La vittoria di Pirro
Chiusi i
seggi in Emilia Romagna e Calabria – Il PD canta vittoria, ma l’astensionismo
tocca il preoccupante tasso del 70% - Forte ridimensionamento di FI e del M5S –
Il vero vincitore è Salvini, che porta la Lega allo storico traguardo del 20% e
doppia ciò che resta di Forza Italia
Martedì, 25 novembre 2014
Era già
tutto previsto. Prevista la vittoria schiacciante del PD nelle regionali di
domenica e prevista la disfatta di FI, con gli annessi assestamenti delle forze
politiche satelliti, Lega da una parte e M5S dall’altra.
Ciò che non
era stato previsto, almeno nella sua imponente quantità, è lo straordinario
astensionismo vicino al 70% che s’è registrato, astensionismo che getta
un’ombra inquietante sulle vittorie elettorali di Stefano Bonaccini in Emilia
Romagna e di Gerardo Mario Oliverio in Calabria, entrambi del PD ed entrambi
rappresentanti di un risicato 40/50% dello sparuto drappello di elettori che
s’è recato alle urne. Entrambi simbolici vincitori di una competizione in cui
il popolo degli astenuti ha negato loro ogni legittimazione.
Per il
premier Matteo Renzi, che ha da tempo palesato la predilezione per il fumo
piuttosto che per la sostanza, non solo la vittoria dei due candidati PD è un
successo, ma è un «fatto secondario» la scarsissima affluenza alle urne. La
profonda disaffezione e disistima dell’elettorato verso la politica ed i
politici emersa con questa sorta di “sciopero del voto” registratasi la scorsa
domenica per bocca del segretario e primo ministro sarebbe quindi solo un fatto
pressoché irrilevante. Così si è affrettato a parlare di un «cinque a zero»
inflitto agli avversari, quasi che il governo del Paese si possa ridurre ad una
ludica partita di calcio, giocata peraltro in un campo con gli spalti vuoti, e
non riguardi, piuttosto, la sana amministrazione della cosa pubblica con equità
e giustizia con il largo consenso della gente.
Il dato da
leggere nelle elezioni amministrative dello scorso fine settimana, dunque, non
è quello del successo del partito di Matteo Renzi, quanto il senso del
profondissimo burrone che si è aperto tra il paese reale e quello legale, la
frattura sempre più incolmabile tra una politica autoreferenziale e i veri
problemi dei cittadini, che non trovano più soluzione e risposta compiuta
nell’attenzione di chi governa, al punto da spingere a disertare le cabine a
masse ormai disilluse. D’altra parte, chi canta vittoria omette di rilevare che
sia alle Europee che in questa tornata d’amministrative i voti persi sono stati
quasi due milioni ed il successo sembra misurarsi sempre più su un confronto
giocato tra squadre senza supporter, in cui la partita non è di popolare
calcio, ma di un elitario cricket che attrae solo uno sparuto drappello di fan.
E tutto
questo non è certo da attribuire ai rosiconi, ai gufi, ai ferrivecchi, ai
ruderi o ai nostalgici conservatori, quanto piuttosto a chi con le teorie su un
improbabile modernismo al soldo dei poteri forti ha attentato ai pochi diritti del
lavoro, ha bluffato sulla speranza di ridare lavoro, ha calpestato la dignità
di milioni di giovani disoccupati e precari, ha umiliato milioni di pensionati
con assegni da fame, ha gettato con cinica indifferenza nel ghetto della
miseria migliaia di famiglie strangolate dall’assenza di reddito e da una
politica fiscale semplicemente immorale. Se poi questi protervi predicatori del
modernismo hanno creduto di poter abbindolare la gente con una mancia
elettorale da ottanta euro, con vuoti proclami d’assunzione di massa nella
scuola (peraltro imposti dalla UE, ndr),
con ridicoli e nostalgici assegni bebè, con tronfie dichiarazioni impacchettate
con esotici titoli linguistici ed altro improbabile ciarpame, evidentemente
alla luce dei risultati debbono ricredersi sul buon esito delle loro litanie:
il Paese non esce dalla crisi con finte riforme costituzionali o con papocchi
come l’abolizione delle provincie; né ci si può illudere che basti una Leopolda
e la cancellazione del «totem ideologico» articolo 18 – così definito da Renzi
– per accreditarsi presso i lavoratori, i disoccupati ed i precari come il
nuovo messia in grado di rompere le catene dello sfruttamento atavico cui sono
condannati i milioni di senza reddito d’Italia. Se alle parole non seguono i
fatti, quelli capaci d’incidere veramente in una realtà disperata, allora si
rassegni Renzi: la sua è stata solo propaganda squallida, acido solforico
versato sulle ferite vive di milioni di speranzosi.
