sabato, novembre 07, 2015

Risanare i conti con il ruba mazzetto



Nuove nubi temporalesche nel futuro dei pensionati – Tito Boeri, presidente INPS, novello Robin Hood lancia l’ipotesi di ricalcolare le pensioni retributive con il contributivo – La differenza da devolvere agli ultracinquantenni senza lavoro – Il governo boccia la proposta



Sabato, 7 novembre 2015
C’è chi parla di persecuzione e chi addirittura, come Franco Abruzzo, già presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardi e attuale presidente dell’UNPIT, di stalking. In realtà la lettura di certi comportamenti è più semplicemente un’altra delle strategie del rinvigorito capitalismo planetario messe in campo per attaccare con inaudita ferocia le solite categorie sociali più deboli, alle quali sistematicamente si addossano le ragioni delle crisi economiche, in modo da individuare un capro espiatorio e tacitare il malcontento diffuso.
Ci riferiamo alla annosa e ormai stantia polemica sulle pensioni, oggetto di attacchi giunti sull’orlo del fanatismo mediatico, che sistematicamente torna alla ribalta ogni qual volta si parla di conti pubblici, di politiche occupazionali, di dramma della disoccupazione giovanile, di futuro e sostenibilità del sistema previdenziale. Ogni qual volta uno di questi temi diviene oggetto di discussione nei salotti televisivi e nella valutazione della politica, quest’ultima palesemente incapace di trovare soluzioni impopolari per il gotha della speculazione economica e finanziaria, ecco che si scatena la caccia al colpevole, con la consapevolezza che quel colpevole è nel sistema pensionistico eccessivamente sprecone. Eppure per i guru della politica e dell’economia è ben noto che le questioni potrebbero risolversi se solo fossero attuate misure di calmierazione della voracità di un capitalismo insaziabile, sempre più proteso a spremere la povertà e, attraverso il ricatto di quello spettro, ridurre in crescente schiavitù fette oceaniche d’umanità.
Non a caso, se si parla d’occupazione, il problema scivola sulla questione salari e produttività, sul costo del lavoro e sull’indecenza delle pretese delle organizzazioni rappresentative del lavoro. E’ irrilevante, per esempio, che ci siano organizzazioni economiche disposte persino ad uccidere, pronte allo sterminio di massa, pur di aumentare i profitti del capitalismo finanziario che le governa. Il caso Volkswagen, - comunque si voglia leggere la gravissima vicenda che sta coinvolgendo la casa automobilistica a livello planetario, - è un esempio lampante di un modo disumano per arricchire pochi privilegiati, che non hanno esitato a ricorrere a trucchi assassini pur di veder gonfiare i propri profitti.
E a pagare in questo caso non sarà certo un management eticamente corrotto, magari da liquidare in fretta e furia con benserviti faraonici per salvare la faccia a chi nell’ombra tira le fila di certe diaboliche invenzioni. A pagare se le cose dovessero precipitare e mettere in ginocchio un’organizzazione con migliaia di dipendenti saranno i lavoratori, rimettendoci il posto di lavoro e, dunque, il mezzo privilegiato per il sostentamento di se stessi, delle loro famiglie e, di fondo, il requisito basilare della loro dignità di uomini.
L’Italia, ovviamente nel processo di globalizzazione mondiale dell’economia, non è diversa. Anzi è un paese in cui le contraddizioni sociali e le fratture profonde tra ricchezza e povertà si ampliano ogni giorno e mettono a nudo verminai di malaffare e corruzione politica, mentre si consumano tragedie umane senza fine, nell’indifferenza di chi finge con il classico cerchiobottismo ad illudere che il potere è sensibile, ma nei fatti vara misure atte a garantire un qualche ulteriore vantaggio al proprio azionariato a danno del resto dei cittadini. Per far ciò per queste operazioni di sensibilità non esita possibilmente a ricorre a roboanti nomi di tecnocrati, apparentemente indipendenti dai condizionamenti dei santuari occulti del potere, ma in realtà quinte colonne di quelle organizzazioni affaristico-speculative propense a qualsiasi misfatto pur di salvaguardare i propri interessi.
Un caso di scuola è quello rappresentato da Tito Boeri, presidente plenipotenziario dell’INPS nonché membro del corpo docente della più rinomata scuola universitaria del Paese, quella scuola universitaria dichiaratamente finanziata dalla crema del capitalismo più significativo e spregiudicato di casa nostra. E per quanti potessero nutrire dubbi su questa considerazione va ricordato che “il salvatore della patria” Mario Monti, il dante causa di Elsa Fornero, dell’intrepido ex-banchiere e ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera e dell’altro pluridecorato esponente del capitalismo nostrano Francesco Profumo, è stato magnifico rettore della benemerita Bocconi di Milano, e sul suo operato di governo non occorrono certo commenti.
