domenica, agosto 13, 2017

Popolo bruto e governanti gaglioffi



Il consiglio comunale di Licata fa fuori il sindaco che demolisce le abitazioni abusive – La politica, in vista delle elezioni regionali, prende le distanze e l’abbandona al suo destino – Anche i 5 Stelle, omologati ai metodi di acquisizione del consenso, si associano alle proteste dei proprietari di case abusive – Il popolo plaude ai neo-paladini che difendono gli illeciti commessi nel tempo – Immagine di una Sicilia ai margini della legalità e senza speranza
L'ex sindaco Angelo Cambiano in riunione di Consiglio Comunale

Domenica, 13 agosto 2017
Chi non avesse visto il film L’ora legale con Ficarra e Picone ha da qualche giorno l’opzione di regalarsi una gita a Licata, in provincia di Agrigento, dove è possibile assistere dal vivo alla storia raccontata dal noto duo comico. Tuttavia nell'edizione licatese l'aspetto comico è stato sostituito da quello noir, in seguito alle vicende che hanno travolto il giovane sindaco cittadino Angelo Cambiano, maniaco dell’ordine e della legalità e per questo cacciato dal suo consiglio comunale e dato in pasto alla gogna mediatica.
Licata, cittadina dell’agrigentino con poco meno di quarantamila abitanti, potrebbe definirsi borgo senza pace, perseguitata com’è stata da problemi gravissimi di insufficienza di risorse idriche, - peraltro ancora oggi non del tutto risolte, - dalla debolezza dell’economia locale, dal degrado della rete infrastrutturale e da un abusivismo edilizio diffuso. Si dirà che questo quadro di sostanziale abbandono in cui si trascina la città non è diverso da quanto accade a migliaia di comuni del Mezzogiorno e particolarmente in Sicilia, dove la cattiva amministrazione e la connivenza tra politica e malaffare hanno creato le condizioni per un progressivo degrado generale in cui alla fine prosperano dispensatori di favori attorniati da vaste clientele e la malavita affarista e arraffona. Il tutto nel totale disinteresse delle istituzioni, che per giustificare  la loro distrazione dovrebbero presupporsi prese ad ben più rilevanti questioni di amministrazione della vita pubblica e quindi impossibilitate a dedicare tempo e attenzioni alle tante emergenze sul territorio.
In realtà così non è, poiché quelle istituzioni non solo fanno poco o nulla lì dove hanno la loro sede, ma o fingono di sconoscere i problemi e simulano grottesco stupore ogni qual volta quei problemi divengono emergenze in odore d’illecito ed oggetto di attenzione di qualche operatore dell’informazione che incautamente vi dà risalto, o di fatto delegano alla magistratura, già oberata di lavoro, di trovarvi la soluzione. In verità questo è solo un modo per non esporsi e assumere responsabilità dirette. In questi contesti il fingere d’ignorare insieme con una buona dose d’omertà sono tecniche più che collaudate per tirare a campare, e l’oblio è una sorta di medicina portentosa ottima per risolvere ogni problema. Ma ogni tanto un imponderabile imprevisto scombina le cose e allora il fango affiora e porvi riparo non è cosa agevole.
E’ così che Licata è tornata alla ribalta delle cronache nazionali, grazie alle vergognose vicende che hanno coinvolto il suo sindaco, Angelo Cambiano, defenestrato dal suo consiglio comunale per aver osato adempiere ad una disposizione della magistratura in materia di abusivismo edilizio selvaggio e diffuso che da sempre affligge il territorio licatese. Per quanto il fatto sia di inaudita gravità viste le ragioni del defenestramento, nulla sarebbe accaduto se non fossero state imminenti le elezioni regionali, poiché di vicende di scontri politici tra difensori di interessi illeciti e sedicenti legalisti la storia della Sicilia è zeppa. Dunque, quella della guerra a Cambiano sarebbe passata per un’ordinaria questione insorta nella vasta e insignificante provincia ai confini del Paese. In questo caso l’atteggiamento delle fazioni politiche, particolarmente di parecchie di quelle che predicano il cambiamento e il ritorno al rispetto delle regole della civile convivenza ha fatto sì che il caso abbia coinvolto la politica nazionale, costringendo qualcuno a gettare la maschera e qualcun altro nell’imbarazzante situazione di dover spiegare le ragioni per le quali si sia dato appoggio alle rappresentanze politiche locali che hanno promosso l’azione di sfiducia contro Cambiano.
Ma le vicende di Licata e del suo sindaco, - che tra l’altro è stato oggetto di minacce, di attentati e costretto a vivere sotto scorta, - non sono quelle di cui intendiamo occuparci, in quanto già note in ragione del risalto riservato loro dalla stampa e perché non sono che l’ennesimo episodio di una realtà in cui la cultura dell’ordine, della legalità, dell’efficienza e della buona amministrazione è materia di spocchiose affermazioni per tanti ipocriti o di afflitta speranza per pochi onesti, restando una mera opinione per la maggioranza, così abituata a trovare le vie traverse per tutelare i propri leciti e illeciti interessi.
