martedì, luglio 22, 2008

Istituzioni: l’invasione dei coatti


Martedì, 22 luglio 2008
Bravo ministro Bossi, quel dito alzato al suono dell’inno di Mameli non solo non le fa onore, ma disonora quel Popolo Padano che conduce da oltre un ventennio, in visibilio davanti al suo eloquente gesto.
Ancora una volta il bolso condottiero delle fantomatiche legioni del nord non perde occasione per sputare nel piatto in cui mangia a quattro ganasce da anni e adesso se la prende con l’inno nazionale, che confessa di avere avuto fin da ragazzo in grande antipatia. Sì, perché il signor Bossi - che tanto signore poi non deve essere, alla luce dei trucidi spettacoli e delle volgarità verbali cui spesso si abbandona, - da anni siede in Parlamento e si rimpinza le tasche della straricca indennità che gli compete per la carica, pagata dai cafoni che guida e dai terroni che dileggia.
Certo, dovrà trattarsi o d’innato amore per l’avanspettacolo o di qualche sfasatura sinaptica, dato che non si capisce bene con quale coerenza dica o faccia certe cose, considerato che il fato gli ha dato una moglie meridionale e che vive agiatamente con lo stipendio da parlamentare dell’odiata Repubblica italiana. Ciononostante, continua a seminare odio contro l’unità nazionale, contro le istituzioni ed a minacciare ridicole secessioni con tanto di richiamo alle armi di quattro cialtroni armati di forche e di badili, - lui giura che hanno gli schioppi, - che dovrebbero costituire nella sua alterata visione della realtà la Repubblica Padana, magari con tanto di garitte e sbarre di confine nei pressi di Piacenza.
Il comune cittadino, - che rischierebbe serie conseguenze penali se solo dicesse una minima parte di quanto predica questo sbruffone brianzolo, - rimane basito davanti a questo scempio delle istituzioni perpetrato con sistematicità dai rappresentanti di quelle medesime istituzioni. Così come si chiede la ragione per la quale la magistratura, quella magistratura indignata per gli attacchi concentrici cui è soggetta giornalmente, rimanga impassibile a guardare e ad ascoltare le farneticazioni oltraggiose di questo personaggio senza assumere uno straccio d’iniziativa nei suoi confronti.
Tra l’altro, l’indegno rappresentante delle istituzioni Bossi non è solo in questa squallida farsa, ma è spalleggiato da un nugolo di bravi sempre pronti a minimizzarne o difenderne le allucinanti sparate, adducendo aspetti caratteriali tanto incorreggibili quanto innocui del loro leader, che in realtà con le boutade provocatorie avrebbe solo l’obiettivo di tenere alta l’attenzione sui problemi irrisolti del Paese, problemi di cui il federalismo ed altre panzane accessorie rappresenterebbero gli unici antibiotici efficaci.