Ebbene, l’esimio professore Tito Boeri, emulo di Colombo nel consentire all’uovo di assumere posizione verticale, alcune ore fa ha presentato la sua miracolosa ricetta per risolvere la questione dell’equilibrio delle pensioni italiote e dare soluzione alla drammatica condizione di chi, ultracinquantenne, non può andare in pensione perché troppo giovane e non riesce a trovare un lavoro che gli dia un reddito per campare perché troppo vecchio. L’esimio professore , - udite!, udite!, - s’è inventato una ricetta che prevede il ricalcolo con il metodo contributivo delle pensioni già in essere con il sistema retributivo, così da defalcarne la differenza e devolverla sotto forma di sussidio di sopravvivenza ai predetti ultracinquantenni.
Come ha scritto Franco Abruzzo in proposito, «Tito Boeri  è un  nemico dichiarato dei pensionati con un assegno mensile dai 2mila euro in su. Basta leggere l’articolo “Pensioni: l’equità possibile” scritto con Fabrizio e Stefano  Patriarca e pubblicato il 14.1.2014. I tre propongono di chiedere un “contributo di equità” ai pensionati, basato sulla differenza tra pensioni percepite e contributi versati. Ricostruendo le storie dei contribuenti attraverso il cosiddetto “forfettone” (un metodo indicato in un decreto del 1997) calcolano lo scostamento tra pensione effettiva e contributivo. Da tale scostamento propongono di ricavare il contributo sulla base di un’aliquota progressiva pari al 20, 30 e 50% rispettivamente per pensioni tra 2 e 3 mila euro, 3 e 5 mila euro e superiori a 5 mila euro. Secondo le loro stime si ricaverebbe un risparmio di spesa pari a circa 4,2 miliardi di euro». Ovviamente, una bomba ad alta deflagrazione in un area sociale che, proprio perché ormai fuori dal mercato del lavoro, non ha più alcuna speranza di vedere il proprio reddito incrementarsi per effetto di una contrattazione, di un avanzamento di carriera, di u merito professionale. Inoltre, non va affatto dimenticato, che la platea in questione, che nulla ha impropriamente percepito se non in forza dei contributi versati e le regole vigenti al tempo in cui esercitavano un’attività lavorativa, è già stata vilmente penalizzata dalle decisioni di Matteo Renzi di svillaneggiare la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco della perequazione annuale sulle pensioni in questione. Inoltre, continua Abruzzo, «Nelle stesse ore  esplode la notizia che in Sicilia sono 285mila i lavoratori in nero con una evasione da 4 miliardi (esattamente la cifra che il presidente dell’Inps pensa di recuperare con la sua operazione sugli assegni dei presunti “ricchi”). Boeri dovrebbe recuperare questi 4 miliardi, smettendola di criminalizzare i cittadini, che  hanno  costruito la loro pensione con il lavoro, versando contributi d’oro».
Fin qui l’ennesimo scampolo di polemica su una proposta indecente che il governo sembra aver deciso di cestinare, ma che nonostante tutto rappresenta il sintomo della dissimulata miopia con cui si affrontano i gravi problemi che travagliano il paese: anziché sferrare una lotta durissima contro l’evasione e l’elusione, possibilmente schiaffando in galera gli evasori come si fa in altri paesi civili, da noi risulte più facile pretendere il pizzo da chi la pensione se l’è guadagnata pagando profumatamente, non fosse perché i nominativi dei polli da spennare sono certi e l’incasso è facile e garantito. Che questo poi sia del tutto illegittimo, poco importa: ci sarà sempre un opinione pubblica fatta di meschini e invidiosi che condividerà la manovra e griderà ad un’opera di giustizia sociale.
Eppure per risolvere radicalmente le questioni spinose basterebbe mettere mano a provvedimenti, magari impopolari per il solito gotha, ma di sicura efficacia per la comunità: abolizione delle smisurate flessibilità d’ingresso nel mercato del lavoro, sussidi certi a sostegno dell’occupazione, reintroduzione della quiescenza per anzianità per favorire il ricambio occupazionale, piano pluriennale d’investimenti pubblici per il recupero del territorio, correttivi fiscali sui redditi per il rilancio dei consumi compensati da analoghi interventi di recupero a carico delle rendite finanziarie e dei patrimoni; in pratica una serie di misure che favorirebbero l’occupazione diretta ed indotta e provvedimenti a ripristino dell’equità sociale, senza scadere in operazioni di volgare rapina.
Già, ma probabilmente quando si parla di queste cose occorrerebbe interloquire con una politica di vera sinistra e non con chi ha trasformato quella sinistra in un lacchè pedissequo dei poteri forti che tramano nell’ombra.

