Le guerre intestine nel partito che non c’é
Martedì, 23 febbraio 2010
La vicenda Bertolaso non è solo un dejà vu di miserabili imbrogli a danno della collettività di un paese che ha ormai perso ogni lumicino di dignità politica e sociale. E’ nelle sue implicazioni un evento che segna l’inizio di un trend negativo rapido, per non dire precipitoso, dell’avventura PdL, quell’avventura acclamata come geniale nella “notte del predellino” di S. Babila, ma che nei fatti, s’è rivelata una disastrosa campagna per coalizzare una destra eterogenea per rappresentarla come una stabile alternativa di governo ad un paese dilaniato dal qualunquismo fiorito sulle ceneri di tangentopoli.
Nato per la cocciuta volontà di Silvio Berlusconi, il PdL non si è mai trasformato in un vero movimento politico, in un partito in grado di esprimere una linea d’indirizzo unanime e determinata a imporre con gli strumenti della democrazia un new deal di governo, tant’è che lo stesso Fini, che ancora qualche giorno prima della sceneggiata milanese aveva preso le distanze dai minacciosi proclami di Berlusconi in merito alla formazione del nuovo soggetto politico “con chi ci sarebbe stato”, si ritrovò tirato per i capelli nell’avventura, proprio per non correre il rischio di restare isolato rispetto al tradimento in fieri ordito dai suoi stessi ex colonnelli, ebri all’idea di poter finalmente saltare a piè pari nel piatto del potere.
Affermò infatti un Fini ridotto all’angolo, ma ancora lucido: «Non basta uscire dalla casa del padre per dire abbiamo fatto un partito», alludendo ai gravosi impegni che il PdL avrebbe dovuto affrontare per costruire un elettorato di riferimento, una base coesa e fidelizzata in grado di condividere un progetto politico definito e trainante. Quelle parole oggi suonano ancora non solo attuali ma altresì profetiche di ciò che, nei fatti, è accaduto. Il PdL ancora oggi tiene sulla reggenza di Silvio Berlusconi, che con un autoritarismo nostalgico e l’arcigna durezza di un qualunque padrone impone la coesione alle sue truppe, ai mille soldati di ventura che bivaccano nelle caserme in attesa dello squillo di tromba di qualche generale scontento che li guidi in qualche campagna di guerra. Sì, perché di guerre all’interno del PdL se ne consumano giornalmente: Tremonti contro Brunetta, Cosentino contro Bocchino, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, persino Fini contro Berlusconi, che mettono a nudo le pirotecniche tensioni intestine e preludono alla deflagrazione nucleare che avrà luogo alla scomparsa di Berlusconi stesso.
La verità è che il PdL è un partito mai nato, o meglio nato su una stratificazione di interessi di natura affaristica, che nulla ha mai avuto di politico se non in via del tutto incidentale. L’aggregazione di personalistiche egemonie sul territorio con la spartizione di appalti pubblici, la necessità di accasarsi in un’organizzazione nascente per riacquisire visibilità con l’occupazione del sottogoverno, la gestione clientelare del proprio elettorato di riferimento con gli obiettivi del federalismo fiscale, il risanamento dei conti pubblici con la tracciatura di nuove nicchie di potere, l’incompetenza dilettantistica con la serietà delle situazioni da gestire, se hanno potuto funzionare per un po’ di tempo grazie alo spauracchio di un’opposizione rivelatasi infingarda e manipolatrice, sconfitta più dall’eutanasia che dal merito degli avversari, nel lungo periodo ha disvelato la sua profonda fragilità.
Allora oggi il caso Bertolaso, che fa crollare il castello di sabbia pazientemente costituito da Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, diviene il succoso pretesto per scagliare imboscate, prendere distanze, distribuire veline al curaro, per conferire il colpo di grazia alla sgangherata strategia del suo leader e tentare un rimescolamento di carte che riequilibri la distribuzione del potere.
Berlusconi ha piena contezza della forza della frana che sta facendogli cedere il terreno sotto i piedi, ma sa bene che non ha alcuna protezione civile pronta ad intervenire per tamponarne gli effetti. Anzi in questo momento avverte un pericolo mortale nelle imminenti elezioni amministrative, che definite da lui stesso “un test importantissimo”, rischiano di vederlo capitolare a causa degli eventi nei quali si è fatto coinvolgere Bertolaso, suo protetto al punto da essere in predicato per un ministero, e delle difese che ha dovuto sperticare in suo favore.
