Finalmente un freno alle leggi liberticide
Sabato, 6 febbraio 2010
Pur se parecchi non se ne sono ancora accorti, una guerra è da tempo in corso. Una guerra di portata mondiale che vede contrapposti gli interessi di case cinematografiche, discografiche e di produzione di software e l’utenza internet, che con l’ausilio di programmini reperibili gratuitamente sulla rete scarica film canoni e applicazioni senza pagare nulla, in barba ai diritti d’autore.
I danni per le case di produzione non è indifferente, ma gli strumenti a disposizione per interrompere quel che costituisce una vera e propria sottrazione non autorizzata di materiale sono praticamente inesistenti e i pochi adottati, peraltro con notevoli costi, durano lo spazio di qualche ora e capitolano sotto l’attacco di irriducibili drappelli di hackers.
Per tamponare questa emorragia i produttori hanno pensato bene di rivolgersi alla magistratura, la quale di fronte all’impossibilità di individuare materialmente l’autore del “furto” non ha che potuto allargarle braccia. Ma qui, con l’incauta copertura di governi e apparati legislativi, è scattato il perverso meccanismo inventato da discografici e major: trasformare i provider internet in sceriffi della rete obbligati a segnalare all’autorità giudiziaria le cosiddette connessioni peer to peer, cioè quelle attraverso le quali ci si collega ad un sito host per connettersi ad un altro utente, che cede il file richiesto; oppure per scaricare file da un server remoto.
In questa trappola, - che a guardar bene non può credersi sia stata coperta da apposita legislazione senza un qualche interesse di ritorno, - hanno abboccato paesi come la Francia, gli USA e di recente l’Italia, finendo nei fatti per creare un mostro giuridico senza precedenti e, tra l’altro, assolutamente inutile considerata la collocazione dei server compiacenti in paesi nei quali non è possibile perseguire reati di questa natura e la diffusione sempre più ampia di sistemi di navigazione anonima, che rendono illeggibile l’IP, cioè il codice di identificazione utente assegnato dai provider ad ogni abbonato o il cambio continuo e casuale dello stesso.
Ciò che effettivamente sconvolge non è il ricorso ad ogni arma per combattere un discutibile fenomeno come quello della pirateria su internet, quanto la scelta di ricorrere a misura che anziché combattere il fenomeno in sé e incidere positivamente sui risultati determinano spaventose violazioni di ogni regola di libertà e di privacy.
Il caso recentemente accaduto in Australia dimostra, però, che l’ottusità del legislatore non sempre è corroborata da altrettanta idiozia dei giudici, che invece, nel corso di una causa intentata da Walt Disney, Paramount, Universal Pictures, Warner Brothers, Sony e 20th Century Fox a iiNet, terzo provider del continente, ritenuto colpevole di non aver inibito le connessioni dei suoi clienti ai siti ed ai server dai quali effettuare download pirata, hanno dato definitivamente torto alle più potenti major della terra e costituito un importantissimo precedente a contro la legislazione di cui parliamo.
Ha infatti sostenuto iiNet che il suo business consiste nella vendita di servizi di connessione internet, che vanno dall’installazione delle infrastrutture alla manutenzione delle stesse. Il suo compito non può essere stravolto al punto da chiederle di monitorare ogni singolo cliente al fine di controllare quali connessioni effettua. Un sistema così preordinato evidenzierebbe una duplice violazione di principi legislativamente sanciti. In primo luogo si determinerebbe un’intrusione nella privacy dell’utente, che ha il diritto di connettersi con chi gli pare e la semplice connessione a siti che offrono la possibilità di download non costituisce di per sé reato. Secondariamente a nessun fornitore di specifici servizi è mai stato imposto l’onere di controllare l’uso che l’utente fa del servizio erogato: sarebbe come imporre alla società elettrica di monitorare la natura dell’utilizzo dell’energia erogata. In fine se vale il principio di colpevolezza solo i forza di definitiva e regolare sentenza emessa da un tribunale, non spetta certamente ad un provider qualsiasi anticipare conclusioni d’illiceità di comportamento dell’utente.
I giudici di Sidney, accogliendo in pieno queste motivazioni, hanno concluso che il compito di iiNet è quello di erogare servizi di connessione e non di assumere le vesti di tutore del copyright. Nulla di più può essere richiesto alla società in questione, che esuli dalle sue competenze e dalla sua missione industriale.
Chissà se queste elementari conclusioni faranno riflettere non solo Sarkozy ma anche qualche novello crociato di casa nostra, che aveva già pensato di costringere i provider a registrare tutte le connessioni effettuate da ogni singolo utente per poi sottoporle al vaglio di una anacronistica quanto arrogante censura.