 

mercoledì, novembre 04, 2015

Alla fine Marino capitolò per mano amica



Cade la giunta Marino e a Roma si apre una lunga campagna elettorale – L’operazione ha il sapore della congiura – Il PD per costringere Marino a cedere stipula un patto infame con i consiglieri della destra – Come consuetudine, quando le cose divengono imbarazzanti, Matteo Renzi latita 



Mercoledì, 4 novembre 2015
Finalmente la soap opera della sindacatura di Ignazio Marino si è conclusa. Il sindaco di Roma, eletto al ballottaggio con il 64% dei voti dei romani, è stato rottamato, cacciato via dal puparo Renzi e per mano del suo sicario Matteo Orfini, presidente del PD, quel partito sedicente democratico che di democratico al passar delle ore dimostra d’avere sempre meno e dal quale, stravolto da incontenibili conati di vomito, è scappato anche Corradino Mineo.
La vicenda Marino è a metà strada tra il comico ed il tragico, poiché non mancano passaggi a dir poco esilaranti e, nello stesso tempo, gli allarmanti segnali  di una concezione politica di gestione della cosa pubblica che non è più tollerabile.
Che Ignazio Marino durante la sua sindacatura abbia dimostrato in parecchie occasioni d’essere del tutto inadeguato è nei fatti: troppi gli errori commessi per supponenza e superbia, sebbene non si possa negare che nella parabola ascendente e precipitosamente discendente che ha contraddistinto la sua permanenza in Campidoglio abbia giocato un ruolo determinante lo scontro feroce che ha condotto contro i santuari del potere criminale, - non a caso si parla di mafia capitale, - santuari anche interni all’amministrazione comunale, in intimo rapporto d’affari illeciti con esponenti della malavita organizzata capitolina. A questa guerra di legalità va sommato poi lo scontro con le gerarchie vaticane, sentitesi fortemente minacciate da un personaggio che, nel tentativo di passare per il primo della classe, non ha esitato ad istituire persino un registro delle unioni omosessuali e celebrare nozze tra lesbiche e gay. Se si considera poi che la sua esperienza di governo della città è stata condita ad arte da disservizi nel sistema dei trasporti, della viabilità e da episodi dubbia correttezza personale, come la vicenda della sua Panda o i giustificativi di spesa accollati alle casse comunali probabilmente in modo indebito e le assenza dalla città in alcuni momenti topici, assolvere l’esperienza Marino diviene decisamente difficile.
Tuttavia e a prescindere dagli autogol commessi dal personaggio, è la modalità politica con la quale si è deciso nella stanze del partito di governo di far fuori Marino che lascia perplessi e stimola parecchie critiche.
In primo luogo c’è da interrogarsi sulla correttezza di un partito, - quel PD che in cui Marino ha vinto le primarie e che lo ha  candidato, - che in spregio della volontà popolare ha deciso che il sindaco della città aveva fatto il suo tempo e, pertanto, avrebbe dovuto andarsene senza una sfiducia espressa dagli stessi elettori.
In secondo luogo sul gravissimo significato politico che ha assunto la decisione di costringere la decadenza della giunta Marino attraverso le dimissioni dei consiglieri in quota PD ai quali, in assenza di un numero sufficiente, si sono sommate le defezioni dei consiglieri delle opposizioni.
