Crisi economica e fallimento dell’economia di mercato
Martedì, 18 novembre 2008
Il perdurare della crisi economica internazionale sta sempre più creando le condizioni per una fase estremamente negativa per i singoli paesi, oggi in evidente fase recessiva.
L’economia non si espande più, anzi è in recessione, è fortissime ripercussioni si registrano sulle previsioni di PIL, che determinano una spirale negativa anche sulle prospettive di medio termine di invertirne la tendenza.
Non si tratta di semplice stagnazione per il processo economico, poiché le aspettative negative inducono i comportamenti di imprese e consumatori rispettivamente ad una contrazione della produzione e ad una limitazione della spesa, con l’intento di fronteggiare il costo dei fattori di produzione, - materie prime, energia, costo del lavoro, - e, per i cittadini, di dirottare la liquidità residua alla spesa primaria con criteri progressivamente selettivi. Di fronte a questa situazione, nella quale le aziende per vendere, costrette a diminuire prezzi e ricavi, devono assumere provvedimenti di contrazione d’organico, i consumatori vedono il reddito disponibile contrarsi progressivamente a causa della perdita di posti di lavoro e di uno scenario fiscale che mantiene inalterata la sua pressione. Il circolo vizioso, dunque, si stringe come un cappio intorno al collo dell’economia sino a determinarne il soffocamento.
Il processo che si determina assume il nome di deflazione, che ha caratteristiche sostanzialmente inverse a quello inflattivo, ma con effetti deleteri sull’economia di un paese altrettanto perniciosi e necessari di interventi correttivi da parte delle autorità pubbliche, su cui grava l’onere di ricreare condizioni di sviluppo e di rilancio.
La crisi attuale è in ogni caso contraddistinta da un’ulteriore elemento di distonia, poiché ha preso origine dalle forti criticità del sistema finanziario e bancario, a cui tradizionalmente spetterebbe l’onere di innescare comportamenti virtuosi, trainanti del processo di rilancio. Se in fase deflattiva le aziende ricorrono meno al sistema creditizio, a causa la minore propensione a investimenti produttivi, v’è da registrare nella situazione corrente un’accresciuta indisponibilità delle banche ad allargare la propria esposizione, dato che la crisi ha preso origine dal fallimento delle politiche di facilitazione del credito attuate particolarmente dagli istituti bancari americani, sull’onda di un gonfiamento artificioso dei prezzi degli immobili. L’esplosione della cosiddetta bolla speculativa immobiliare ha determinato una reazione a catena, - plausibile in un sistema a globalizzazione planetaria, - che ha portato al fallimento di importanti istituti di credito, dovutosi dichiarare insolventi causa il meccanismo sbilanciato esposizioni-ricavi venutosi a creare. Questo fatto, di per sé dirompente, intervenuto in una situazione mondiale di recessione strisciante, - incremento costante di beni e servizi, aumento di materie prime e prodotti energetici, tendenza al calo occupazionale nei paesi ad economia trainante, ecc., - ha funzionato da catalizzatore del processo di implosione economica.
Ciò che comunque connota la situazione in atto è che, di fondo, ci si trova d’innanzi all’ennesima crisi di un capitalismo incapace di generare condizioni di sviluppo equilibrato e duraturo. Si tratta del sostanziale fallimento delle teorie di sviluppo affidate alle regole di libero mercato, che, nonostante tutto, sembrano ancora radicate nel credo di parecchi capi di governo. E questa non vuole essere un’affermazione preconcetta, poiché all’indomani del G20 di Washington, dove sono state varate misure a sostegno dell’economia dei paese partecipanti, la risposta del sistema reale è stata di segno negativo. Come dire che, le misure preannunciate, non sono stata ritenute sufficienti a determinare la necessaria inversione di tendenza.