Pur se parecchi non se ne sono ancora accorti, una guerra è da tempo in corso. Una guerra di portata mondiale che vede contrapposti gli interessi di case cinematografiche, discografiche e di produzione di software e l’utenza internet, che con l’ausilio di programmini reperibili gratuitamente sulla rete scarica film canoni e applicazioni senza pagare nulla, in barba ai diritti d’autore.
I danni per le case di produzione non è indifferente, ma gli strumenti a disposizione per interrompere quel che costituisce una vera e propria sottrazione non autorizzata di materiale sono praticamente inesistenti e i pochi adottati, peraltro con notevoli costi, durano lo spazio di qualche ora e capitolano sotto l’attacco di irriducibili drappelli di hackers.
Per tamponare questa emorragia i produttori hanno pensato bene di rivolgersi alla magistratura, la quale di fronte all’impossibilità di individuare materialmente l’autore del “furto” non ha che potuto allargarle braccia. Ma qui, con l’incauta copertura di governi e apparati legislativi, è scattato il perverso meccanismo inventato da discografici e major: trasformare i provider internet in sceriffi della rete obbligati a segnalare all’autorità giudiziaria le cosiddette connessioni peer to peer, cioè quelle attraverso le quali ci si collega ad un sito host per connettersi ad un altro utente, che cede il file richiesto; oppure per scaricare file da un server remoto.
In questa trappola, - che a guardar bene non può credersi sia stata coperta da apposita legislazione senza un qualche interesse di ritorno, - hanno abboccato paesi come la Francia, gli USA e di recente l’Italia, finendo nei fatti per creare un mostro giuridico senza precedenti e, tra l’altro, assolutamente inutile considerata la collocazione dei server compiacenti in paesi nei quali non è possibile perseguire reati di questa natura e la diffusione sempre più ampia di sistemi di navigazione anonima, che rendono illeggibile l’IP, cioè il codice di identificazione utente assegnato dai provider ad ogni abbonato o il cambio continuo e casuale dello stesso.
Ciò che effettivamente sconvolge non è il ricorso ad ogni arma per combattere un discutibile fenomeno come quello della pirateria su internet, quanto la scelta di ricorrere a misura che anziché combattere il fenomeno in sé e incidere positivamente sui risultati determinano spaventose violazioni di ogni regola di libertà e di privacy.
Il caso recentemente accaduto in Australia dimostra, però, che l’ottusità del legislatore non sempre è corroborata da altrettanta idiozia dei giudici, che invece, nel corso di una causa intentata da Walt Disney, Paramount, Universal Pictures, Warner Brothers, Sony e 20th Century Fox a iiNet, terzo provider del continente, ritenuto colpevole di non aver inibito le connessioni dei suoi clienti ai siti ed ai server dai quali effettuare download pirata, hanno dato definitivamente torto alle più potenti major della terra e costituito un importantissimo precedente a contro la legislazione di cui parliamo.
Ha infatti sostenuto iiNet che il suo business consiste nella vendita di servizi di connessione internet, che vanno dall’installazione delle infrastrutture alla manutenzione delle stesse. Il suo compito non può essere stravolto al punto da chiederle di monitorare ogni singolo cliente al fine di controllare quali connessioni effettua. Un sistema così preordinato evidenzierebbe una duplice violazione di principi legislativamente sanciti. In primo luogo si determinerebbe un’intrusione nella privacy dell’utente, che ha il diritto di connettersi con chi gli pare e la semplice connessione a siti che offrono la possibilità di download non costituisce di per sé reato. Secondariamente a nessun fornitore di specifici servizi è mai stato imposto l’onere di controllare l’uso che l’utente fa del servizio erogato: sarebbe come imporre alla società elettrica di monitorare la natura dell’utilizzo dell’energia erogata. In fine se vale il principio di colpevolezza solo i forza di definitiva e regolare sentenza emessa da un tribunale, non spetta certamente ad un provider qualsiasi anticipare conclusioni d’illiceità di comportamento dell’utente.
I giudici di Sidney, accogliendo in pieno queste motivazioni, hanno concluso che il compito di iiNet è quello di erogare servizi di connessione e non di assumere le vesti di tutore del copyright. Nulla di più può essere richiesto alla società in questione, che esuli dalle sue competenze e dalla sua missione industriale.
Chissà se queste elementari conclusioni faranno riflettere non solo Sarkozy ma anche qualche novello crociato di casa nostra, che aveva già pensato di costringere i provider a registrare tutte le connessioni effettuate da ogni singolo utente per poi sottoporle al vaglio di una anacronistica quanto arrogante censura.
(nella foto, l'immagine di avvio di uno dei più diffusi programmi p2p, eMule)
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page