Personalmente non pensiamo che l’attenzione al federalismo, ancorché giusto o sbagliato, possa essere mantenuta con il disprezzo e la contumelia verso una parte consistente del Paese, anche perché, se è vero che in democrazia vale il principio di maggioranza, Bossi ed il suo carrozzone di velenosi nani e ballerine razzisti non rappresenta certo la maggioranza degli Italiani, - che se non si fossero troppo abituati ai guitti, ai predicatori ed agli affaristi presenti nel nostro degradato scenario politico, forse avrebbero già affibbiato a questo rozzo rimestatore un sonoro calcione nel fondo schiena non appena si fosse presentato a Fiumicino e lo avrebbero così rispedito alle sorgenti del Po a rinfrescarsi le idee e ad affilare la roncola per prepararsi all’improbabile marcia su Roma, piuttosto che permettergli di gonfiarsi lo stomaco in un qualche ristorante della capitale con un buon piatto di spaghetti all’amatriciana pagato con i soldi dei contribuenti della Penisola.
Ma ormai è noto che i cattivi vezzi sono molto più contagiosi delle virtù e Bossi, in questo trionfo di volgarità e malanimo, non è l’unico elemento. Gli tiene buona compagnia il Presidente del Consiglio, passato alla storia per gli insulti ad un parlamentare europeo; per le corna ostentate in una foto di gruppo con altri capi di governo; per gli inguaribili rigurgiti di gallismo nei confronti di colleghe o di impiegate degli uffici che ospitano le riunioni politiche dei rappresentanti delle istituzioni internazionali; per le velenose dichiarazioni nei confronti di avversari ed oppositori e per tante altre chicche, che sarebbe lungo e noiso elencare.
Che dire poi di quel Gasparri, Presidente del gruppo parlamentare del PdL che appena qualche giorno fa ha etichettato cloaca il Consiglio Superiore della Magistratura di cui è presidente il signor Giorgio Napolitano, rappresentante di tutti gli Italiani? C’è da ritenere che Gasparri debba avere una certa dimestichezza con le cloache, se non ha avuto alcun dubbio nel definire così il CSM, dato che all’occhio del profano questa istituzione, sicuramente migliorabile, non pare così sudicia ed emanare i tipici miasmi cui il provetto deputato sottintende pur senza citarli.
La chiave di lettura di queste incontinenze gestuali e verbali è probabile stia altrove e sia da attribuire al degrado cui l’Italia è ormai soggetta da lungo tempo, degrado che ha consentito di reclutare tra i rappresentanti della Repubblica una schiera di coatti che, ignari del significato delle parole, hanno confuso l’immunità con il termine impunità, quasi non avessero mai smesso i panni degli smargiassi di quartiere, terrore di bambini e vecchiette, e adesso nella cristalleria si muovono come pachidermi, incapaci di controllare istinti e conseguenze dei loro movimenti scoordinati. Dimostrano costoro di essere solo un manipolo di bulli borgatari, che ritengono di potersi permettere l’insulto e lo svillaneggiamento di tutti e di tutto, sol perché nei territori in cui hanno vissuto la giustizia è spesso assente o al più distratta; salvo reagire di brutto quando capita che bersaglio dell’insulto siano loro o si sentano dare del buffone da qualche insofferente temerario.
Ed è davanti a questo spettacolo che bisognerebbe gridare “alle armi, alle armi!”, ma non per avallare le attese di quattro irredentisti fuori di testa oltre che dai tempi, ma per liberare il Paese dal cancro del degrado dei valori e della caduta d’identità di cui una casta di parassiti ed opportunisti lo ha fatto ammalare.