Ciò nonostante, Bush, anfitrione del meeting mondiale e presidente di un paese che nel bene e nel male è locomotiva del mondo, ha tenuto a precisare che le misure promesse non avranno interferenza alcuna con le regole del libero mercato, sebbene a qualche ora di distanza la Citicorp, - altro colosso creditizio del Nuovo Continente, - abbia annunciato il licenziamento di 50.000 dipendenti e la General Motors, seconda azienda mondiale nel settore automobilistico, abbia lasciato intendere che sono forti le probabilità di chiusura dei suoi stabilimenti.
La domanda da porsi a questo punto è quale sia la ricetta giusta per avviarsi verso l’uscita da una crisi che non ha pari negli ultimi 80 anni di storia dell’umanità. Le risposte non sono agevoli, non fosse perché lo scenario denota enormi complessità e non è possibile la definizione di una cura che s’adatti ad ogni categoria d’ammalato. Certamente un primo provvedimento dovrebbe tendere a sostenere l’occupazione, se non ad aumentarla, attraverso politiche di alleggerimento degli oneri per le aziende ed il varo di investimenti in opere pubbliche di medio-lungo termine, che avrebbero l’effetto di creare un primo propulsore del sistema economico. Un secondo provvedimento dovrebbe interessare il sistema di accesso al credito, con ribassi dei tassi ufficiali di sconto e con la concessione di mutui creditizi ed a tasso agevolato a lunga scadenza alle imprese che investono in innovazione ed occupazione. Un terzo provvedimento dovrebbe riguardare il coinvolgimento diretto dello stato nelle aziende strategiche, magari a tempo, che svincoli in parte le proprietà private dall’ossessione di una profittabilità sostenuta ed immediata. Un quarto provvedimento dovrebbe riguardare il governo del mercato dei beni di prima necessità, con interventi di calmierazione dei prezzi, rimasti per troppo tempo fuori da ogni controllo. Infine, una revisione dei meccanismi di tassazione diretta avrebbe un effetto salutare sul sistema economico, costituendo in qualche misura un positivo viatico per il rilancio dei consumi, grazie all’aumento del reddito disponibile.La ricetta, che in buona parte potrebbe finanziarsi attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari di stato a lunga scadenza, non ha certamente la pretesa di rappresentarsi risolutiva, dato che la sua efficacia dovrebbe preventivamente vagliarsi avendo a disposizione dati molto più analitici di quelli disponibili in queste circostanze; tuttavia, potrebbe rappresentare un buon contributo d’indirizzo. Certo, - per restare nel nostro ambito nazionale, - sino a quando davanti alle emergenze i nostri governati risponderanno mandando a casa oltre 80.000 insegnanti, tagliando la spesa per la ricerca, avvilendo le poste per investimenti pubblici e continuando a ritenere il mercato un tabù dal quale prendere le distanze, in un contesto europeo nel quale a dispetto della vera integrazione si procede a velocità differenziata tra i suoi membri e la maggiore preoccupazione è di salvaguardare il proprio benessere o di limitare i sacrifici per i propri cittadini, non c’è da sperare granché sulla possibilità di raddrizzare una situazione di sfascio economico e sociale. L’euro ha senza dubbio prodotto positive sinergie tra i paesi che vi hanno aderito, ma allo stesso tempo ha imposto, a chi era affetto da qualche disturbo agli arti inferiori, di correre per mettersi al pari con chi queste carenze strutturali non aveva. Ed il futuro delle nostre generazioni non può venire sacrificato in nome di limiti di disavanzo, che, in periodi di magra assumono solo un pittoresco significato di principio e si rivelano solo una mesta pratica per il razionamento delle gallette a chi sta nella trincea. Se le basi fondanti dell’Unione, previste in tempi non sospetti, non reggono di fronte all’incalzare di una crisi senza precedenti, si abbia il coraggio di mutare le regole, considerato che l’Europa Unita è nata per il benessere dei suoi cittadini e non per esaltarne le condizioni di triste povertà. Infine, la vicenda, dalle quale è certo si verrà fuori pur senza poterne intravvedere al momento le condizioni, serva da insegnamento per rendersi più indipendenti nelle scelte dai condizionamenti d’oltre oceano e per rifondare i principi su cui si basa un capitalismo opportunisticamente liberista, ma, di fatto, periodicamente bisognoso di stampelle.
