domenica, febbraio 08, 2009

Eluana Englaro. Storia di ayatollah e piccoli dittatori

Domenica, 8 febbraio 2009
Eluana Englaro. Un nome balzato tristemente agli onori della cronaca senza alcuna volontà dell’interessata né della sua famiglia, ma che per la vicenda che la riguarda è divenuto il simbolo di una battaglia a metà strada tra l’etica ed il legale, che sta coinvolgendo la politica, la scienza, la Chiesa e la pubblica opinione in un dibattito tanto appassionante quanto intriso di ipocrisie e bigottismi in qualche caso impensabili.
Eluana è una giovane di Lecco che da diciassette lunghi anni è in coma irreversibile a causa di un gravissimo incidente stradale nel corso del quale subì la frattura della seconda vertebra cerebrale ed un gravissimo trauma cranico con lesione della corteccia cerebrale. Sin dalle prime ore dopo il ricovero, le sue condizioni appaiono disperanti e, infatti, nonostante tutto il tempo trascorso da allora, ancora oggi la giovane è in stato vegetativo irreversibile e non ha mai ripreso conoscenza neanche per un attimo.
La BMA (British Medical Association) e l’AAN (American Accademy of Neurology), templi mondiali per lo studio di patologie neurologiche come quella di Eluana, sostengono da sempre che, trascorsi dodici mesi dal verificarsi di un evento traumatico con postumi comatosi senza aver registrato il pur minimo segnale di regresso della patologia, ci si debba considerare di fronte ad un caso con probabilità nulle di recupero e, pertanto, sia da ritenere del tutto legittimo il ricorso alla sospensione della nutrizione forzata e dell’idratazione artificiale del paziente. Dello stesso avviso è la maggior parte della comunità medica italiana, quantunque nel nostro Paese siano pochi coloro che osano affermare apertamente che la continuazione delle cure in questi casi costituisce solo un inutile accanimento terapeutico.
Eppure Eluana continua a vivere, - se mai di vita si possa parlare, nel suo stato, e non più, crudemente, di semplice esistenza. Il dottor Carlo Alberto Defanti, primario del reparto di neurologia del Niguarda di Milano, che ha avuto in cura Eluana, ebbe a dichiarare: «Malgrado non soffra direttamente per il suo stato, dovrebbe essere chiaro a tutti che la sua condizione è priva di dignità. Di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, totalmente nelle mani del personale che la assiste. La sua condizione è penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di un risveglio e per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne compiutamente il lutto». Tant’è che nel lontano ’97, su richiesta del padre di Eluana, Peppino, divenuto tra l’altro tutore della figlia, Defanti stila un referto che recita: «In considerazione del lunghissimo intervallo trascorso dall'evento traumatico, si può formulare una prognosi negativa quanto a un recupero della vita cognitiva», con il quale si dovrebbe poter scrivere la parola fine alle sofferenze della famiglia ed alle condizioni disumane della giovane.
Da allora sono passati dodici terribili anni alla ricerca di una soluzione legale che consenta di “staccare la spina”, e nessuno è certamente in grado persino d’immaginare lo strazio di una famiglia condannata a vivere al cospetto di una figlia ridotta in quelle condizioni e senza alcuna speranza di recupero. Men che meno sono in grado di immaginarlo quanti per mera presa di posizione o appellandosi a futili principi etici hanno ostacolato con ogni mezzo i tentativi di Peppino Englaro di rispondere positivamente a quel che sarebbe stato il probabile desiderio della stessa figlia se avesse avuto contezza delle sue condizioni.
In questa guerra senza quartiere contro il sacrosanto diritto all’autodeterminazione, com’era d’altra parte prevedibile, è scesa in campo anche la Chiesa, che tanto ostinatamente quanto incapace di interpretare le vere sofferenze, si batte con spietatezza altrettanto esasperante quanto le inutili terapie cui è sottoposta Eluana contro l’interruzione della sua alimentazione forzata, sostenendo che una tale pratica equivarrebbe a legittimare nel mondo cattolico l’ammissibilità dell’eutanasia e la caduta del principio di sacralità della vita.
E in questa crociata per negare un diritto, - peraltro riconosciuto alla famiglia Englaro anche da un recente dispositivo della Corte di Cassazione, - la Chiesa è riuscita a trascinare anche la politica, con il capo del governo Silvio Berlusconi in trincea contro il Presidente della Repubblica, che ha negato la sua autorizzazione ad un decreto legge promulgato in fretta e furia proprio per vanificare la sentenza della Suprema Corte e manifestare da parte dell’esecutivo il vassallaggio alle imposizione vaticane.
Tuttavia, mentre le posizioni di Ratzinger e delle gerarchie ecclesiastiche, per quanto massimaliste e di chiara matrice ideologica, appaiono comprensibili, non può dirsi altrettanto delle motivazioni addotte da Berlusconi a sostegno del provvedimento bocciato dal Capo dello Stato. La sua iniziativa appare molto di più un atto di ipocrisia, rivolto a riconquistare un accredito nel mondo cattolico, nel quale la sua immagine si è da tempo appannata, che non un genuino sentimento di rispetto di discutibili principi etici. A confermare questo sospetto vi è la scomposta reazione al preannunciato diniego di Napolitano, al quale il premier ha risposto con l’invio in Senato di un disegno di legge con procedura d’urgenza, contenente le norme previste nel decreto bocciato, sollevando così un conflitto tra poteri dello stato mai visto prima d’ora. Le sue dichiarazioni, inoltre, contro una «Carta Costituzionale nata sotto l’egida comunista e per questa ragione necessaria di una revisione immediata con il ricorso al voto popolare, se opportuno» la dice lunga sulla stizza rancorosa con la quale Berlusconi ha subito ciò che considera l’ennesimo schiaffo in pieno viso da parte del Colle, lui che ha scambiato le stanze del governo del Paese per le cantine di casa sua e crede di potervi intraprendere impunito qualunque iniziativa.
Al di là delle conclusioni cui perverrà la vicenda, resta l’amara considerazione che l’assenza di una vera capacità di capire la radice della sofferenza o, peggio, profittare delle altrui pene per bieco interesse o per difendere principi privi della pur minima aderenza alla realtà, anziché nobilitare il senso della vita ed accostarci con rinnovata fierezza al rispetto dei valori dell’etica e della morale, ci fa precipitare nel baratro di una barbarie nella quale non c’è rispetto per il dolore e per lo strazio; un mondo in cui ayatollah, pervasi da oscurantistico fondamentalismo, e minuscoli aspiranti dittatori ritengono di poter dettare senza alcun contraddittorio le regole dell’umana convivenza ed imporle con il disprezzo anche per la pietà.