A nostro avviso la questione merita attenzione per come s’è sviluppata e per le ricadute che prelude sulle prossime elezioni regionali, nelle quali e per le quali conteranno molto più le promesse e le lusinghe dei soliti squali che non l’integrità morale effettiva e la serietà dei concorrenti. Basti sapere che il buon Cambiano non ha avuto né l’appoggio del verboso Crocetta, presidente in carica della Regione che ha brillato per inconcludenza e che protervamente si ripropone per un nuovo mandato, né di quell’Angelino Alfano, agrigentino, attuale ministro degli Esteri e già in carica agli Interni, che non ha battuto ciglio quando i rappresentanti del suo partito in consiglio a Licata hanno votato senza esitazione alcuna la mozioni di sfiducia. E se questo non bastasse, cosa dire del rampante pentastellato Giancarlo Cancelleri da Caltanissetta, candidato del M5S alla presidenza della regione alle prossime elezioni? Preso atto degli umori imbufaliti di quanti s’erano vista la casa abusiva demolita e delle disperate suppliche di chi aveva la casa in attesa di subire la stessa sorte, con comprensiva solidarietà ha dichiarato che non si può penalizzare chi ha dovuto ricorrere all’abusivismo per mera necessità. Peccato che le costruzioni demolite e la maggior parte di quelle da abbattere fossero quelle costruite in barba ad ogni autorizzazione di legge nei 150 metri dal mare, dove vige il divieto assoluto d'edificazione. Parlare d’abusivismo per necessità in questi casi non è ridicolo, è semplicemente grottesco. E’ sintomo di disprezzo per il lavoro della magistratura che quelle ordinanze ha disposto e per l’intelligenza di chiunque che abbia avuto la sventura di sentire le sorprendenti parole del candidato grillino.
Ne consegue che se questa è la politica prossima ventura, quella che pur di portare un voto in più a casa strumentalizza persino l’illegalità, quella che impone le regole e poi strizza l’occhio a chi cerca scorciatoie e salvacondotti per eluderle, non solo non c’è speranza ma diventa persino inutile andare a votare.
Sull’altro fronte, c’è la gente, i cittadini comuni, coloro che il prossimo novembre andranno a votare per rinnovare le serre palermitane di Palazzo d’Orleans e di Piazza del Parlamento, coloro che avvezzi a secoli di vessazioni, angherie e disprezzo da parte del potere, ma anche divenuti esperti di tecniche di sopravvivenza, sanno che affidarsi alle nuove camarille e consorterie è il metodo per sperare d’uscire dal ghetto d’una vita modesta se non miserabile e godere di qualche piccolo favore e privilegio. A queste condizioni gli autori dei voti espressi per quei politici noti per la propensione a fare carta straccia di ogni regola legale dovrebbero essere perseguiti per evidente complicità nella sovversione delle leggi dello Stato.
Sappiamo che queste considerazioni, purtroppo fedele fotografia di un popolo bruto, non saranno condivise da tanti. Sono i tanti che non accettano per ipocrisia congenita che si sbatta loro in faccia la verità sulla grave malattia di cui sono affetti. E così, per diverse ragioni, ci attireremo le stesse antipatie del sindaco di Licata, ma confessiamo che la cosa anziché dispiacerci ci riempe d'orgoglio. 
Questi autocritici riluttanti pensano che imitare lo struzzo nel mettere la testa sotto la sabbia sia la strada della loro redenzione. Qualcun altro preferisce confidare nella giustizia divina e attende fiducioso che l’angelo vendicatore presto o tardi si trovi a passare da queste parti e faccia strage dei tanti gaglioffi che s’alternano nel circo della politica. Nel frattempo, qualunque sia la categoria dei critici, degli scontenti e dei falsi offesi, si continuerà a percorrere la mulattiera spacciata per autostrada che da Palermo conduce a Catania e viceversa; s’imprecherà per le continue cadute dell’energia elettrica, a causa della vetustà degli impianti; si malediranno le compagnie telefoniche per la pessima qualità delle comunicazioni e per l’assenza di connessione internet; si protesterà per la mancanza d’acqua e gas nelle abitazioni o per le allucinanti lungaggini per ottenere una visita medica specialistica o per le pazzesche inefficienze della pubblica amministrazione; si augureranno i peggiori accidenti ai politici ladroni che ci subissano di tasse inique non per migliorare i servizi, ma per foraggiare se stessi. E tutto questo teatrino si trascinerà per altri cinque anni, fingendo di non sapere che i comportamenti degli uomini delle istituzioni sono lo specchio dell’ignavia di quei cittadini che in quei posti li hanno messi con il proprio voto.
   


