mercoledì, novembre 26, 2014

La vittoria di Pirro



Chiusi i seggi in Emilia Romagna e Calabria – Il PD canta vittoria, ma l’astensionismo tocca il preoccupante tasso del 70% - Forte ridimensionamento di FI e del M5S – Il vero vincitore è Salvini, che porta la Lega allo storico traguardo del 20% e doppia ciò che resta di Forza Italia

Martedì, 25 novembre 2014
Era già tutto previsto. Prevista la vittoria schiacciante del PD nelle regionali di domenica e prevista la disfatta di FI, con gli annessi assestamenti delle forze politiche satelliti, Lega da una parte e M5S dall’altra.
Ciò che non era stato previsto, almeno nella sua imponente quantità, è lo straordinario astensionismo vicino al 70% che s’è registrato, astensionismo che getta un’ombra inquietante sulle vittorie elettorali di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna e di Gerardo Mario Oliverio in Calabria, entrambi del PD ed entrambi rappresentanti di un risicato 40/50% dello sparuto drappello di elettori che s’è recato alle urne. Entrambi simbolici vincitori di una competizione in cui il popolo degli astenuti ha negato loro ogni legittimazione.
Per il premier Matteo Renzi, che ha da tempo palesato la predilezione per il fumo piuttosto che per la sostanza, non solo la vittoria dei due candidati PD è un successo, ma è un «fatto secondario» la scarsissima affluenza alle urne. La profonda disaffezione e disistima dell’elettorato verso la politica ed i politici emersa con questa sorta di “sciopero del voto” registratasi la scorsa domenica per bocca del segretario e primo ministro sarebbe quindi solo un fatto pressoché irrilevante. Così si è affrettato a parlare di un «cinque a zero» inflitto agli avversari, quasi che il governo del Paese si possa ridurre ad una ludica partita di calcio, giocata peraltro in un campo con gli spalti vuoti, e non riguardi, piuttosto, la sana amministrazione della cosa pubblica con equità e giustizia con il largo consenso della gente.
Il dato da leggere nelle elezioni amministrative dello scorso fine settimana, dunque, non è quello del successo del partito di Matteo Renzi, quanto il senso del profondissimo burrone che si è aperto tra il paese reale e quello legale, la frattura sempre più incolmabile tra una politica autoreferenziale e i veri problemi dei cittadini, che non trovano più soluzione e risposta compiuta nell’attenzione di chi governa, al punto da spingere a disertare le cabine a masse ormai disilluse. D’altra parte, chi canta vittoria omette di rilevare che sia alle Europee che in questa tornata d’amministrative i voti persi sono stati quasi due milioni ed il successo sembra misurarsi sempre più su un confronto giocato tra squadre senza supporter, in cui la partita non è di popolare calcio, ma di un elitario cricket che attrae solo uno sparuto drappello di fan.
E tutto questo non è certo da attribuire ai rosiconi, ai gufi, ai ferrivecchi, ai ruderi o ai nostalgici conservatori, quanto piuttosto a chi con le teorie su un improbabile modernismo al soldo dei poteri forti ha attentato ai pochi diritti del lavoro, ha bluffato sulla speranza di ridare lavoro, ha calpestato la dignità di milioni di giovani disoccupati e precari, ha umiliato milioni di pensionati con assegni da fame, ha gettato con cinica indifferenza nel ghetto della miseria migliaia di famiglie strangolate dall’assenza di reddito e da una politica fiscale semplicemente immorale. Se poi questi protervi predicatori del modernismo hanno creduto di poter abbindolare la gente con una mancia elettorale da ottanta euro, con vuoti proclami d’assunzione di massa nella scuola (peraltro imposti dalla UE, ndr), con ridicoli e nostalgici assegni bebè, con tronfie dichiarazioni impacchettate con esotici titoli linguistici ed altro improbabile ciarpame, evidentemente alla luce dei risultati