(nella foto: il Ministro Bossi ostenta il dito in segno di irriverenza verso l'inno nazionale)

martedì, luglio 15, 2008

Immunità. Berlusconi ce l’ha fatta!


Martedì, 15 luglio 2008
Alla fine ce l’ha fatta. Ancora una volta i cittadini non vedranno sua eccellenza il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana dei carciofi e delle banane, signor Silvio Berlusconi, alla gogna per un’eventuale condanna penale inflittagli dal Tribunale di Milano nel processo per corruzione in atti giudiziari, che lo vede imputato insieme con l’avvocato inglese Mills.
Com’era prevedibile, il domatore Silvio ha fatto schioccare le frusta e le pulci ammaestrate si sono precipitate a votare il lodo Alfano, che lo rende non perseguibile per tutta la durata del mandato istituzionale e gli consegna una sorta di nulla osta anche a delinquere, se gli va a genio, esente da qualunque conseguenza applicabile al comune mortale.
Poco importa che da più parti si fosse levata voce sull’esigenza di approvare un simile provvedimento con la procedura prevista per l’emanazione di leggi d’emendamento costituzionale, dato che il lodo Alfano muta radicalmente le guarentigie previste dalla Costituzione per le quattro più importanti cariche dello Stato e, dunque, la loro variazione non può divenire appannaggio, peraltro palesemente strumentale come nel caso di Silvio Berlusconi, della maggioranza parlamentare in carica. Inoltre non si comprende bene come le norme approvate si concilino con le preesistenti riguardanti i reati commessi dai titolari delle cariche in questione nell’esercizio delle loro funzioni, dato che da adesso vigerebbe un regime di impunibilità chiaramente contrastante.
In ogni caso, bene fa Di Pietro, unica voce di dissenso, nella sala mensa parlamentare, a lanciare i suoi strali contro le nuove norme approvate. La democrazia è sì l’esercizio del potere in cui deve prevalere la volontà della maggioranza, ma non può divenire lo strumento per legittimare ogni abuso sol perché all’abuso si fanno indossare i panni di volere della maggioranza. Piuttosto questa modalità corrisponde al criterio con il quale una certa organizzazione, denominata P2 ed alla quale aderiva il nostro Presidente del Consiglio (tessera 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, data di affiliazione 26 gennaio 1978), intendeva nei suoi propositi aggiogare le libertà in Italia.
Ovviamente di quest’impunità tanto sospirata, che rappresenta il coronamento della sua strategia, Berlusconi non può che gongolare, e, nel tentativo di farne un valore condiviso che rimuova più di un sospetto che il provvedimento sia stato partorito a suo esclusivo vantaggio, si prodiga nella difesa apodittica di qualunque politico inquisito, anche di altra parrocchia, con il fine di sollecitare il colpo definitivo a quella magistratura che per tanto tempo lo ha fatto penare ficcando il naso nei suoi personali intrallazzi.
E’ di qualche ora fa la notizia dell’arresto di Ottaviano Del Turco, Governatore della Regione Abruzzo, per reati gravissimi connessi ad un giro di tangenti nel settore sanitario. Mentre è probabile che, per giungere ad un provvedimento così eclatante, la magistratura abbia acquisito prove molto solide ed inconfutabili a carico dell’indagato, Berlusconi, divenuto adesso paladino della casta, non ha perso un attimo per scagliarsi contro quella magistratura, dichiarando «Sì, ho sentito, e mi sembra una cosa molto strana che ci sia una decapitazione completa, quasi una retata, di un intero governo di una regione. Ho sentito anche il teorema accusatorio, conoscendo l'attuale sistema dell'accusa in Italia...», che denota non solo la probabile ignoranza degli atti in mano agli inquirenti, ma la volontà pervicace di profittare della circostanza per sferrare l’ennesima mazzata contro la legittimità dei giudici ad inquisire chiunque faccia parte della ristretta cerchia di intoccabili presenti nella lista dei politici.
E’ del tutto superfluo sottolineare come lo scontro istituzionale da lui avviato già dal lontano ’94 non faccia onore né alle istituzioni della Repubblica, né rinforzi il senso di identità dei cittadini nello stato di diritto in cui, presumibilmente, dovrebbero vivere. Ma al Cavaliere tutto ciò non interesse, poiché il suo obiettivo è in realtà il caos, quel caos in cui tutto diviene emergenza e rende possibile ogni sorta d’abuso e vilipendio delle regole democratiche, in nome di una necessità di tamponare fantasiose fughe eversive, fumose minacce di improbabili complotti, congiure indimostrabili tese a rovesciare il voto popolare, ed altre leggende metropolitane simili, che in ogni caso rendono più che giustificabile l’adozione di provvedimenti opportunistici e di sostanziale difesa dei propri interessi e della propria immunità, mascherandoli di emergenza pubblica e di difesa dell’interesse collettivo.
Comunque sia, è amaro il dover ammettere che bene fa il Cavaliere ad impazzare contro questo e quello che solo ardisca intralciare il suo cammino. Come egli stesso ha più volte sottolineato, la sua elezione è frutto di una scelta popolare, che, nonostante tutto, ha ritenuto di spedirlo a Palazzo Chigi per gestire il Paese, pur conoscendo le sue debolezze, i suoi rancori ed i suo interessi personali in gioco. E fintanto che l’elettorato non si sarà rinsavito e non lo rovescerà (sempre che per l’andazzo delle cose, lui e i suoi sodali lo permettano), lui ha buon diritto di imporre la sua legge, le sue regole, incurante di ciò che pensano avversari, veri ed opportunamente inventati, e detrattori. A chi ha fede e speranza nella democrazia, non resta che augurarsi che il suo cammino non sia lungo e che magari nell’incedere metta il piede, meglio prima che poi, su una delle bucce di banana di cui l’Italia è ormai tra i più grandi consumatori al mondo.

