiudiamo mai, siamo accoglienti per la clientela e i dipendenti. I nostri ragazzi possono mangiare gratis. Ci costa un milione di euro e diamo pure la quindicesima. Siamo rivoluzionari: esportiamo il marchio italiano nel mondo, dove ci rispettano e dove non ci trattano così. - ha dichiarato con ostentazione Farinetti nel corso di un'intervista -  Abbiamo dato un’occupazione a 3000 persone. Io non voglio creare un’azienda, fallire e mettere la gente in cassa integrazione. - ha continuato - Non ci prendiamo dividendi, investiamo i nostri soldi e lo Stato non ci dà nulla. E voi, che buttate fango, ci fate passare per banditi.»
Ma l'autoesaltazione sprofonda nella vergogna quando il mecenate Farinetti conferma che il personale a fine turno è sottoposto a perquisizione e fornisce le allucinanti ragioni di questa pratica. «Quando staccano l’ultimo turno di mezzanotte, le commesse vengono perquisite.  Lo facciamo a Roma perché gli spogliatoi sono vicini ai magazzini. Il problema è il senso civico: manca. E pure l’esempio, la politica che esempio mostra? Controllare le borsette è da barbari, ma rubare non è più barbaro? Hanno un reddito basso. E chi ha un reddito basso e non ha coscienza civica è spinto a rubare.» (sic!)
Non meno lisergiche sono le considerazioni sull'articolo 18, che il suo amico Matteo Renzi ha fatto intendere di voler rivedere. «Certo, ci mancherebbe, - s'affretta a precisare Farinetti - ma toccare un argomento così delicato, per come funziona l’Italia, ti costringe a parlare e parlare per sei mesi. Una roba che stanca: inutile. La questione è il lavoro garantito. Voglio dire che il lavoro garantito, per chi non ha voglia di lavorare, è un delitto, perché i ragazzi che vogliono e non possono, restano a casa. Il sindacato è  un impedimento, di sicuro. E non voglio criticare la Cgil, o la Cisl o la Uil. Ma voglio dire chiaro che le corporazioni hanno protetto i loro interessi e basta. Compresi Confindustria, artigiani, commercianti, associazioni varie. Gli italiani non si fidano più.»
Come si vede, idee chiare e soprattutto innovative, dalle quali emerge la volontà di riconoscere una dignità esemplare a chi lavora o cerca un'occupazione. Quel che rileva è comunque il peso che il neosegretario e tutto il PD vorrà riconoscere a queste farneticazioni, perché è certo che il fuoco della rivolta che cova sotto la cenere davanti all'ennesima provocazione è probabile che questa volta divampi impetuoso, travolgendo la politica e le sue discutibili vestali.
 

domenica, dicembre 08, 2013

Cenone natalizio senza maiale



Finalmente la sentenza della Corte Costituzionale che cancella un'ignobile legge elettorale - Com'era prevedibile, di fronte alla sentenza, tutti i partiti si dichiarano concordi , ma segretamente sono in tanti a covare livore verso Corte - E il solito Berlusconi non ne fa mistero