Non diverso
il giudizio che si può trarre sulla disfatta di Grillo e del suo M5S, un
movimento dichiaratamente condannato all’immobilismo, fino ad oggi incapace di
portare a casa uno straccio di successo targato cinque stelle, sebbene forte di
un 25% alle politiche. E se si pensa che questa Caporetto il movimento l’ha
vissuta proprio in quell’Emilia nella quale aveva levato i primi vagiti, non
v’è dubbio che il tonfo risulta ancora più fragoroso.
C’è chi
sostiene che il calo del M5S fosse del tutto prevedibile. Quello è stato un
movimento sorto sulle ali di una diffusa protesta popolare migrata dall’ex PdL
e dalla Lega di Umberto Bossi. Il reflusso migratorio della protesta dal
movimento del deludente Grillo sarebbe la chiave per interpretare il rilevante
successo della Lega di un Matteo Salvini, che, aspirapolvere alla mano e in una
sola giornata di votazioni, è riuscito a raddoppiare i propri consensi, aspirando
le polveri di ciò che ormai resta della sfasciata FI.
Ma se il
discorso Grillo e Salvini, - questo sì, - riveste importanza secondaria, dato
che né l’uno né l’altro riusciranno probabilmente mai ad assurgere a forza leader
di governo, diverse sono le considerazioni che investono il sempre più
traballante Silvio Berlusconi e la sua creatura FI. L’ex cavaliere aveva
sperato con l’improvvido aiuto di Matteo Renzi e la firma del patto del
Nazareno di uscire dal ghetto politico in cui era stato confinato dopo le
sentenze di condanna subite. Per far questo gli occorreva tempo, che ha cercato
di guadagnare imponendo ai suoi un comportamento non belligerante nei confronti
del premier e della coalizione di governo, illudendosi che il tempo che lo
separava dal ricorso a nuove elezioni, ricorso allontanato dal mancato varo di
una nuova legge elettorale, gli avrebbe consentito presto o tardi di
sgambettare l’arrivista Renzi e di ricostruirsi una sorta di rinnovata
presentabilità. Questa strategia gli ha impedito di interpretare correttamente
la realtà, le reazioni del suo elettorato ed il significato delle lotte
intestine che si consumavano tra i suoi colonnelli Verdini, Brunetta e Fitto,
con il risultato che i suoi elettori, sempre più delusi, si sono posti alla
testa di un astensionismo senza precedenti o, nella migliore delle ipotesi, sono
andati alle urne solo per rimpinguare la borsa di una Lega sempre più presente
in campo e capace di porsi come unica forza d’interdizione di destra del PD e dell’egemonia
delle sinistre.
Il quadro
che si delinea al termine della giornata elettorale è, dunque, assai
sconfortante. A ben guardare nessuno ha vinto – l’Emilia Romagna è da sempre la
fucina di un civismo esemplare e terra in cui la sinistra ha radici
profondissime, pertanto il crollo dell’affluenza al voto non può liquidarsi
come semplice atto di disaffezione politica momentanea. In questa prospettiva quella
del PD di Renzi più che un’affermazione netta si rappresenta come una vittoria
di Pirro, una vittoria che, se non sarà seguita una vistosa correzione di rotta,
potrebbe assumere il tragico significato dell’inizio della fine.
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