(nella foto: il Ministro Alfano, autore del lodo sull’immunità per le alte cariche dello stato)

mercoledì, luglio 09, 2008

L’effimero trionfo dei golpisti



Mercoledì, 9 luglio 2008
Non siamo moralisti né ci scandalizziamo per un certo tipo di linguaggio che incidentalmente rende la realtà della politica più vicina alla vita quotidiana dei cittadini normali, anche se rimane la constatazione amara di come questo sia l’unico elemento di aderenza tra il Paese reale ed il Paese legale. A questa stregua, che la Guzzanti ripassi le presunte malefatte di Berlusconi nel corso della manifestazione organizzata da Di Pietro per denunciare le scelleratezze dell’emananda normativa blocca-processi utilizzando un linguaggio da facchino portuale, potrà anche non incontrare il gradimento di perbenisti e bacchettoni, ma nulla incide su una verità che, qualora confermata, ridimensionerebbe l’immagine dell’altezzoso Uomo di Arcore.
Eppure, di tutto ciò occorre riconoscer merito al Cavalier Berlusconi, tycoon di mestiere e politico improvvisato dalla necessità più che da genuini propositi ideali, che tra le mille derive in cui ha condotto l’Italia, ha favorito il passaggio della politica dal linguaggio criptico ed infarcito di leziosi eufemismi al ruvido lessico della strada, in cui ogni cittadino si riconosce ed afferra l’effettivo senso delle cose.
Ovviamente, a parte le evoluzioni lessicali, è rimasto immutato il metodo di stravolgere la verità e di infarcire di squallide bugie quanto i politici dicono al cittadino. Anzi con il Cavaliere il ricorso a tale tecnica è stato promosso a meccanismo strategico di comunicazione; una sorta di marketing della politica in virtù del quale ormai si dice solo ciò che conviene e nel modo in cui conviene, ripetendo il messaggio sino alla nausea, sino a quando il cittadino-beccaccione abbocca e si convince, come si trattasse di miracolosi prodotti che fanno ricrescere i capelli o di incredibili toccasana che fanno perdere peso stando seduti a guardare la TV, che ciò che recita l’ossessivo messaggio pubblicitario è pura verità.
Questa tecnica è stata adottata con successo in svariate occasioni. Così ai magistrati, colpevoli solo di aver ficcato il naso negli affari border line del Cavaliere, è stata affibbiata l’etichetta di comunisti o di collusi con le forze misteriose intenzionate a “sovvertire il voto popolare”, con l’evidente intenzione di scoraggiarne le iniziative e di criminalizzarne l’azione agli occhi della pubblica opinione. Analogamente, le imprese criminali di qualche banda di disperati albanesi o rumeni, sono tornate utili per inoculare nella pubblica opinione un sentimento di “emergenza sicurezza” che ha giustificato l’impiego dell’esercito nelle città, azzerando le distanze e la differenza di civiltà tra città come Genova e Caracas, o tra Milano e Rio de Janeiro. Poco è rilevante che, con totale spregio di coerenza, gli stessi artefici della decisione di inviare i lagunari a Parma siano gli stessi che hanno previsto di tagliare i fondi per Polizia, Carabinieri e Magistratura, così condannando la giustizia ad un parziale immobilismo per l’impossibilità persino di rifornire di carburante le auto di servizio o di acquistare la carta su cui scrivere verbali e sentenze.
In questo clima grottesco, - che senza ombra di dubbio si sono scelto gli elettori, anche se c’è da nutrire più di un dubbio sullo stato della loro lucidità al momento del voto, - ecco che questa propaganda diviene il paravento per perpetrare l’ennesimo vero scippo di legalità al Paese nell’interesse di colui che i poveri Italiani si sono scelti come Presidente del Consiglio. Il decreto sicurezza, necessario per fronteggiare l’escalation criminale ampiamente pompata, in realtà è il grimaldello per far passare l’ennesimo salvacondotto a favore di Berlusconi, inquisito per corruzione in atti giudiziari con tale avvocato Mills presso il tribunale di Milano. Non importa che la sua anticipazione abbia provocato le proteste dell’opposizione e il disappunto del Quirinale. Le truppe cammellate del Cavaliere e qualche vassallo a lui riconoscente per l’improvvisa posizione di prestigio conferitagli, grazie agli atti di servitù prestati, non hanno esitato a scendere in campo rispettivamente per difendere la legittimità del provvedimento e addirittura per sovvertire il calendario parlamentare, accordando allo scandaloso provvedimento una corsia preferenziale, sì da permettergli di essere approvato prima della eventuale sentenza di condanna cui è a rischio il Presidente del Consiglio.