venerdì, agosto 04, 2017

L’assistenza piange? Paghino i pensionati



La questione vitalizi dei parlamentari riapre lo scontro sulle pensioni – L’INPS boccheggia sotto il peso della spesa assistenziale e per pareggiare i conti vorrebbe un nuovo taglio alle pensioni – Secondo il suo presidente, il calcolo contributivo applicato a tutti dovrebbe essere la soluzione 

Venerdì, 4 agosto 2017
In una Repubblica delle Banane come la nostra il dibattito sulle pensioni è divenuto ormai perenne e s’inserisce a forza nell’altrettanto perenne discorso sulle misure necessarie per ridurre il mostruoso debito pubblico che ipoteca il futuro del Paese.
La verità è che il nostro è un Paese in ostaggio di una cultura politica prepotente, strafottente e, allo stesso tempo, ignava, esercitata molto spesso da personaggi professionalmente falliti nella vita normale e che hanno trovato nella politica un’occupazione con la quale sbarcare agiatamente il lunario. Ciò implica che normalmente questi personaggi, privi generalmente di una competenza specifica sulle cose che trattano, pendono dalle labbra dei capibastone che indirizzano in aula il voto della congrega politica che rappresentano, e pertanto tale voto è condizionato da ragioni di opportunità e non certo da valutazioni sulla congruenza dei provvedimenti all’esame, comunque nel rispetto assoluto delle considerazioni di personale convenienza e di salvaguardia dei propri privilegi.
Se così non fosse non si spiegherebbe l’accanita resistenza con la quale da quasi cinquant’anni, cioè da quando le prime crepe evidenziatesi nel sistema previdenziale avrebbero suggerito una riforma radicale del sistema di finanziamento delle pensioni, si sollevano muri invalicabili ogni qual volta si accenna alla separazione contabile della previdenza dall’assistenza.
La differenza tra previdenza ed assistenza nasce dall’art. 38 della Costituzione, il quale sancisce al primo comma che ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha il diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale; continua al secondo comma sancendo che per i lavoratori hanno diritto siano previsti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria.
In base a questa formulazione dell’articolo 38 della Costituzione appare chiaro che l’assistenza costituisce un dovere dello stato nei confronti di tutti i cittadini che incorrano in una delle svariate fattispecie di bisogno, le quali sono da ritenersi del tutto potenziali e non certezze specifiche per ogni singolo individuo, poiché è del tutto improbabile che tutti i cittadini possano improvvisamente trovarsi in malattia o in stato di disoccupazione involontaria.
Diversa è la previdenza, che risponde all’esigenza di garantire ad ogni singolo lavoratore, che abbia svolto un’attività per il tempo determinato dalle leggi vigenti ed abbia corrisposto i previsti contributi, un mezzo per mantenersi nella vecchiaia.
Nel primo caso, cioè dell’assistenza, i fondi necessari al finanziamento vengono acquisiti dallo stato attraverso la fiscalità e in linea generale l’erogazione dei servizi avviene con sostanziale pariteticità per tutti i cittadini che si trovino nelle condizioni di dovervi far ricorso. Nel secondo caso, i prestatori d’opera e le imprese pagano una contribuzione in ragione del reddito percepito/erogato, per costruire una sorta di retribuzione differita da erogarsi ad ogni singolo lavoratore a partire dalla sua collocazione in quiescenza.
Non v’è alcun dubbio che così specificate le voci assistenza e previdenza assolvano dunque finalità diverse tra loro, per le quali, in una realtà basata sull’ordine e la trasparenza, i sistemi gestionali e contabili dovrebbero essere nettamente separati, onde evitare che il crescere della spesa in uno dei due settori consenta arbitrari trasferimenti di risorse. Ma nella nostra realtà tale principio non è rispettato, per cui l’esplosione della spesa assistenziale o i sussidi per la cassa integrazione e la mobilità hanno creato un minestrone contabile micidiale, che ha imposto il trasferimento di fondi dalla previdenza, al punto tale da compromettere l’intera tenuta del comparto.
Ovviamente il discorso al di là di una spiegazione semplicistica è di elevata complessità, dovuta alle scelte della politica, incapace di razionalizzare i compiti di un ente chiamato a spaziare su prestazioni di malattia, assistenza, cure, soggiorni, maternità, congedi matrimoniali, sostegno allo studio, disoccupazione, cassa integrazione, ecc.
