Gli esperti del necrologio
Incendio nella notte in una
fabbrica del pratese - Nel rogo muoiono sette lavoratori cinesi - Fabbriche
dormitorio in cui si lavora in condizione di schiavitù e per un pugno di riso - Le solite dichiarazione di cordoglio
Martedì, 3 dicembre
2013
Non passa giorno che una brutta
notizia occupi le prime pagine dei giornali. Oggi, a parte la cronaca degli
allagamenti ed i morti a causa del maltempo, il titolo principale e quello
della morte dei sette cinesi arsi vivi a Prato, in un capannone adibito alla
manifattura di capi d'abbigliamento con l'impiego di manodopera ridotta in
schiavitù.
A parte l'orrore per la morte
atroce di sette poveri disgraziati, la notizia in sé potrebbe rientrare nelle
storie d'ordinaria crudele mattanza di lavoratori che ci riserva da tempo la
cronaca italiana, quella cronaca sempre più simile a quella del Times of India o del The Bangladesh Journal. Sì, perché in
quanto a gente che ci lascia la pelle per guadagnarsi da vivere il nostro Paese
ha un bel primato: i 1600 morti all'anno sono un numero impressionante e spia
evidente del rispetto delle più banali norme sull'antinfortunistica e dei mancati
controlli da parte delle autorità preposte. E s'è vero che ambiamo a sedere nel
consesso dei paesi civili e avanzati, fatti di questa natura non fanno che
ridimensionare la nostra immagine e le nostre pretese.
Ovviamente, ad ogni disgrazia di
questo genere s'assiste alle ipocrite prese di posizione di politici, sindacalisti,
istituzioni e fauna similare, che fanno a gara per stendere il necrologio
migliore o esternare sentitissima partecipazione, ma senza che ciò porti ad un
cambiamento significativo nel sistema di prevenzione. Nel caso in questione poi
è singolare come media cartacei e televisivi abbiano tenuto a precisare che si
trattava di cinesi e non di operai morti sul lavoro. Quasi la morte risulti
meno drammatica se
Ma l'aspetto che più inquieta in
quest'ultima disgrazia è l'ambito nel quale s'è verificata, una realtà assai
presente nel territorio dello stato, ma che nei fatti viene trattata come se
non esistesse o, al più, come del tutto marginale. Parliamo di quella
numerosissima comunità cinese che è presente a macchia di leopardo in tutta la
Penisola, ma che a causa della scarsissima integrazione costituisce un nucleo
su cui poco si conosce e, soprattutto, che da sempre si muove ed opera
all'interno di regole e meccanismi quasi misteriosi, che sfuggono più o meno
volutamente all'apparato di controllo istituzionale. E se questo ha un minimo
di giustificazione là dove la presenza della comunità è diluita sul territorio,
diventa quasi incomprensibile in quelle aree come Prato in cui su 6500 aziende
produttive allocate nel Macrolotto ben 4000 risultano gestite da Cinesi.
Ciò che è successo a Prato, alla
luce di questi numeri, appare non solo il frutto della fatalità, ma il
risultato di una serie di gravissime inadempienze di enti come Ispettorato del
Lavoro, Asl, Inail, Inps e forze dell'ordine. Infatti, secondo il comandante
della polizia municipale Pasquinelli la ditta andata a fuoco non era mai stata
controllata. Nel capannone, in cui si produceva pronto moda, erano stivati
materiali altamente infiammabili, come stoffe e plastiche: la lavorazione non
avveniva quindi con macchine tessili, ma utilizzava tessuti sintetici e
cellophane per confezionare gli abiti, tutti materiali che hanno facilitato il
propagarsi delle fiamme. Allo stesso modo non ha alcun fondamento la scusa
addotta da Aldo Milone, assessore di Prato, secondo il quale i controlli sono
resi impossibili dai trucchi cui ricorre questa tipologia d'aziende: aprono e
chiudono nello spazio di due anni e rinascono con altro nome, una tempistica a
fil di procedure che non consente l'avvio di accertamenti fiscali o di
controlli previdenziali. Francamente ci sembrano scuse assai discutibili. Queste
dichiarazioni mettono piuttosto a nudo le profonde carenze dei sistemi di
controllo, assunto che per l'avvio di certe attività produttive i controlli
sono preventivi e le autorizzazioni dipendono da quei controlli.
Dalla triste vicenda emergono
purtroppo alcune verità. In primo luogo che c'è in Italia un grande sottobosco
di lavoro nero completamente esente da ogni attenzione politica, sindacale e
sociale, che si basa sul più bieco sfruttamento delle persone. Secondariamente,
che l'apparato pubblico, forse per ignavia o forse per inciucio corruttivo,
opera secondo regole del "laissez faire, laissez passer". In terzo
luogo, le sventure che colpiscono le persone o le comunità straniere presenti
nel nostro territorio, ancorché rappresentate da clandestini, servono a reclamare
ipocriti richiami ad un futuro rispetto delle regole, ma finiscono nel
dimenticatoio generale qualche ora dopo lo spegnimento dei riflettori sui fatti
medesimi: abbiamo più volte denunciato lo stato di infame sfruttamento
perpetrato ai danni di tanti giovani, peraltro non stranieri, nelle industrie e
nel commercio al Sud, dichiarandoci persino disposti a fornire nomi e indirizzi
degli sfruttatori, ma mai nessuno ha prestato attenzione a queste denuncie. In
fine, è quasi comico che in un'Italia sul lastrico e che blatera da sempre che
intende condurre una lotta dura all'evasione ci si accorga in queste circostanze
che sono queste le realtà in cui si consuma un evasione massiccia.
C'è da chiedersi allora se non
sia giunto l'ora di dare un taglio alle ipocrisie generalizzate e iniziare una
campagna seria di controlli a tappeto che estirpi uno dei mali più gravi della
nostra realtà sociale. D'altra parte i poveri morti di Prato non potrebbero
essere onorati meglio che con un recupero di legalità, che renderebbe la loro
scomparsa di qualche significato anche per coloro che continuano a fare
differenze sulla base della lingua o del colore della pelle.
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page