Contemporaneamente, il Berlusconi , - al quale non difetta l’acume quando deve proteggere se stesso, - ha pensato bene di inventarsi un ulteriore strumento per tutelarsi da ogni guaio giudiziario, facendo promuovere al suo lanciere Alfano al Dicastero della Giustizia un disegno di legge che prevede l’imperseguibilità delle quattro più importanti cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio ed i due Presidenti delle Camere) in vigenza di mandato. Come dire, se va buca da una parte c’è sempre un altro paracadute pronto ad aprirsi, pur se più piccolo del precedente.
Anche in questo caso sono state del tutto irrilevanti le obiezioni degli eminenti costituzionalisti intervenuti sulla questione, che hanno fatto notare come il tema dovrebbe essere materia di legge di riforma costituzionale e non di legislazione ordinaria, mettendo con ciò in discussione la legittimità stessa dell’iniziativa.
C’è infine la questione delle intercettazioni telefoniche, che certamente va regolamentata per porre fini a tanti abusi verificatisi particolarmente negli ultimi anni. Se l’esigenza, tuttavia, assume carattere di urgente necessità al punto di promettere un provvedimento che inibisce l’uso dello strumento e minaccia l’assunzione di misure gravissime nei confronti di chi dovesse diffondere o pubblicare notizie provenienti dall’uso di tali strumenti, solo perché vi è un certo Saccà che intratteneva conversazioni telefoniche con Berlusconi a proposito di raccomandati in RAI o in merito a certe piacenti signore disposte a tutto pur di accaparrarsi un posto di lavoro o un ruolo, anche di secondo piano, in una qualche fiction televisiva, e quindi il pericolo che l’immagine del Presidente del Consiglio possa appannarsi a causa della pubblicazione di qualche marachella piccante di cui può esser stato protagonista, allora la manovra va respinta con tutti gli strumenti possibili, poiché l’obiettivo primario non è la tutela della privacy di chiunque come vorrebbe farsi credere, ma l’ennesimo tentativo di tutelare gli interessi inconfessabili del cittadino Berlusconi. Il quadro che ci si rappresenta è dunque assai compromesso sia nella chiarezza che nella legalità. Se in altre circostanze non si esiterebbe a parlare di interesse privato in atti d’ufficio, in questo caso si ha la percezione che un ombra si stia gradatamente delineando all’orizzonte, un ombra antica e minacciosa che nel secolo scorso ha gettato il Paese nella sventurata esperienza fascista e nella mortificazione dei diritti individuali e collettivi, in nome di un autoritarismo legalista e ottuso.
La ricerca esasperata del potere ed il suo esercizio non possono divenire la molla unica in base alla quale scattano le pulsioni degli individui, specialmente quando questi occupano posizioni pubbliche e di governo. Anzi è proprio su costoro che incombe l’onere di meglio esercitare i principi di democrazia ed il rispetto delle regole della civile convivenza, sottomettendosi al giudizio delle istituzioni, con rispetto e dignità, ogni qual volta ciò sia inevitabilmente necessario. L’esercizio sistematico del vilipendio di quelle istituzioni non solo serve a scardinare alla radice i valori dello stato e a disorientare la comunità, ma è sintomo palese di una propensione golpista verso la quale non può esserci alcuna accondiscendenza o giustificazione. La legge è tale ed uguale in tutta la Penisola e non prevede riserve per singoli cittadini, ancorché di Arcore o che abbiano fatto fortuna o abbiano conquistato posizioni di prestigio, dato che, nel bene o nel male, tali posizioni le hanno conquistate con le regole delle quali adesso sembrerebbe non vedano l’ora di liberarsi. Ed alla piazza, alla quale spesso ama rivolgersi Berlusconi per rammentare agli avversari la legittimità della sua investitura, si deve far ricorso se necessario, qualora, egli per primo, non rispetti quei principi sacri di democrazia. Né ci si illuda di poter impaurire coloro che nella democrazia credono con la presenza di quattro paracadutisti o con un drappello di lagunari. Fra qualche giorno, il 14 luglio, ricorrerà l’anniversario della presa della Bastiglia, simbolo della rivolta popolare contro l’oppressione delle caste nobiliari e del clero, ed è bene non dimenticare che, in difesa della democrazia, quella vera ed egualitaria di diritti e doveri dei cittadini, alla fine ci sarà sempre una Bastiglia intorno alla quale raccogliere il popolo contro le dittature e le tirannie.