E’ come si vede un quadro di profonda dispersione, in cui è arduo gestire l’equilibrio dei costi e così la politica annaspa alla ricerca di soluzioni, - sebbene sarebbe il caso di dire che più che cercare finge di cercare, -  che nel corso dell’ultimo decennio ha visto montare un esasperato attacco al sistema previdenziale, spacciato per il virus maligno che ha lentamente messo in crisi i conti dell’INPS, gestore sia di assistenza che di previdenza.
E’ sembrato così alla politica più digeribile per la pubblica opinione attaccare la previdenza, che colpisce la categoria dei pensionati, piuttosto che intervenire sul meccanismo fiscale per tappare le falle dell’assistenza. D'altronde in un Paese accusato di applicare una pressione fiscale ai limiti della vessazione e di erogare servizi corrispondenti di bassa qualità un ulteriore giro di vite sulla tassazione sarebbe stato considerato assai impopolare. Allora s’è preferito intervenire sulla previdenza con una guerra sull’orlo della paranoia, che ha scatenato uno scontro epocale tra le nuove generazioni, costituite da senza lavoro o da lavoratori precari comunque con scarsissima visibilità di futuro, e pensionati, accusati di godere di suntuosi assegni di quiescenza maturati grazie a meccanismi di calcolo sostanzialmente privilegiati, necessari pertanto di radicali cambiamenti per rigenerare la perduta equità sociale.
A valle dei pazzeschi blocchi al pensionamento imposti dal governo Berlusconi, grazie alle cervellotiche trovate dei suoi ministri Tremonti e Maroni s’è assistito all’introduzione del calcolo contributivo in sostituzione di quello retributivo con il governo Monti, che per mano di Elsa Fornero ha imposto anche un innalzamento dell’età pensionabile; ad una riparametrazione dell’età per la quiescenza con riferimento all’aspettativa di crescita della vita.
Ma a quanto pare neanche queste misure, rivelatosi straordinariamente penalizzanti, sono servite a pareggiare i bilanci dell’INPS. Così, con la presidenza Boeri, l’INPS ha iniziato a martellare sulla necessità di passare al calcolo contributivo anche per le pensioni già in corso di erogazioni, poiché il trattamento basato sul calcolo retributivo con il quale sono state erogate le pensioni in essere rischierebbe di aggravare la “frattura” con le nuove generazioni, che a giudizio del presidente dell’istituto previdenziale, di pensione ne vedranno poco o nulla. Evidentemente l’insistenza con la quale si bombarda la pubblica opinione con messaggi apocalittici si spera faccia breccia nella politica, affinché per rimpinguare le casse dell’istituto promulghi qualche provvedimento di espropriazione forzosa a danno dei già pensionati. E naturalmente nulla si dice sulla necessità di rompere definitivamente il cordone ombelicale che lega indissolubilmente la previdenza con l’assistenza, che è il vero cancro che mina le fondamenta del sistema previdenziale.
Parimenti, non si fa alcun riferimento ai provvedimenti che dovrebbero essere assunti per far cessare l’offesa alla dignità umana costituita dalla precarietà del lavoro o la gravissima situazione di evasione contributiva presente in buona parte del Paese e che costituisce una regola ricattatoria dell’occupazione al Sud. Si perpetuano, - quasi fossero irrilevanti e non le ragioni basilari della forte contrazione dei contributi previdenziali, - contratti a termine e condizioni di lavoro occasionale che nulla hanno a che vedere con la civiltà di un paese sviluppato e che spingono l’Italia sempre più nel contesto di un terzomondismo afflitto dallo sfruttamento di un capitalismo globale bieco e senza scrupoli. Il tanto decantato Jobs Act di Matteo Renzi, accompagnato dalla cancella zione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha rappresentato in questo senso la sublimazione del concetto di neo-schiavitù, avendo cancellato ogni speranza di stabilizzazione e continuità lavorativa per quanti, in virtù di una favorevole sorte, riescono a trovare uno straccio d’occupazione.
Con queste premesse, dunque, basate sulla sostanziale assenza di un sistema politico capace d’intercettare le reali esigenze dei cittadini, sensibile esclusivamente al governo delle proprie posizioni di privilegio, è difficile immaginare di uscire da una situazione al limite della disperazione, nella quale, pur di non ledere gli interessi dei gruppi di potere occulti, chi di dovere non assume le iniziative necessarie o getta benzina sul fuoco di una guerra generazionale inventata ad arte, con l’intento di sviare l’attenzione dalle sue vergognose inadempienze.