Renato Mannheimer, attento osservatore dei fenomeni politici del nostro paese, ha condotto un’indagine statistica sull’orientamento al voto di un campione rappresentativo di elettori e i risultati che emergono sona di quelli da far tremare i polsi anche al più consumato dei politici di razza: l’80% del campione dichiara che il proprio voto sarà fortemente influenzato dalle vicende Bertolaso e il suo “sistema gelatinoso”, mentre non solo la popolarità del governo ma anche quella del suo leader sono in caduta libera.
A poco vale la farsesca dichiarazione di un Berlusconi suonato come un pugile da queste previsioni di intervenire con un disegno di legge che inasprisca le pene per i corrotti e i corruttori nei rapporti con la pubblica amministrazione. Come giustamente hanno osservato Casini e Di Pietro, si tratta dell’ennesima farsa propagandistica, considerato che i disegni di legge hanno iter interminabili e spesso si perdono per strada, mentre, qualora si fosse voluto dare un segnale in direzione di un maggiore rigore, si sarebbe dovuto procedere con decreto legge e, comunque, si sarebbero dovute chiedere le dimissioni di Bertolaso, almeno per opportunità, e di quel Cosentino, in odore di camorra, che solo lo sdegno interno al PdL ha consentito di non candidare come governatore della Campania.
Molti ancora oggi ricordano le parole di Bettino Craxi all’indomani dell’arresto di Mario Chiesa: “un mariuolo!”, salvo qualche tempo dopo non essere perseguito lui stesso per la stessa tipologia di reati. Chissà che il nostro premier, quantomeno per scaramanzia, eviti di pronunciare quella parola nonostante le evidenze.
Nato per la cocciuta volontà di Silvio Berlusconi, il PdL non si è mai trasformato in un vero movimento politico, in un partito in grado di esprimere una linea d’indirizzo unanime e determinata a imporre con gli strumenti della democrazia un new deal di governo, tant’è che lo stesso Fini, che ancora qualche giorno prima della sceneggiata milanese aveva preso le distanze dai minacciosi proclami di Berlusconi in merito alla formazione del nuovo soggetto politico “con chi ci sarebbe stato”, si ritrovò tirato per i capelli nell’avventura, proprio per non correre il rischio di restare isolato rispetto al tradimento in fieri ordito dai suoi stessi ex colonnelli, ebri all’idea di poter finalmente saltare a piè pari nel piatto del potere.
Affermò infatti un Fini ridotto all’angolo, ma ancora lucido: «Non basta uscire dalla casa del padre per dire abbiamo fatto un partito», alludendo ai gravosi impegni che il PdL avrebbe dovuto affrontare per costruire un elettorato di riferimento, una base coesa e fidelizzata in grado di condividere un progetto politico definito e trainante. Quelle parole oggi suonano ancora non solo attuali ma altresì profetiche di ciò che, nei fatti, è accaduto. Il PdL ancora oggi tiene sulla reggenza di Silvio Berlusconi, che con un autoritarismo nostalgico e l’arcigna durezza di un qualunque padrone impone la coesione alle sue truppe, ai mille soldati di ventura che bivaccano nelle caserme in attesa dello squillo di tromba di qualche generale scontento che li guidi in qualche campagna di guerra. Sì, perché di guerre all’interno del PdL se ne consumano giornalmente: Tremonti contro Brunetta, Cosentino contro Bocchino, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, persino Fini contro Berlusconi, che mettono a nudo le pirotecniche tensioni intestine e preludono alla deflagrazione nucleare che avrà luogo alla scomparsa di Berlusconi stesso.