Domenica, 8 dicembre 2013
Magra consolazione la nostra, che l'avevamo gridato a gran voce. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge 270/2005, cioè la legge elettorale meglio nota con il nome di Porcellum, e le polemiche già da lungo tempo in essere sulle norme con le quali si è fino ad oggi proceduto alla formazione del Parlamento sono divenute roventi.
Prima di entrare nel merito di una decisione di cui non sono ancora note le motivazioni, è opportuno precisare che, quantunque possa apparire paradossale che siano trascorsi ben otto anni da quando il famigerato Porcellum è entrato in vigore e si sia votato ben tre volte con quelle norme, la Corte Costituzionale non aveva alcun potere d'intervento sulla legge in questione, poiché nel nostro ordinamento sono previste due sole vie di accesso al giudizio della Corte: il procedimento in via incidentale (indiretta o di eccezione) e il procedimento via in diretta o principale (via di azione). Nel primo caso la questione di legittimità può essere sollevata nel corso di un giudizio e davanti a un'autorità giurisdizionale, mentre nel secondo caso la facoltà di ricorso al suo giudizio è data unicamente allo Stato e alle Regioni (e alle province autonome di Trento e Bolzano), qualora sussistano presenti conflitti d'interesse tra norme statali e regionali.  In Italia, non è ammesso, invece, a differenza di altri sistemi (Spagna, Germania) alcuna ipotesi di accesso diretto del singolo individuo al sindacato costituzionale, per richiedere la tutela di diritti costituzionalmente garantiti e che si ritengano essere stati lesi.
Questo meccanismo spiega le ragioni per le quali sia stato necessario attendere così a lungo per ottenere un pronunciamento della Corte, la quale ha dovuto aspettare che nel corso di un processo fosse sollevata l'eccezione di costituzionalità e tale eccezione fosse dichiarata manifestamente fondata dall'alta Corte di Cassazione.
Questa procedura, certamente farraginosa e lenta, risponde d'altra parte all'esigenza di garantire costituzionalmente l'indipendenza dei poteri dello stato, in questo caso del Parlamento, cui compete legiferare, e della Presidenza della Repubblica, cui compete la promulgazione delle leggi varate da quell'organo. Ed in questo passaggio risiede l'individuazioni di responsabilità assai precise, poiché il Parlamento è dotato di una Commissione, Affari Costituzionali, cui compete valutare la coerenza di legittimità delle leggi da sottoporre al vaglio delle Camere, e della Presidenza della Repubblica, su cui grava analogo onere. Non a caso al Capo dello Stato è riconosciuto il potere di rinvio alle Camere delle leggi sospettate di violare i principi fondanti della Repubblica.
Sulla base di queste premesse appare chiaro come la responsabilità del caos istituzionale determinatosi con la dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale non possa ricadere che sul Parlamento pro-tempore nel 2005 e su Carlo Azeglio Ciampi, Capo dello Stato dell'epoca, entrambi colpevoli d'aver reso esecutiva una legge assurda  sia sotto il profilo costituzionale che tecnico: lo scandaloso premio di maggioranza riconosciuto alla coalizione politica destinataria della maggioranza dei voti degli elettori e il blocco delle liste dei candidati, scelti ad insindacabile giudizio dalle segreterie dei partiti e non più soggetti all'espressione di voto di preferenza da parte degli elettori.
Ed è proprio su questi due punti che la corte ha assunto una decisone inequivoca, poiché un premio di maggioranza avulso da qualunque soglia minima ha costituito una palese violazione degli equilibri tra maggioranza e minoranza, mentre l'impossibilità di scegliere il parlamentare ritenuto più rappresentativo dei propri interessi ha mortificato lo stesso concetto costituzionale di rappresentanza, riducendo la democrazia ad uno zimbello di stampo autoritario.
Queste considerazioni rendono altresì finalmente palesi le ragioni per le quali dalla Lega al PdL al PD si sia simulata una guerra segreta per il mantenimento del Porcellum, nonostante le altisonanti dichiarazioni sulla necessità di cambiare le regole del gioco: il controllo pregnante del comportamento dei parlamentari eletti non per volontà del popolo ma per i bassi giochi  delle segreterie di partito hanno ridotto le Camere ad un grand guignol,  in cui marionette senza anima e cervello hanno dovuto eseguire gli ordini di scuderia, pena la non ricollocazione nelle liste. La spregevole farsa del voto sulla nipote di Mubarak è ancora viva nella memoria, a conferma di una deriva costituzionale da dittatura totalitaria.
Al fascino di questo ignobile meccanismo di stravolgimento democratico non è certo sfuggito neanche il Movimento Cinque Stelle del premiato duetto Grillo-Casaleggio, critico verso il meccanismo elettorale nella facciata, ma opportunisticamente consapevole che un destino elettorale affidato a tanti facinorosi, inconcludenti, sprovveduti inseriti nelle sue liste non avrebbe mai potuto consentire di acquisire un 25% dei seggi parlamentari. Allora, grazie a questa legge truffa, s'è puntato tutto sull'istrionismo del grande predicatore Grillo e sul profondissimo malcontento che da tempo aveva permeato in modo irreversibile il corpo elettorale. E se così non è stato - come obietterebbe l'invasato patron dell'M5S - si vedrà alla prossima tornata elettorale, quando qualunque nuova legge venga approntata in sostituzione del Porcellum, sarà ripristinato un vincolante voto di preferenza.
Magra consolazione, era stato il prologo e magra consolazione è l'epilogo, poiché ed al di là delle irrilevanti responsabilità ciò che s'è determinato nel corpo sociale nell'ultimo decennio con la caduta verticale della fiducia nella politica e nelle istituzioni e gravissimo, e difficilmente potrà recuperarsi nel breve termine. E per quanto anche questo scempio sia in larga misura un altro lascito del berlusconismo peggiore l'eventuale rimedio difficilmente riuscirà a cancellare i postumi della malattia.   
 

martedì, dicembre 03, 2013

Gli esperti del necrologio



Incendio nella notte in una fabbrica del pratese - Nel rogo muoiono sette lavoratori cinesi - Fabbriche dormitorio in cui si lavora in condizione di schiavitù e per un pugno di riso - Le solite dichiarazione di cordoglio