martedì, luglio 01, 2008

I dolori del giovane Walter

Martedì, 1 luglio 2008
Chissà se il buon Veltroni avrà mai un amico di nome Guglielmo a cui scrivere le sue lettere accorate e sgomente sul tragico destino riservatogli dalla sorte. Il poveruomo tutto ha fatto negli ultimi sei mesi per conquistare il cuore di quella che dichiara la sua innamorata, questa povera Italia che forse non merita così tanto affetto, con promesse, blandimenti, giuramenti di moderazione, sopportazione delle offese da parte di altri pretendenti, disponibilità a dialogare con gli avversari e via dicendo, per ritrovarsi alla fine con il classico pugno di mosche in mano, confezionatogli peraltro da colui al quale aveva garantito piena volontà di dialogo, senza pregiudizio alcuno.
V’è da credere che Veltroni non ricorrerà alle estreme conseguenze così come il personaggio di Goethe, anche se l’Italia alla fine l’ha impalmata il valente Silvio, che almeno per un quinquennio la userà e ne abuserà, facendo così onore alla sua fama di sciupa femmine.
Alla luce dell’epilogo c’è da chiedersi se il giovane Walter sia comunque stato un insipiente sprovveduto, - cosa di per sé gravissima in politica, - o un furbetto, che aveva indossato improbabili panni da missionario, con tanto d’ulivo e crocefisso in mano, nel tentativo goffo di conquistare la credibilità dell’elettorato, che sapeva persa a causa delle impopolarissime iniziative assunte dal governo Prodi, di cui il suo partito era stato una solida stampella.
Crediamo di non sbagliare nel propendere per la seconda ipotesi. E non per dissimulato rispetto verso il personaggio – al quale politicamente preferiamo qualche gragario di secondo piano, ma con una storia ideologica più coerente e diamantina, - quanto per il fatto che la trama ordita dal giovane Walter era stata confezionata con grande intelligenza e, solo per errori forse imprevedibili, non ha centrato l’obiettivo. La strategia, infatti, era vincente: liberarsi di soci scomodi come Bertinotti, Pecoraro Scanio, Giordano, Diliberto e qualche nostalgico di Bettino Craxi, che tanto avevano contribuito a confondere la già confusa opinione pubblica, e presentarsi come il leader del partito alfiere del new deal della sinistra italiana, moderato, tollerante, deideologizzato, aperto a laici e cattolici, attento alle istanze di neo-poveri e neo-emarginati, operaista ed allo stesso tempo intento a strizzare l’occhio al capitalismo, anche quello duro e becero verso il quale, – a suo accreditato giudizio, - “occorre accantonare i pregiudizi, visto che tra le categorie lavoratrici non v’è più l’antagonismo retaggio di un passato buio e poco lungimirante, ma comunanza di obiettivi”.
Peccato che al momento della stesura del conto l’oste, contrariamente ad ogni attesa, ha presentato una fattura, che definire indigesta equivarrebbe a qualificare tossica una polpetta alla stricnina. Certo, Giordano e compagni sono spariti dalla scena politica, come cancellati con un colpo di gomma da un elenco scritto a matita, ma questa purga non è stata conseguenza della terapia Veltroni, quanto piuttosto il risultato di un sordido rancore accumolatosi nel corpo elettorale nei quasi due anni di squallore prodiano nei confronti proprio di coloro che, per i più, avrebbero dovuto essere garanti e promotori di maggiore equità, giustizia sociale, redistribuzione del reddito; chirurghi contro la cancrena della disoccupazione giovanile; leali verso gli elettori nell’impegno a rivedere i meccanismi di accesso alle pensioni; incisivi nella lotta alla precarietà dell’occupazione