Politica: affarismo o gestione del bene comune?
Domenica, 30 novembre 2008
Se si cerca su Wikipedia, la libera enciclopedia di internet, il termine politica, si troverà la seguente definizione: “Secondo un'antica definizione scolastica, la politica è l'arte di governare le società. Il termine, di derivazione greca (da polis "πόλις", città), si applica tanto alla attività di coloro che si trovano a governare (per scelta popolare in democrazia, o per altre ragioni in altri sistemi), quanto al confronto ideale finalizzato all'accesso all'attività di governo o di opposizione. Volendo tentare una definizione [più articolata, ndr] potremmo dire che la politica (dal greco πολιτικος, politikós) è quell'attività umana, che si esplica in una collettività, il cui fine ultimo - da attuarsi mediante la conquista e il mantenimento del potere - è incidere sulla distribuzione delle risorse materiali e immateriali, perseguendo l'interesse di un soggetto, sia esso un individuo o un gruppo. La prima definizione risale ad Aristotele ed è legata al termine polis, la città, la comunità dei cittadini; politica, secondo il filosofo Ateniese, significava l'amministrazione della polis per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano. Altre definizioni, che si basano su aspetti peculiari della politica, sono state date da numerosi teorici: per Max Weber la politica non è che aspirazione al potere e monopolio legittimo dell'uso della forza; per David Easton essa è la allocazione di valori imperativi (cioè di decisioni) nell'ambito di una comunità; per Giovanni Sartori la politica è la sfera delle decisioni collettive sovrane”.
Come si tratta di un concetto assai complesso, che indica l’attività umana di gestione delle risorse collettive e l’indirizzo della loro godibilità in un dato agglomerato sociale. Tali modalità gestionali e di fruibilità sono diversificate dal modo con il quale la politica medesima esercita la sua sovranità, si costituisce in sistema politico di governo. Pertanto, avremo sistemi democratici, totalitari, monarchie, direttori e quant’altro in funzione di scelte rispondenti alle indicazioni della maggioranza dei cittadini o alla capacità di minoranze di imporre le proprie o all’affermazione della leadership di singoli soggetti.
Ciò che comunque sembrerebbe accomunare le categorie elencate sommariamente è il concetto di bene collettivo, che in una concezione aulica non può non intendersi che come beneficio distribuito a favore della più ampia moltitudine di cittadini compresi nell’aggregazione socio-geografica di riferimento.
Tale assunto si è tuttavia rivelato storicamente sostanzialmente teorico, poiché nella pratica è stato molto spesso contraddetto dalle vocazioni non sempre cristalline di chi ha esercito il potere delegato, esente da meccanismi di controllo o per negligenza dei cittadini o per delegittimazione dei meccanismi medesimi ove previsti, con la determinazione di conseguenti derive autorefenziali che hanno fortemente indebolito il vincolo primario tra governanti e governati.
Sebbene sia dagli albori della storia dell’uomo che chi detiene il potere o chi lo assume ne fa un esercizio al servizio del proprio privilegio, mai come nell’era moderna il governo della cosa pubblica è stato un vero proliferare di affarismi d’ogni sorta gestiti a vantaggio di un’élite, che attraverso il condizionamento di chi assume i provvedimenti, emana le leggi, dispone misure amministrative, determina condizioni “lecite” per accumulare denaro e prestigio ed accrescere l’originario potere di condizionamento. La stessa partecipazione agli organismi decisionali è divenuto un elemento di potere a beneficio di coloro che ne fanno parte, grazie al distorto uso di mezzi di compensazione di tale partecipazione, spesso esageratamente elevati e che prescindono da qualsiasi rapporto equilibrato tra impegno effettivo, risultato realizzato ed equità. Ciò ha generato un pernicioso sistema carrieristico-professionale della politica che dà a sua volta origine a guerre per bande per accaparrarsi i limitati posti nei consessi di rappresentanza, senza esclusione di colpi, che certamente pone al fondo della scala gerarchica le esigenze della collettività ed il rispetto dei mandati ricevuti, con l’evidenza di una caduta etico senza precedenti.
In questo quadro di imbarbarimento dell’etica democratica e politica, emerge una nuova deontologia, quella spregiudicata del malaffare e dell’opportunismo bieco, tradotta sapientemente con la metafora “la politica è l’arte del possibile”, che non sta a sottintendere la magnificazione delle virtù diplomatiche, quanto la capacità di barattare come in un mercato del bestiame qualunque nefandezza, qualunque sconcezza pur di realizzare un tornaconto per ciascuna delle parti in causa.
Questa constatazione, che suona come la campana a morto per l’ideologia, - quella nobile, intesa come analisi delle idee ed elaborazione di una personale visione del mondo, non come sovrastruttura dottrinale e indotta dal credo dominante, - ha in conclusione fatto precipitare le società moderne i una sorta di pragmatismo neo-empirista, in virtù del quale non è giusto ed equo ciò tende a realizzare un sistema ideale, ma è lecito ed utile solo ciò che corrisponde ai principi sanciti da chi detiene il potere, in una prospettiva monopolizzante che disconoscenze il valore del dissenso e la sua capacità di rappresentare una molla evolutiva per il conformismo di massa. Il potere dominante a questo punto assume il vero e proprio volto protervo del regime, l’espressione manichea dell’esercizio della ragione di chi governa, che nel massimo delirio della sua autoreferenzialità assume come nemico pronto a sovvertire dell’ordine costituito chiunque esprima dissenso dalla sua linea, con ciò soffocando ogni libertà.
