venerdì, agosto 04, 2017

L’assistenza piange? Paghino i pensionati



La questione vitalizi dei parlamentari riapre lo scontro sulle pensioni – L’INPS boccheggia sotto il peso della spesa assistenziale e per pareggiare i conti vorrebbe un nuovo taglio alle pensioni – Secondo il suo presidente, il calcolo contributivo applicato a tutti dovrebbe essere la soluzione 

Venerdì, 4 agosto 2017
In una Repubblica delle Banane come la nostra il dibattito sulle pensioni è divenuto ormai perenne e s’inserisce a forza nell’altrettanto perenne discorso sulle misure necessarie per ridurre il mostruoso debito pubblico che ipoteca il futuro del Paese.
La verità è che il nostro è un Paese in ostaggio di una cultura politica prepotente, strafottente e, allo stesso tempo, ignava, esercitata molto spesso da personaggi professionalmente falliti nella vita normale e che hanno trovato nella politica un’occupazione con la quale sbarcare agiatamente il lunario. Ciò implica che normalmente questi personaggi, privi generalmente di una competenza specifica sulle cose che trattano, pendono dalle labbra dei capibastone che indirizzano in aula il voto della congrega politica che rappresentano, e pertanto tale voto è condizionato da ragioni di opportunità e non certo da valutazioni sulla congruenza dei provvedimenti all’esame, comunque nel rispetto assoluto delle considerazioni di personale convenienza e di salvaguardia dei propri privilegi.
Se così non fosse non si spiegherebbe l’accanita resistenza con la quale da quasi cinquant’anni, cioè da quando le prime crepe evidenziatesi nel sistema previdenziale avrebbero suggerito una riforma radicale del sistema di finanziamento delle pensioni, si sollevano muri invalicabili ogni qual volta si accenna alla separazione contabile della previdenza dall’assistenza.
La differenza tra previdenza ed assistenza nasce dall’art. 38 della Costituzione, il quale sancisce al primo comma che ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha il diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale; continua al secondo comma sancendo che per i lavoratori hanno diritto siano previsti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria.
In base a questa formulazione dell’articolo 38 della Costituzione appare chiaro che l’assistenza costituisce un dovere dello stato nei confronti di tutti i cittadini che incorrano in una delle svariate fattispecie di bisogno, le quali sono da ritenersi del tutto potenziali e non certezze specifiche per ogni singolo individuo, poiché è del tutto improbabile che tutti i cittadini possano improvvisamente trovarsi in malattia o in stato di disoccupazione involontaria.
Diversa è la previdenza, che risponde all’esigenza di garantire ad ogni singolo lavoratore, che abbia svolto un’attività per il tempo determinato dalle leggi vigenti ed abbia corrisposto i previsti contributi, un mezzo per mantenersi nella vecchiaia.
Nel primo caso, cioè dell’assistenza, i fondi necessari al finanziamento vengono acquisiti dallo stato attraverso la fiscalità e in linea generale l’erogazione dei servizi avviene con sostanziale pariteticità per tutti i cittadini che si trovino nelle condizioni di dovervi far ricorso. Nel secondo caso, i prestatori d’opera e le imprese pagano una contribuzione in ragione del reddito percepito/erogato, per costruire una sorta di retribuzione differita da erogarsi ad ogni singolo lavoratore a partire dalla sua collocazione in quiescenza.
Non v’è alcun dubbio che così specificate le voci assistenza e previdenza assolvano dunque finalità diverse tra loro, per le quali, in una realtà basata sull’ordine e la trasparenza, i sistemi gestionali e contabili dovrebbero essere nettamente separati, onde evitare che il crescere della spesa in uno dei due settori consenta arbitrari trasferimenti di risorse. Ma nella nostra realtà tale principio non è rispettato, per cui l’esplosione della spesa assistenziale o i sussidi per la cassa integrazione e la mobilità hanno creato un minestrone contabile micidiale, che ha imposto il trasferimento di fondi dalla previdenza, al punto tale da compromettere l’intera tenuta del comparto.
Ovviamente il discorso al di là di una spiegazione semplicistica è di elevata complessità, dovuta alle scelte della politica, incapace di razionalizzare i compiti di un ente chiamato a spaziare su prestazioni di malattia, assistenza, cure, soggiorni, maternità, congedi matrimoniali, sostegno allo studio, disoccupazione, cassa integrazione, ecc.