Il perdurare della crisi economica internazionale sta sempre più creando le condizioni per una fase estremamente negativa per i singoli paesi, oggi in evidente fase recessiva.
L’economia non si espande più, anzi è in recessione, è fortissime ripercussioni si registrano sulle previsioni di PIL, che determinano una spirale negativa anche sulle prospettive di medio termine di invertirne la tendenza.
Non si tratta di semplice stagnazione per il processo economico, poiché le aspettative negative inducono i comportamenti di imprese e consumatori rispettivamente ad una contrazione della produzione e ad una limitazione della spesa, con l’intento di fronteggiare il costo dei fattori di produzione, - materie prime, energia, costo del lavoro, - e, per i cittadini, di dirottare la liquidità residua alla spesa primaria con criteri progressivamente selettivi. Di fronte a questa situazione, nella quale le aziende per vendere, costrette a diminuire prezzi e ricavi, devono assumere provvedimenti di contrazione d’organico, i consumatori vedono il reddito disponibile contrarsi progressivamente a causa della perdita di posti di lavoro e di uno scenario fiscale che mantiene inalterata la sua pressione. Il circolo vizioso, dunque, si stringe come un cappio intorno al collo dell’economia sino a determinarne il soffocamento.
Il processo che si determina assume il nome di deflazione, che ha caratteristiche sostanzialmente inverse a quello inflattivo, ma con effetti deleteri sull’economia di un paese altrettanto perniciosi e necessari di interventi correttivi da parte delle autorità pubbliche, su cui grava l’onere di ricreare condizioni di sviluppo e di rilancio.
La crisi attuale è in ogni caso contraddistinta da un’ulteriore elemento di distonia, poiché ha preso origine dalle forti criticità del sistema finanziario e bancario, a cui tradizionalmente spetterebbe l’onere di innescare comportamenti virtuosi, trainanti del processo di rilancio. Se in fase deflattiva le aziende ricorrono meno al sistema creditizio, a causa la minore propensione a investimenti produttivi, v’è da registrare nella situazione corrente un’accresciuta indisponibilità delle banche ad allargare la propria esposizione, dato che la crisi ha preso origine dal fallimento delle politiche di facilitazione del credito attuate particolarmente dagli istituti bancari americani, sull’onda di un gonfiamento artificioso dei prezzi degli immobili. L’esplosione della cosiddetta bolla speculativa immobiliare ha determinato una reazione a catena, - plausibile in un sistema a globalizzazione planetaria, - che ha portato al fallimento di importanti istituti di credito, dovutosi dichiarare insolventi causa il meccanismo sbilanciato esposizioni-ricavi venutosi a creare. Questo fatto, di per sé dirompente, intervenuto in una situazione mondiale di recessione strisciante, - incremento costante di beni e servizi, aumento di materie prime e prodotti energetici, tendenza al calo occupazionale nei paesi ad economia trainante, ecc., - ha funzionato da catalizzatore del processo di implosione economica.
Ciò che comunque connota la situazione in atto è che, di fondo, ci si trova d’innanzi all’ennesima crisi di un capitalismo incapace di generare condizioni di sviluppo equilibrato e duraturo. Si tratta del sostanziale fallimento delle teorie di sviluppo affidate alle regole di libero mercato, che, nonostante tutto, sembrano ancora radicate nel credo di parecchi capi di governo. E questa non vuole essere un’affermazione preconcetta, poiché all’indomani del G20 di Washington, dove sono state varate misure a sostegno dell’economia dei paese partecipanti, la risposta del sistema reale è stata di segno negativo. Come dire che, le misure preannunciate, non sono stata ritenute sufficienti a determinare la necessaria inversione di tendenza.
Ciò nonostante, Bush, anfitrione del meeting mondiale e presidente di un paese che nel bene e nel male è locomotiva del mondo, ha tenuto a precisare che le misure promesse non avranno interferenza alcuna con le regole del libero mercato, sebbene a qualche ora di distanza la Citicorp, - altro colosso creditizio del Nuovo Continente, - abbia annunciato il licenziamento di 50.000 dipendenti e la General Motors, seconda azienda mondiale nel settore automobilistico, abbia lasciato intendere che sono forti le probabilità di chiusura dei suoi stabilimenti.