debbono ricredersi sul buon esito delle loro litanie: il Paese non esce dalla crisi con finte riforme costituzionali o con papocchi come l’abolizione delle provincie; né ci si può illudere che basti una Leopolda e la cancellazione del «totem ideologico» articolo 18 – così definito da Renzi – per accreditarsi presso i lavoratori, i disoccupati ed i precari come il nuovo messia in grado di rompere le catene dello sfruttamento atavico cui sono condannati i milioni di senza reddito d’Italia. Se alle parole non seguono i fatti, quelli capaci d’incidere veramente in una realtà disperata, allora si rassegni Renzi: la sua è stata solo propaganda squallida, acido solforico versato sulle ferite vive di milioni di speranzosi.
Non diverso il giudizio che si può trarre sulla disfatta di Grillo e del suo M5S, un movimento dichiaratamente condannato all’immobilismo, fino ad oggi incapace di portare a casa uno straccio di successo targato cinque stelle, sebbene forte di un 25% alle politiche. E se si pensa che questa Caporetto il movimento l’ha vissuta proprio in quell’Emilia nella quale aveva levato i primi vagiti, non v’è dubbio che il tonfo risulta ancora più fragoroso.
C’è chi sostiene che il calo del M5S fosse del tutto prevedibile. Quello è stato un movimento sorto sulle ali di una diffusa protesta popolare migrata dall’ex PdL e dalla Lega di Umberto Bossi. Il reflusso migratorio della protesta dal movimento del deludente Grillo sarebbe la chiave per interpretare il rilevante successo della Lega di un Matteo Salvini, che, aspirapolvere alla mano e in una sola giornata di votazioni, è riuscito a raddoppiare i propri consensi, aspirando le polveri di ciò che ormai resta della sfasciata FI.
Ma se il discorso Grillo e Salvini, - questo sì, - riveste importanza secondaria, dato che né l’uno né l’altro riusciranno probabilmente mai ad assurgere a forza leader di governo, diverse sono le considerazioni che investono il sempre più traballante Silvio Berlusconi e la sua creatura FI. L’ex cavaliere aveva sperato con l’improvvido aiuto di Matteo Renzi e la firma del patto del Nazareno di uscire dal ghetto politico in cui era stato confinato dopo le sentenze di condanna subite. Per far questo gli occorreva tempo, che ha cercato di guadagnare imponendo ai suoi un comportamento non belligerante nei confronti del premier e della coalizione di governo, illudendosi che il tempo che lo separava dal ricorso a nuove elezioni, ricorso allontanato dal mancato varo di una nuova legge elettorale, gli avrebbe consentito presto o tardi di sgambettare l’arrivista Renzi e di ricostruirsi una sorta di rinnovata presentabilità. Questa strategia gli ha impedito di interpretare correttamente la realtà, le reazioni del suo elettorato ed il significato delle lotte intestine che si consumavano tra i suoi colonnelli Verdini, Brunetta e Fitto, con il risultato che i suoi elettori, sempre più delusi, si sono posti alla testa di un astensionismo senza precedenti o, nella migliore delle ipotesi, sono andati alle urne solo per rimpinguare la borsa di una Lega sempre più presente in campo e capace di porsi come unica forza d’interdizione di destra del PD e dell’egemonia delle sinistre.
Il quadro che si delinea al termine della giornata elettorale è, dunque, assai sconfortante. A ben guardare nessuno ha vinto – l’Emilia Romagna è da sempre la fucina di un civismo esemplare e terra in cui la sinistra ha radici profondissime, pertanto il crollo dell’affluenza al voto non può liquidarsi come semplice atto di disaffezione politica momentanea. In questa prospettiva quella del PD di Renzi più che un’affermazione netta si rappresenta come una vittoria di Pirro, una vittoria che, se non sarà seguita una vistosa correzione di rotta, potrebbe assumere il tragico significato dell’inizio della fine.
 