Martedì, 3 dicembre 2013
Non passa giorno che una brutta notizia occupi le prime pagine dei giornali. Oggi, a parte la cronaca degli allagamenti ed i morti a causa del maltempo, il titolo principale e quello della morte dei sette cinesi arsi vivi a Prato, in un capannone adibito alla manifattura di capi d'abbigliamento con l'impiego di manodopera ridotta in schiavitù.
A parte l'orrore per la morte atroce di sette poveri disgraziati, la notizia in sé potrebbe rientrare nelle storie d'ordinaria crudele mattanza di lavoratori che ci riserva da tempo la cronaca italiana, quella cronaca sempre più simile a quella del Times of India o del The Bangladesh Journal. Sì, perché in quanto a gente che ci lascia la pelle per guadagnarsi da vivere il nostro Paese ha un bel primato: i 1600 morti all'anno sono un numero impressionante e spia evidente del rispetto delle più banali norme sull'antinfortunistica e dei mancati controlli da parte delle autorità preposte. E s'è vero che ambiamo a sedere nel consesso dei paesi civili e avanzati, fatti di questa natura non fanno che ridimensionare la nostra immagine e le nostre pretese.
Ovviamente, ad ogni disgrazia di questo genere s'assiste alle ipocrite prese di posizione di politici, sindacalisti, istituzioni e fauna similare, che fanno a gara per stendere il necrologio migliore o esternare sentitissima partecipazione, ma senza che ciò porti ad un cambiamento significativo nel sistema di prevenzione. Nel caso in questione poi è singolare come media cartacei e televisivi abbiano tenuto a precisare che si trattava di cinesi e non di operai morti sul lavoro. Quasi la morte risulti meno drammatica se
Ma l'aspetto che più inquieta in quest'ultima disgrazia è l'ambito nel quale s'è verificata, una realtà assai presente nel territorio dello stato, ma che nei fatti viene trattata come se non esistesse o, al più, come del tutto marginale. Parliamo di quella numerosissima comunità cinese che è presente a macchia di leopardo in tutta la Penisola, ma che a causa della scarsissima integrazione costituisce un nucleo su cui poco si conosce e, soprattutto, che da sempre si muove ed opera all'interno di regole e meccanismi quasi misteriosi, che sfuggono più o meno volutamente all'apparato di controllo istituzionale. E se questo ha un minimo di giustificazione là dove la presenza della comunità è diluita sul territorio, diventa quasi incomprensibile in quelle aree come Prato in cui su 6500 aziende produttive allocate nel Macrolotto ben 4000 risultano gestite da Cinesi.
Ciò che è successo a Prato, alla luce di questi numeri, appare non solo il frutto della fatalità, ma il risultato di una serie di gravissime inadempienze di enti come Ispettorato del Lavoro, Asl, Inail, Inps e forze dell'ordine. Infatti, secondo il comandante della polizia municipale Pasquinelli la ditta andata a fuoco non era mai stata controllata. Nel capannone, in cui si produceva pronto moda, erano stivati materiali altamente infiammabili, come stoffe e plastiche: la lavorazione non avveniva quindi con macchine tessili, ma utilizzava tessuti sintetici e cellophane per confezionare gli abiti, tutti materiali che hanno facilitato il propagarsi delle fiamme. Allo stesso modo non ha alcun fondamento la scusa addotta da Aldo Milone, assessore di Prato, secondo il quale i controlli sono resi impossibili dai trucchi cui ricorre questa tipologia d'aziende: aprono e chiudono nello spazio di due anni e rinascono con altro nome, una tempistica a fil di procedure che non consente l'avvio di accertamenti fiscali o di controlli previdenziali. Francamente ci sembrano scuse assai discutibili. Queste dichiarazioni mettono piuttosto a nudo le profonde carenze dei sistemi di controllo, assunto che per l'avvio di certe attività produttive i controlli sono preventivi e le autorizzazioni dipendono da quei controlli.
Dalla triste vicenda emergono purtroppo alcune verità. In primo luogo che c'è in Italia un grande sottobosco di lavoro nero completamente esente da ogni attenzione politica, sindacale e sociale, che si basa sul più bieco sfruttamento delle persone. Secondariamente, che l'apparato pubblico, forse per ignavia o forse per inciucio corruttivo, opera secondo regole del "laissez faire, laissez passer". In terzo luogo, le sventure che colpiscono le persone o le comunità straniere presenti nel nostro territorio, ancorché rappresentate da clandestini, servono a reclamare ipocriti richiami ad un futuro rispetto delle regole, ma finiscono nel dimenticatoio generale qualche ora dopo lo spegnimento dei riflettori sui fatti medesimi: abbiamo più volte denunciato lo stato di infame sfruttamento perpetrato ai danni di tanti giovani, peraltro non stranieri, nelle industrie e nel commercio al Sud, dichiarandoci persino disposti a fornire nomi e indirizzi degli sfruttatori, ma mai nessuno ha prestato attenzione a queste denuncie. In fine, è quasi comico che in un'Italia sul lastrico e che blatera da sempre che intende condurre una lotta dura all'evasione ci si accorga in queste circostanze che sono queste le realtà in cui si consuma un evasione massiccia.
C'è da chiedersi allora se non sia giunto l'ora di dare un taglio alle ipocrisie generalizzate e iniziare una campagna seria di controlli a tappeto che estirpi uno dei mali più gravi della nostra realtà sociale. D'altra parte i poveri morti di Prato non potrebbero essere onorati meglio che con un recupero di legalità, che renderebbe la loro scomparsa di qualche significato anche per coloro che continuano a fare differenze sulla base della lingua o del colore della pelle.