E’ come si vede un quadro di profonda dispersione, in cui è arduo gestire l’equilibrio dei costi e così la politica annaspa alla ricerca di soluzioni, - sebbene sarebbe il caso di dire che più che cercare finge di cercare, -  che nel corso dell’ultimo decennio ha visto montare un esasperato attacco al sistema previdenziale, spacciato per il virus maligno che ha lentamente messo in crisi i conti dell’INPS, gestore sia di assistenza che di previdenza.
E’ sembrato così alla politica più digeribile per la pubblica opinione attaccare la previdenza, che colpisce la categoria dei pensionati, piuttosto che intervenire sul meccanismo fiscale per tappare le falle dell’assistenza. D'altronde in un Paese accusato di applicare una pressione fiscale ai limiti della vessazione e di erogare servizi corrispondenti di bassa qualità un ulteriore giro di vite sulla tassazione sarebbe stato considerato assai impopolare. Allora s’è preferito intervenire sulla previdenza con una guerra sull’orlo della paranoia, che ha scatenato uno scontro epocale tra le nuove generazioni, costituite da senza lavoro o da lavoratori precari comunque con scarsissima visibilità di futuro, e pensionati, accusati di godere di suntuosi assegni di quiescenza maturati grazie a meccanismi di calcolo sostanzialmente privilegiati, necessari pertanto di radicali cambiamenti per rigenerare la perduta equità sociale.
A valle dei pazzeschi blocchi al pensionamento imposti dal governo Berlusconi, grazie alle cervellotiche trovate dei suoi ministri Tremonti e Maroni s’è assistito all’introduzione del calcolo contributivo in sostituzione di quello retributivo con il governo Monti, che per mano di Elsa Fornero ha imposto anche un innalzamento dell’età pensionabile; ad una riparametrazione dell’età per la quiescenza con riferimento all’aspettativa di crescita della vita.
Ma a quanto pare neanche queste misure, rivelatosi straordinariamente penalizzanti, sono servite a pareggiare i bilanci dell’INPS. Così, con la presidenza Boeri, l’INPS ha iniziato a martellare sulla necessità di passare al calcolo contributivo anche per le pensioni già in corso di erogazioni, poiché il trattamento basato sul calcolo retributivo con il quale sono state erogate le pensioni in essere rischierebbe di aggravare la “frattura” con le nuove generazioni, che a giudizio del presidente dell’istituto previdenziale, di pensione ne vedranno poco o nulla. Evidentemente l’insistenza con la quale si bombarda la pubblica opinione con messaggi apocalittici si spera faccia breccia nella politica, affinché per rimpinguare le casse dell’istituto promulghi qualche provvedimento di espropriazione forzosa a danno dei già pensionati. E naturalmente nulla si dice sulla necessità di rompere definitivamente il cordone ombelicale che lega indissolubilmente la previdenza con l’assistenza, che è il vero cancro che mina le fondamenta del sistema previdenziale.
Parimenti, non si fa alcun riferimento ai provvedimenti che dovrebbero essere assunti per far cessare l’offesa alla dignità umana costituita dalla precarietà del lavoro o la gravissima situazione di evasione contributiva presente in buona parte del Paese e che costituisce una regola ricattatoria dell’occupazione al Sud. Si perpetuano, - quasi fossero irrilevanti e non le ragioni basilari della forte contrazione dei contributi previdenziali, - contratti a termine e condizioni di lavoro occasionale che nulla hanno a che vedere con la civiltà di un paese sviluppato e che spingono l’Italia sempre più nel contesto di un terzomondismo afflitto dallo sfruttamento di un capitalismo globale bieco e senza scrupoli. Il tanto decantato Jobs Act di Matteo Renzi, accompagnato dalla cancella zione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha rappresentato in questo senso la sublimazione del concetto di neo-schiavitù, avendo cancellato ogni speranza di stabilizzazione e continuità lavorativa per quanti, in virtù di una favorevole sorte, riescono a trovare uno straccio d’occupazione.
Con queste premesse, dunque, basate sulla sostanziale assenza di un sistema politico capace d’intercettare le reali esigenze dei cittadini, sensibile esclusivamente al governo delle proprie posizioni di privilegio, è difficile immaginare di uscire da una situazione al limite della disperazione, nella quale, pur di non ledere gli interessi dei gruppi di potere occulti, chi di dovere non assume le iniziative necessarie o getta benzina sul fuoco di una guerra generazionale inventata ad arte, con l’intento di sviare l’attenzione dalle sue vergognose inadempienze.



    


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