mercoledì, novembre 19, 2014

Il signore della demagogia



Cadute le ultime resistenze sull’articolo 18 – Reinserito il licenziamento disciplinare nella fattispecie di tutela, anche se saranno i decreti delegati a circoscrivere i ricorsi al giudice – Ormai è chiaro: Renzi con la demagogia sul modernismo vuole precarizzare il lavoro


Mercoledì, 19 novembre 2014
Il giorno dopo al reinserimento dei licenziamenti disciplinari nel corpo dell’articolo18, in molti s’erano illusi che Matteo Renzi avesse lanciato un chiaro segnale di riavvicinamento alla cosiddetta sinistra del suo partito. Era sembrata quell’apertura l’elemento di sutura di una ferita che giorno dopo giorno divaricava i lembi e iniziava a mostrare evidenti segni d’infezione; una ferita che, se mai il tempo fosse stato in grado di rimarginare, avrebbe lasciato una cicatrice profonda, che nessun intervento estetico sarebbe stato in grado di cancellare.
Ma l’apparente arrendevolezza di Renzi, - scambiata per rinsavimento da qualche ingenuo buonista, - è durata l’espace d’un matin, poiché a margine dell’annuncio è arrivata la precisazione che il governo in sede di emanazione dei decreti attuativi del Jobs Act delimiterà una rigida casistica in cui troverà applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento disciplinare. Come dire, nulla è cambiato rispetto all’orientamento iniziale del governo sul superamento dell’articolo 18. S’è solo inteso dare un formale contentino alla contestazione interna nel PD, senza che nella sostanza si possa parlare di novità o d’inversione di rotta. Nel merito, il governo intenderebbe specificare che nel caso dei licenziamenti disciplinari il reintegro sarebbe possibile solo quando la motivazione addotta dall'azienda venisse dichiarata falsa o inesistente dal giudice. Per gli altri casi ci sarebbe l'indennizzo crescente con l'anzianità, come per i licenziamenti economici.
A prescindere dalle technicalities – per usare un termine sicuramente apprezzato dal nostro premier – che verranno utilizzate per assestare il colpo di grazia all’ultimo baluardo delle tutele del lavoro e che sono demandate ad appositi decreti delegati, ciò che della vicenda merita commento è la pervicace volontà con la quale s’è inteso arrampicarsi sugli specchi pur di raggiungere il proposito di trasformare il mercato del lavoro in quel far west sognato da decenni dai rappresentati e dai sostenitori della deregulation senza frontiere. La stessa tigna con la quale s’è cercato di cancellare l’esistenza dell’articolo 18, definito dai suoi detrattori persino un totem ideologico per svilirne il ruolo di argine al becero potere padronale, dimostra inconfutabilmente che la sua soppressione non era poi fatto di marginale interesse. Se così fosse stato, - specialmente in epoca in cui le priorità sembrano essere ben altre, -  non ci sarebbero stati gli scontri accesi tra coloro che intendevano conservarne l’esistenza e le schiere degli autoproclamatisi progressisti che miravano alla sua definitiva cancellazione, al punto da creare le condizioni per un’eventuale scissione nell’ambito del PD.
La verità inconfessabile e che nulla ha a che vedere con le suggestive fandonie spacciate da Renzi ed i suoi boys per reali, quali “l’articolo 18 è un freno agli investimenti nel Paese”, “l’articolo 18 è un elemento d’ingessatura del mercato del lavoro”, “la crisi dell’occupazione si sconfigge con la cancellazione dei privilegi” e così via, è le finalità cui mira il governo sono lo smantellamento delle garanzie dei lavoratori e la precarizzazione del sistema dell’impiego, proprio per offrire la massima flessibilità alle imprese in materia di costo del lavoro. Già un primo traguardo era stato conseguito con lo sciagurato decreto legislativo 276 del 2003, meglio noto come legge Biagi, corroborato dalla legge Fornero del 2012 e dal decreto Poletti del 2014: mancava un ultimo tassello, contro il quale aveva dovuto desistere persino il governo Berlusconi, rappresentato dall’articolo 18, che Renzi è riuscito ad incastonare magistralmente nel progetto di deregolamentazione globale.