La domanda da porsi a questo punto è quale sia la ricetta giusta per avviarsi verso l’uscita da una crisi che non ha pari negli ultimi 80 anni di storia dell’umanità. Le risposte non sono agevoli, non fosse perché lo scenario denota enormi complessità e non è possibile la definizione di una cura che s’adatti ad ogni categoria d’ammalato. Certamente un primo provvedimento dovrebbe tendere a sostenere l’occupazione, se non ad aumentarla, attraverso politiche di alleggerimento degli oneri per le aziende ed il varo di investimenti in opere pubbliche di medio-lungo termine, che avrebbero l’effetto di creare un primo propulsore del sistema economico. Un secondo provvedimento dovrebbe interessare il sistema di accesso al credito, con ribassi dei tassi ufficiali di sconto e con la concessione di mutui creditizi ed a tasso agevolato a lunga scadenza alle imprese che investono in innovazione ed occupazione. Un terzo provvedimento dovrebbe riguardare il coinvolgimento diretto dello stato nelle aziende strategiche, magari a tempo, che svincoli in parte le proprietà private dall’ossessione di una profittabilità sostenuta ed immediata. Un quarto provvedimento dovrebbe riguardare il governo del mercato dei beni di prima necessità, con interventi di calmierazione dei prezzi, rimasti per troppo tempo fuori da ogni controllo. Infine, una revisione dei meccanismi di tassazione diretta avrebbe un effetto salutare sul sistema economico, costituendo in qualche misura un positivo viatico per il rilancio dei consumi, grazie all’aumento del reddito disponibile.La ricetta, che in buona parte potrebbe finanziarsi attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari di stato a lunga scadenza, non ha certamente la pretesa di rappresentarsi risolutiva, dato che la sua efficacia dovrebbe preventivamente vagliarsi avendo a disposizione dati molto più analitici di quelli disponibili in queste circostanze; tuttavia, potrebbe rappresentare un buon contributo d’indirizzo. Certo, - per restare nel nostro ambito nazionale, - sino a quando davanti alle emergenze i nostri governati risponderanno mandando a casa oltre 80.000 insegnanti, tagliando la spesa per la ricerca, avvilendo le poste per investimenti pubblici e continuando a ritenere il mercato un tabù dal quale prendere le distanze, in un contesto europeo nel quale a dispetto della vera integrazione si procede a velocità differenziata tra i suoi membri e la maggiore preoccupazione è di salvaguardare il proprio benessere o di limitare i sacrifici per i propri cittadini, non c’è da sperare granché sulla possibilità di raddrizzare una situazione di sfascio economico e sociale. L’euro ha senza dubbio prodotto positive sinergie tra i paesi che vi hanno aderito, ma allo stesso tempo ha imposto, a chi era affetto da qualche disturbo agli arti inferiori, di correre per mettersi al pari con chi queste carenze strutturali non aveva. Ed il futuro delle nostre generazioni non può venire sacrificato in nome di limiti di disavanzo, che, in periodi di magra assumono solo un pittoresco significato di principio e si rivelano solo una mesta pratica per il razionamento delle gallette a chi sta nella trincea. Se le basi fondanti dell’Unione, previste in tempi non sospetti, non reggono di fronte all’incalzare di una crisi senza precedenti, si abbia il coraggio di mutare le regole, considerato che l’Europa Unita è nata per il benessere dei suoi cittadini e non per esaltarne le condizioni di triste povertà. Infine, la vicenda, dalle quale è certo si verrà fuori pur senza poterne intravvedere al momento le condizioni, serva da insegnamento per rendersi più indipendenti nelle scelte dai condizionamenti d’oltre oceano e per rifondare i principi su cui si basa un capitalismo opportunisticamente liberista, ma, di fatto, periodicamente bisognoso di stampelle.
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