La verità è che il PdL è un partito mai nato, o meglio nato su una stratificazione di interessi di natura affaristica, che nulla ha mai avuto di politico se non in via del tutto incidentale. L’aggregazione di personalistiche egemonie sul territorio con la spartizione di appalti pubblici, la necessità di accasarsi in un’organizzazione nascente per riacquisire visibilità con l’occupazione del sottogoverno, la gestione clientelare del proprio elettorato di riferimento con gli obiettivi del federalismo fiscale, il risanamento dei conti pubblici con la tracciatura di nuove nicchie di potere, l’incompetenza dilettantistica con la serietà delle situazioni da gestire, se hanno potuto funzionare per un po’ di tempo grazie alo spauracchio di un’opposizione rivelatasi infingarda e manipolatrice, sconfitta più dall’eutanasia che dal merito degli avversari, nel lungo periodo ha disvelato la sua profonda fragilità.
Allora oggi il caso Bertolaso, che fa crollare il castello di sabbia pazientemente costituito da Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, diviene il succoso pretesto per scagliare imboscate, prendere distanze, distribuire veline al curaro, per conferire il colpo di grazia alla sgangherata strategia del suo leader e tentare un rimescolamento di carte che riequilibri la distribuzione del potere.
Berlusconi ha piena contezza della forza della frana che sta facendogli cedere il terreno sotto i piedi, ma sa bene che non ha alcuna protezione civile pronta ad intervenire per tamponarne gli effetti. Anzi in questo momento avverte un pericolo mortale nelle imminenti elezioni amministrative, che definite da lui stesso “un test importantissimo”, rischiano di vederlo capitolare a causa degli eventi nei quali si è fatto coinvolgere Bertolaso, suo protetto al punto da essere in predicato per un ministero, e delle difese che ha dovuto sperticare in suo favore.
Renato Mannheimer, attento osservatore dei fenomeni politici del nostro paese, ha condotto un’indagine statistica sull’orientamento al voto di un campione rappresentativo di elettori e i risultati che emergono sona di quelli da far tremare i polsi anche al più consumato dei politici di razza: l’80% del campione dichiara che il proprio voto sarà fortemente influenzato dalle vicende Bertolaso e il suo “sistema gelatinoso”, mentre non solo la popolarità del governo ma anche quella del suo leader sono in caduta libera.
A poco vale la farsesca dichiarazione di un Berlusconi suonato come un pugile da queste previsioni di intervenire con un disegno di legge che inasprisca le pene per i corrotti e i corruttori nei rapporti con la pubblica amministrazione. Come giustamente hanno osservato Casini e Di Pietro, si tratta dell’ennesima farsa propagandistica, considerato che i disegni di legge hanno iter interminabili e spesso si perdono per strada, mentre, qualora si fosse voluto dare un segnale in direzione di un maggiore rigore, si sarebbe dovuto procedere con decreto legge e, comunque, si sarebbero dovute chiedere le dimissioni di Bertolaso, almeno per opportunità, e di quel Cosentino, in odore di camorra, che solo lo sdegno interno al PdL ha consentito di non candidare come governatore della Campania.
Molti ancora oggi ricordano le parole di Bettino Craxi all’indomani dell’arresto di Mario Chiesa: “un mariuolo!”, salvo qualche tempo dopo non essere perseguito lui stesso per la stessa tipologia di reati. Chissà che il nostro premier, quantomeno per scaramanzia, eviti di pronunciare quella parola nonostante le evidenze.
2 Commenti:
il periodo elettorale è molto delicato,quindi molti membri del partito dovrebbero stare tranquilli e seppellire l'ascia di guerra,non è questo il momento x il PDL di fare bagarre o cambi di dirigenti,adesso bisogna rafforzare il partito e semmai rinviare qualsiasi prob a dopo le elezioni regionali,allora si ci sarà il tempo x kiarire parekkie questioni.
http://www.loccidentale.it/articolo/il+popolo+vuole+bertolaso,+i+capi+popolo+di+sinistra+lo+vogliono+cacciare.0086734
E' normale, - qualcuno direbbe buon senso politico, - non esasperare i problemi in tempi d'elezioni. Tuttavia, non è rimandando i problemi che questi trovano soluzione. E nel caso del PdL i problemi sono di natura strutturale: un "partito" nato su una sovrapposizione d'interessi in cima ai quali ci sono quelli del suo leader. La pratica di spingere la polvere sotto al tappeto non paga: prima o poi il tappeto va spostato e affiorano le magagne.
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