Invano da più parti è stato sottolineato che non sarà certo l’abrogazione delle tutele del lavoro che consentirà una ripresa dell’occupazione, poiché senza una ripartenza dell’economia e, dunque, della produzione industriale stimolata dai consumi, non c’è alcuna speranza di creare nuove opportunità occupazionali. Alle lobby industriali e finanziarie che stanno dietro l’attuale maggioranza di governo interessava portare a casa un prezioso risultato, a futura memoria, da spendere allor quando le condizioni muteranno e la crisi inizierà a diradarsi.
D’altra parte strategicamente non v’era momento migliore per sferrare l’attacco finale ai diritti dei lavoratori che quello attuale: disoccupazione elevatissima, precariato diffuso, divisioni profonde tra le sigle sindacali, povertà in rapido aumento, crisi dello stato sociale, caduta verticale della credibilità della politica, oppressione al limite del carico fiscale e contributivo, in altri termini, un corpo sociale del Paese ormai allo stremo per infliggere un colpo micidiale senza timore d’incorrere in destabilizzanti reazioni. Per certi versi, poi, c’è da registrare che la sinistra italiana nel tempo ha dimostrato come preferisca delegare l’esecuzione del lavoro sporco ad altri, magari fingendo proteste e rimbrotti quando si sono consumati abusi sociali esemplari, e assumere quegli abusi per irreparabili quando successivamente s’è trovata al governo. Dimostrazione di questo ambiguo comportamento opportunistico è l’atteggiamento tenuto dal PD ai tempi della vergognosa riforma delle pensioni di Maroni e del bordone retto a Monti ai tempi della criminale riforma Fornero dello stesso istituto. E se questo non bastasse, sarebbe sufficiente chiedere a Renzi come mai quello “stai sereno” venne nei fatti smentito appena qualche ora dopo l’annuncio dato da Enrico Letta che intendeva procedere all’emanazione di un provvedimento sul conflitto d’interessi, provvedimento ormai archiviato nel dimenticatoio. Certo, sarebbe stato imbarazzante sottoscrivere accordi come quelli del Nazareno con il destinatario principale di norme di quella natura.
In altri termini, con Matteo Renzi si assiste al trionfo della demagogia funzionale al recupero di quel terreno d’abuso e sopraffazione che il padronato aveva dovuto suo malgrado cedere sotto il peso delle lotte operaie, per la conquista di un rapporto di lavoro umanizzante, dignitoso e tutelato dallo strapotere capriccioso della proprietà dei mezzi di produzione.
E’ proprio sulla scorta di questi aspetti caratterizzanti la sua azione che Renzi si palesa sempre più in un personaggio che nulla ha in comune con l’essenza della sinistra e le sue tradizioni. Ma la triste constatazione non può limitarsi a Matteo Renzi  ed al carico umano che è riuscito ad imbarcare sul rimorchio del suo autocarro, carico politicamente modesto e che rinnega il proprio passato ma allo stesso tempo fortemente animato d’arrivismo d’antica fattura, quanto ai referenti storici del maggior partito della sinistra, cresciuti con il credo di una politica ispirata all’equità, alla giustizia, alla difesa delle classi sociali deboli, alla scuola di un socialismo fatto di parità di opportunità e di lotta per la rimozione delle barriere sempre più elevate tra categorie di reddito. E c’è da credere che i padri di quelle aspirazioni, qualcuno morto per la difesa di quei valori, guardando oggi a ciò cui s’è ridotto il più grande partito dei lavoratori dell’occidente, si rivoltino nella tomba, incapaci di capire e di credere ai propri occhi.