Le due questioni non sono affatto di scarsa rilevanza, poiché rappresentano il perdurare di metodi squadristi che nulla hanno a che vedere con l’essenza della democrazia, che esigerebbe in caso di prematura decadenza di una giunta che ne fossero chiarite le ragioni in consiglio comunale, al cospetto dei rappresentanti degli elettori. Quando invece la prematura decadenza di un’amministrazione è decisa nella cosiddetta stanza dei bottoni, ogni riferimento a metodi democratici è del tutto fuori luogo. Anzi quella decadenza assume il significato di un siluramento, di un accoltellamento alla schiena per ragioni bieche e inconfessabili. Infine, ricorrere al sodalizio con gli avversari per ottenere quel risultato puzza di atto malavitoso, di bassezza morale oltre ogni limite, poiché nel bene o nel male non è concepibile che si costituisca una sorta di alleanza con l’avversario pur di raggiungere uno scopo. Tale procedura, sintomo di un odio che travalica il semplice dissenso avrebbe a ragione imposto un pubblico dibattito con tanto di mozione di sfiducia ed una votazione finale.
Con il passare del tempo e con l’incalzare degli eventi ci si sta rendendo conto che con Matteo Renzi e la sua leadership stiamo assistendo all’esercizio di metodi del tutto sconosciuti dalla caduta del regime fascista. Mettere alla porta non solo gli avversari ma anche coloro che non gravitano nell’orbita del leader ha superato ogni grado di tolleranza. Con questi metodi si governano le cosche, le organizzazioni nelle quali è il boss a dettare legge ed i suoi gregari sono di fatto obbligati ad eseguire gli ordini senza batter ciglio, mentre la democrazia è fatta di confronti e di dissensi, di diversità e d’intese, di scontri anche aspri e di soluzioni mediate.
La mancanza di questi presupposti, se da un lato avvalora il sospetto che con Renzi il Paese abbia iniziato una pericolosa deriva autoritaria mascherata da efficientismo, dall’altro non assolve Marino, sebbene ne trasformi in parte la figura da colpevole incapace in vittima di un potere arrogante e spregiudicato. Lui stesso, nel commentare la sua uscita di scena senza gli fosse concesso l’onore delle armi, non ha esitato a parlare di pugnalate e di congiura di palazzo. E l’affermazione travalica il sospetto, considerato che Matteo Renzi, nella sua veste di segretario del partito cui aderisce Marino, sino all’ultimo s’è rifiutato di riceverlo, esentandosi così dal fornire i chiarimenti certamente dovuti in particolari situazioni.
Quantunque si debba prendere atto che il successo di Matteo Renzi è più frutto dell’assenza di un leader antagonista sia nella sinistra che nella destra politica nazionale che risultato del suo talento, c’è da sperare che i cittadini aprano gli occhi e gli diano il benservito alla prima occasione, perché il Paese aveva ed ha sicuramente bisogno di leader di polso e di spessore, ma non di bulli sbruffoncelli, all’occasione persino codardi, incapaci di buon senso, equità e senso del rispetto per avversari e dissidenti: i mali di una democrazia malata si possono curare esclusivamente con maggiore democrazia.