E’evidente che davanti a questa degenerazione nell’esercizio del potere che parlare di democrazia ha scarso se non del tutto vuoto senso, poiché il vero problema è oggi quello del ripristino dei meccanismi minimi di controllo del sistema politico e la riattribuzione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti e di conferire loro mandati vincolanti. E sino a quando questo processo non sarà compiuto, rompendo lo straripante potere delle oligarchie affaristiche che scelgono avulsamente i rappresentanti, la loro posizione in lista di eleggibilità, lo spazio della loro autonomia operativa e quanto interferisca con le rispettive prerogative, il sistema è destinato a degradare inesorabilmente, relegando gli individui al ruolo di sudditi e non di cittadini.
Come si tratta di un concetto assai complesso, che indica l’attività umana di gestione delle risorse collettive e l’indirizzo della loro godibilità in un dato agglomerato sociale. Tali modalità gestionali e di fruibilità sono diversificate dal modo con il quale la politica medesima esercita la sua sovranità, si costituisce in sistema politico di governo. Pertanto, avremo sistemi democratici, totalitari, monarchie, direttori e quant’altro in funzione di scelte rispondenti alle indicazioni della maggioranza dei cittadini o alla capacità di minoranze di imporre le proprie o all’affermazione della leadership di singoli soggetti.
Ciò che comunque sembrerebbe accomunare le categorie elencate sommariamente è il concetto di bene collettivo, che in una concezione aulica non può non intendersi che come beneficio distribuito a favore della più ampia moltitudine di cittadini compresi nell’aggregazione socio-geografica di riferimento.
Tale assunto si è tuttavia rivelato storicamente sostanzialmente teorico, poiché nella pratica è stato molto spesso contraddetto dalle vocazioni non sempre cristalline di chi ha esercito il potere delegato, esente da meccanismi di controllo o per negligenza dei cittadini o per delegittimazione dei meccanismi medesimi ove previsti, con la determinazione di conseguenti derive autorefenziali che hanno fortemente indebolito il vincolo primario tra governanti e governati.
Sebbene sia dagli albori della storia dell’uomo che chi detiene il potere o chi lo assume ne fa un esercizio al servizio del proprio privilegio, mai come nell’era moderna il governo della cosa pubblica è stato un vero proliferare di affarismi d’ogni sorta gestiti a vantaggio di un’élite, che attraverso il condizionamento di chi assume i provvedimenti, emana le leggi, dispone misure amministrative, determina condizioni “lecite” per accumulare denaro e prestigio ed accrescere l’originario potere di condizionamento. La stessa partecipazione agli organismi decisionali è divenuto un elemento di potere a beneficio di coloro che ne fanno parte, grazie al distorto uso di mezzi di compensazione di tale partecipazione, spesso esageratamente elevati e che prescindono da qualsiasi rapporto equilibrato tra impegno effettivo, risultato realizzato ed equità. Ciò ha generato un pernicioso sistema carrieristico-professionale della politica che dà a sua volta origine a guerre per bande per accaparrarsi i limitati posti nei consessi di rappresentanza, senza esclusione di colpi, che certamente pone al fondo della scala gerarchica le esigenze della collettività ed il rispetto dei mandati ricevuti, con l’evidenza di una caduta etico senza precedenti.
In questo quadro di imbarbarimento dell’etica democratica e politica, emerge una nuova deontologia, quella spregiudicata del malaffare e dell’opportunismo bieco, tradotta sapientemente con la metafora “la politica è l’arte del possibile”, che non sta a sottintendere la magnificazione delle virtù diplomatiche, quanto la capacità di barattare come in un mercato del bestiame qualunque nefandezza, qualunque sconcezza pur di realizzare un tornaconto per ciascuna delle parti in causa.
Questa constatazione, che suona come la campana a morto per l’ideologia, - quella nobile, intesa come analisi delle idee ed elaborazione di una personale visione del mondo, non come sovrastruttura dottrinale e indotta dal credo dominante, - ha in conclusione fatto precipitare le società moderne i una sorta di pragmatismo neo-empirista, in virtù del quale non è giusto ed equo ciò tende a realizzare un sistema ideale, ma è lecito ed utile solo ciò che corrisponde ai principi sanciti da chi detiene il potere, in una prospettiva monopolizzante che disconoscenze il valore del dissenso e la sua capacità di rappresentare una molla evolutiva per il conformismo di massa. Il potere dominante a questo punto assume il vero e proprio volto protervo del regime, l’espressione manichea dell’esercizio della ragione di chi governa, che nel massimo delirio della sua autoreferenzialità assume come nemico pronto a sovvertire dell’ordine costituito chiunque esprima dissenso dalla sua linea, con ciò soffocando ogni libertà.
E’evidente che davanti a questa degenerazione nell’esercizio del potere che parlare di democrazia ha scarso se non del tutto vuoto senso, poiché il vero problema è oggi quello del ripristino dei meccanismi minimi di controllo del sistema politico e la riattribuzione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti e di conferire loro mandati vincolanti. E sino a quando questo processo non sarà compiuto, rompendo lo straripante potere delle oligarchie affaristiche che scelgono avulsamente i rappresentanti, la loro posizione in lista di eleggibilità, lo spazio della loro autonomia operativa e quanto interferisca con le rispettive prerogative, il sistema è destinato a degradare inesorabilmente, relegando gli individui al ruolo di sudditi e non di cittadini.
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