mercoledì, novembre 19, 2014

Il signore della demagogia



Cadute le ultime resistenze sull’articolo 18 – Reinserito il licenziamento disciplinare nella fattispecie di tutela, anche se saranno i decreti delegati a circoscrivere i ricorsi al giudice – Ormai è chiaro: Renzi con la demagogia sul modernismo vuole precarizzare il lavoro


Mercoledì, 19 novembre 2014
Il giorno dopo al reinserimento dei licenziamenti disciplinari nel corpo dell’articolo18, in molti s’erano illusi che Matteo Renzi avesse lanciato un chiaro segnale di riavvicinamento alla cosiddetta sinistra del suo partito. Era sembrata quell’apertura l’elemento di sutura di una ferita che giorno dopo giorno divaricava i lembi e iniziava a mostrare evidenti segni d’infezione; una ferita che, se mai il tempo fosse stato in grado di rimarginare, avrebbe lasciato una cicatrice profonda, che nessun intervento estetico sarebbe stato in grado di cancellare.
Ma l’apparente arrendevolezza di Renzi, - scambiata per rinsavimento da qualche ingenuo buonista, - è durata l’espace d’un matin, poiché a margine dell’annuncio è arrivata la precisazione che il governo in sede di emanazione dei decreti attuativi del Jobs Act delimiterà una rigida casistica in cui troverà applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento disciplinare. Come dire, nulla è cambiato rispetto all’orientamento iniziale del governo sul superamento dell’articolo 18. S’è solo inteso dare un formale contentino alla contestazione interna nel PD, senza che nella sostanza si possa parlare di novità o d’inversione di rotta. Nel merito, il governo intenderebbe specificare che nel caso dei licenziamenti disciplinari il reintegro sarebbe possibile solo quando la motivazione addotta dall'azienda venisse dichiarata falsa o inesistente dal giudice. Per gli altri casi ci sarebbe l'indennizzo crescente con l'anzianità, come per i licenziamenti economici.
A prescindere dalle technicalities – per usare un termine sicuramente apprezzato dal nostro premier – che verranno utilizzate per assestare il colpo di grazia all’ultimo baluardo delle tutele del lavoro e che sono demandate ad appositi decreti delegati, ciò che della vicenda merita commento è la pervicace volontà con la quale s’è inteso arrampicarsi sugli specchi pur di raggiungere il proposito di trasformare il mercato del lavoro in quel far west sognato da decenni dai rappresentati e dai sostenitori della deregulation senza frontiere. La stessa tigna con la quale s’è cercato di cancellare l’esistenza dell’articolo 18, definito dai suoi detrattori persino un totem ideologico per svilirne il ruolo di argine al becero potere padronale, dimostra inconfutabilmente che la sua soppressione non era poi fatto di marginale interesse. Se così fosse stato, - specialmente in epoca in cui le priorità sembrano essere ben altre, -  non ci sarebbero stati gli scontri accesi tra coloro che intendevano conservarne l’esistenza e le schiere degli autoproclamatisi progressisti che miravano alla sua definitiva cancellazione, al punto da creare le condizioni per un’eventuale scissione nell’ambito del PD.
La verità inconfessabile e che nulla ha a che vedere con le suggestive fandonie spacciate da Renzi ed i suoi boys per reali, quali “l’articolo 18 è un freno agli investimenti nel Paese”, “l’articolo 18 è un elemento d’ingessatura del mercato del lavoro”, “la crisi dell’occupazione si sconfigge con la cancellazione dei privilegi” e così via, è le finalità cui mira il governo sono lo smantellamento delle garanzie dei lavoratori e la precarizzazione del sistema dell’impiego, proprio per offrire la massima flessibilità alle imprese in materia di costo del lavoro. Già un primo traguardo era stato conseguito con lo sciagurato decreto legislativo 276 del 2003, meglio noto come legge Biagi, corroborato dalla legge Fornero del 2012 e dal decreto Poletti del 2014: mancava un ultimo tassello, contro il quale aveva dovuto desistere persino il governo Berlusconi, rappresentato dall’articolo 18, che Renzi è riuscito ad incastonare magistralmente nel progetto di deregolamentazione globale.