ed al lavoro nero; che invece si erano esercitati in ridicoli quanto inconcludenti e minacciosi proclami l’un contro l’altro e disperdevano risorse in guerre luddiste senza senso contro l’alta velocità o contro i lavori d’ampliamento della base militare NATO di Vicenza. Nel frattempo, mentre questi incoscienti ballavano il minuetto, la prostituzione e la delinquenzialità spicciola, - rispettivamente figlie molto spesso del bisogno e non di ninfomania patologica o propensione cromosomica alla criminalità, - dilagavano nel Paese insieme con la disperazione di migliaia di famiglie impossibilitate a doppiare la fine del mese ed il numero di morti sul lavoro ci rendeva sempre più simili alle realtà del terzo mondo.
Era ovvio che in questo inqualificabile clima di disprezzo assoluto per i problemi della gente, Lega, AN ed il nascituro PdL avessero facile terreno di propaganda e cantassero il de profundis alla coalizione Prodi.
E’ fuori discussione come la vendetta, quella cieca e scevra dal calcolo di convenienza, spesso sconfini nell’autolesionismo. Così gli Italiani, quelli che avevano riposto in Prodi la speranza di un ritorno alla normalità dopo l’uscita dal tunnel di un berlusconismo dedito esclusivamente a gestire i fattacci suoi, e del suo premier innanzitutto, hanno pensato bene a conti fatti come fosse meglio riaffidare il Paese all’Unto del Signore, che, nonostante i nepotismi sfrontati ed arroganti, si rappresentava come il male minore rispetto alla stupidità manifesta di una sinistra traditrice e imbecille.
Adesso di cosa si stupisca il giovane Walter è davvero incomprensibile. Accusa Berlusconi di aver rotto la corda del dialogo con l’ennesima iniziativa di far promulgare una legge che lo ponga al riparo dalle conseguenze dei suoi sporchi affari. Si aspettava forse Veltroni che il signor Berlusconi si rassegnasse all’idea che i suoi debiti in scadenza con la giustizia potessero evolvere in un’eventuale condanna alla carcerazione senza che, in itinere, non escogitasse l’ennesimo stratagemma? Pensava forse che il lupo avesse oltre a cambiare il pelo perso anche il vizio? Così la tregua con Berlusconi, davanti al tentativo di farsi una legge a proprio uso e consumo furbescamente spacciata per emergenza d’ordine pubblico, è miseramente durata lo spazio d’un mattino e Veltroni e congrega si son ritrovati smarriti a dover ridefinire una strategia d’interdizione a questo ennesimo Governo nepotista di nepotisti, che lo sdogani al diffidente giudizio della pubblica opinione, che, ormai rassegnata e del tutto incapace di sperare, annaspa nei ricordi di quanto si stava meglio quando si stava peggio, con Pomicino, Gava, De Lorenzo, - sì, persino lui, ché almeno non c’erano i ticket sulla sanità a saccheggiare le già debilitate finanze familiari.
Anche se l’attuale classe dirigente del PD sembra refrattaria alle mazzate, c’è da augurarsi che le durissime lezioni subite, - a quella delle politiche si è aggiunta la sconfitta senza appello delle amministrative, - accelerino una svolta nella strategia del partito, rendendolo più opposizione, magari più duro e intransigente, pronto a spiegare ai cittadini la ragione del suo dissenso ed energicamente impegnato con tutte le risorse a riacquisire il consenso ed il supporto della gente, piuttosto che perseverare in questa grottesca farsa di buonismo ed arrendevolezza, che fa apparire Di Pietro, unica voce di dissenso nella palude del conformismo di sinistra, un crociato velleitario assediato dai Saraceni e dalle stesse truppe che dovrebbero dagli man forte.