Alla fine Marino capitolò per mano amica
Cade la giunta Marino e a Roma si apre una lunga campagna
elettorale – L’operazione ha il sapore della congiura – Il PD per costringere Marino
a cedere stipula un patto infame con i consiglieri della destra – Come consuetudine,
quando le cose divengono imbarazzanti, Matteo Renzi latita
Mercoledì, 4 novembre
2015
Finalmente la soap opera della sindacatura di Ignazio Marino
si è conclusa. Il sindaco di Roma, eletto al ballottaggio con il 64% dei voti
dei romani, è stato rottamato, cacciato via dal puparo Renzi e per mano del suo
sicario Matteo Orfini, presidente del PD, quel partito sedicente democratico
che di democratico al passar delle ore dimostra d’avere sempre meno e dal
quale, stravolto da incontenibili conati di vomito, è scappato anche Corradino
Mineo.
La vicenda Marino è a metà strada tra il comico ed il
tragico, poiché non mancano passaggi a dir poco esilaranti e, nello stesso
tempo, gli allarmanti segnali di una
concezione politica di gestione della cosa pubblica che non è più tollerabile.
Che Ignazio Marino durante la sua sindacatura abbia
dimostrato in parecchie occasioni d’essere del tutto inadeguato è nei fatti:
troppi gli errori commessi per supponenza e superbia, sebbene non si possa
negare che nella parabola ascendente e precipitosamente discendente che ha
contraddistinto la sua permanenza in Campidoglio abbia giocato un ruolo
determinante lo scontro feroce che ha condotto contro i santuari del potere
criminale, - non a caso si parla di mafia capitale, - santuari anche interni
all’amministrazione comunale, in intimo rapporto d’affari illeciti con
esponenti della malavita organizzata capitolina. A questa guerra di legalità va
sommato poi lo scontro con le gerarchie vaticane, sentitesi fortemente
minacciate da un personaggio che, nel tentativo di passare per il primo della
classe, non ha esitato ad istituire persino un registro delle unioni
omosessuali e celebrare nozze tra lesbiche e gay. Se si considera poi che la
sua esperienza di governo della città è stata condita ad arte da disservizi nel
sistema dei trasporti, della viabilità e da episodi dubbia correttezza
personale, come la vicenda della sua Panda o i giustificativi di spesa
accollati alle casse comunali probabilmente in modo indebito e le assenza dalla
città in alcuni momenti topici, assolvere l’esperienza Marino diviene
decisamente difficile.
Tuttavia e a prescindere dagli autogol commessi dal
personaggio, è la modalità politica con la quale si è deciso nella stanze del
partito di governo di far fuori Marino che lascia perplessi e stimola parecchie
critiche.
In primo luogo c’è da interrogarsi sulla correttezza di un
partito, - quel PD che in cui Marino ha vinto le primarie e che lo ha candidato, - che in spregio della volontà
popolare ha deciso che il sindaco della città aveva fatto il suo tempo e,
pertanto, avrebbe dovuto andarsene senza una sfiducia espressa dagli stessi
elettori.
In secondo luogo sul gravissimo significato politico che ha
assunto la decisione di costringere la decadenza della giunta Marino attraverso
le dimissioni dei consiglieri in quota PD ai quali, in assenza di un numero
sufficiente, si sono sommate le defezioni dei consiglieri delle opposizioni.
Le due questioni non sono affatto di scarsa rilevanza,
poiché rappresentano il perdurare di metodi squadristi che nulla hanno a che
vedere con l’essenza della democrazia, che esigerebbe in caso di prematura
decadenza di una giunta che ne fossero chiarite le ragioni in consiglio
comunale, al cospetto dei rappresentanti degli elettori. Quando invece la
prematura decadenza di un’amministrazione è decisa nella cosiddetta stanza dei
bottoni, ogni riferimento a metodi democratici è del tutto fuori luogo. Anzi
quella decadenza assume il significato di un siluramento, di un accoltellamento
alla schiena per ragioni bieche e inconfessabili. Infine, ricorrere al
sodalizio con gli avversari per ottenere quel risultato puzza di atto
malavitoso, di bassezza morale oltre ogni limite, poiché nel bene o nel male
non è concepibile che si costituisca una sorta di alleanza con l’avversario pur
di raggiungere uno scopo. Tale procedura, sintomo di un odio che travalica il
semplice dissenso avrebbe a ragione imposto un pubblico dibattito con tanto di
mozione di sfiducia ed una votazione finale.
Con il passare del tempo e con l’incalzare degli eventi ci
si sta rendendo conto che con Matteo Renzi e la sua leadership stiamo
assistendo all’esercizio di metodi del tutto sconosciuti dalla caduta del
regime fascista. Mettere alla porta non solo gli avversari ma anche coloro che non
gravitano nell’orbita del leader ha superato ogni grado di tolleranza. Con
questi metodi si governano le cosche, le organizzazioni nelle quali è il boss a
dettare legge ed i suoi gregari sono di fatto obbligati ad eseguire gli ordini
senza batter ciglio, mentre la democrazia è fatta di confronti e di dissensi,
di diversità e d’intese, di scontri anche aspri e di soluzioni mediate.
La mancanza di questi presupposti, se da un lato avvalora il
sospetto che con Renzi il Paese abbia iniziato una pericolosa deriva
autoritaria mascherata da efficientismo, dall’altro non assolve Marino, sebbene
ne trasformi in parte la figura da colpevole incapace in vittima di un potere
arrogante e spregiudicato. Lui stesso, nel commentare la sua uscita di scena
senza gli fosse concesso l’onore delle armi, non ha esitato a parlare di
pugnalate e di congiura di palazzo. E l’affermazione travalica il sospetto,
considerato che Matteo Renzi, nella sua veste di segretario del partito cui
aderisce Marino, sino all’ultimo s’è rifiutato di riceverlo, esentandosi così
dal fornire i chiarimenti certamente dovuti in particolari situazioni.
Quantunque si debba prendere atto che il successo di Matteo
Renzi è più frutto dell’assenza di un leader antagonista sia nella sinistra che
nella destra politica nazionale che risultato del suo talento, c’è da sperare
che i cittadini aprano gli occhi e gli diano il benservito alla prima
occasione, perché il Paese aveva ed ha sicuramente bisogno di leader di polso e
di spessore, ma non di bulli sbruffoncelli, all’occasione persino codardi,
incapaci di buon senso, equità e senso del rispetto per avversari e dissidenti:
i mali di una democrazia malata si possono curare esclusivamente con maggiore
democrazia.
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