Invano da più parti è stato sottolineato che non sarà certo l’abrogazione delle tutele del lavoro che consentirà una ripresa dell’occupazione, poiché senza una ripartenza dell’economia e, dunque, della produzione industriale stimolata dai consumi, non c’è alcuna speranza di creare nuove opportunità occupazionali. Alle lobby industriali e finanziarie che stanno dietro l’attuale maggioranza di governo interessava portare a casa un prezioso risultato, a futura memoria, da spendere allor quando le condizioni muteranno e la crisi inizierà a diradarsi.
D’altra parte strategicamente non v’era momento migliore per sferrare l’attacco finale ai diritti dei lavoratori che quello attuale: disoccupazione elevatissima, precariato diffuso, divisioni profonde tra le sigle sindacali, povertà in rapido aumento, crisi dello stato sociale, caduta verticale della credibilità della politica, oppressione al limite del carico fiscale e contributivo, in altri termini, un corpo sociale del Paese ormai allo stremo per infliggere un colpo micidiale senza timore d’incorrere in destabilizzanti reazioni. Per certi versi, poi, c’è da registrare che la sinistra italiana nel tempo ha dimostrato come preferisca delegare l’esecuzione del lavoro sporco ad altri, magari fingendo proteste e rimbrotti quando si sono consumati abusi sociali esemplari, e assumere quegli abusi per irreparabili quando successivamente s’è trovata al governo. Dimostrazione di questo ambiguo comportamento opportunistico è l’atteggiamento tenuto dal PD ai tempi della vergognosa riforma delle pensioni di Maroni e del bordone retto a Monti ai tempi della criminale riforma Fornero dello stesso istituto. E se questo non bastasse, sarebbe sufficiente chiedere a Renzi come mai quello “stai sereno” venne nei fatti smentito appena qualche ora dopo l’annuncio dato da Enrico Letta che intendeva procedere all’emanazione di un provvedimento sul conflitto d’interessi, provvedimento ormai archiviato nel dimenticatoio. Certo, sarebbe stato imbarazzante sottoscrivere accordi come quelli del Nazareno con il destinatario principale di norme di quella natura.
In altri termini, con Matteo Renzi si assiste al trionfo della demagogia funzionale al recupero di quel terreno d’abuso e sopraffazione che il padronato aveva dovuto suo malgrado cedere sotto il peso delle lotte operaie, per la conquista di un rapporto di lavoro umanizzante, dignitoso e tutelato dallo strapotere capriccioso della proprietà dei mezzi di produzione.
E’ proprio sulla scorta di questi aspetti caratterizzanti la sua azione che Renzi si palesa sempre più in un personaggio che nulla ha in comune con l’essenza della sinistra e le sue tradizioni. Ma la triste constatazione non può limitarsi a Matteo Renzi  ed al carico umano che è riuscito ad imbarcare sul rimorchio del suo autocarro, carico politicamente modesto e che rinnega il proprio passato ma allo stesso tempo fortemente animato d’arrivismo d’antica fattura, quanto ai referenti storici del maggior partito della sinistra, cresciuti con il credo di una politica ispirata all’equità, alla giustizia, alla difesa delle classi sociali deboli, alla scuola di un socialismo fatto di parità di opportunità e di lotta per la rimozione delle barriere sempre più elevate tra categorie di reddito. E c’è da credere che i padri di quelle aspirazioni, qualcuno morto per la difesa di quei valori, guardando oggi a ciò cui s’è ridotto il più grande partito dei lavoratori dell’occidente, si rivoltino nella tomba, incapaci di capire e di credere ai propri occhi.



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