Gli eroi di cartapesta


Domenica, 8 febbraio 2009
Fra qualche ora si compirà il primo mese di gestione CAI della nuova Alitalia e anche sulla scorta dell’audizione parlamentare di Rocco Sabelli e Roberto Colaninno in Senato, rispettivamente AD e Presidente della compagnia aerea, si cominciano a tracciare i dati poco confortanti di un’operazione di acquisizione che ben lascia intendere come i “patrioti” e il premier, sponsor dell’intera vicenda, abbiano fatto i conti senza il classico oste.
La nuova Alitalia, nata dalla fusione con AirOne e Volare Web e le ceneri della Compagnia di Bandiera, denuncia un calo del 7% del load factor, cioè del tasso critico di riempimento di ogni singolo aeromobile, sotto al quale un velivolo commerciale opera in perdita su una singola tratta. Tale tasso è, infatti, passato dal 50, già basso e preoccupante per la remunerazione della singola tratta, al 43%, che la dice lunga sulle capacità della nuova Compagnia di realizzare il pareggio in un anno o poco più come preventivato.
A dar credito ai dati forniti dalla SEA o dell’associazione dei piloti, poi, le percentuali dichiarate da Colaninno e Sabelli sarebbero del tutto ottimistiche se riferite ai movimenti registrati negli aeroporti milanesi, per i quali il load factor scende al 40% su Linate e addirittura al 30% su Malpensa. L’ANPAC, denuncia invece un tasso di riempimento medio del 39%, che, come si evince, è ben lontano dal 43% dichiarato dai vertici di CAI. In ogni caso, con i dati di Milano, i cui scali costituiscono i cosiddetti key point del traffico Alitalia nazionale e che potano il load factor al 37% medio, è ben difficile poter assumere l’attendibilità del 43% dichiarato da Sabelli.
Un raffronto con i dati di traffico dell’analogo periodo 2008, senza tener conto del dato Volare Web, dicono che il load factor integrato di Alitalia ed AirOne era del 62,6% (64,6 % AZ e 48,5% AP), che evidenzierebbe una perdita di oltre 20 punti percentuali su base annua.
Naturalmente il discorso sull’indice di riempimento aeromobile può rappresentare un parametro poco comprensibile ai non addetti ai lavori e, tra l’altro, non è un dato applicabile indifferentemente a qualunque compagnia aerea, poiché la sua significatività dipende da molteplici fattori: natura della tratta (internazionale, intercontinentale, regionale), tipologia aeromobile e disponibilità posti passeggeri (aerei piccoli, medi, grandi), composizione equipaggio, quota costo esercizio tratta (carburante, manutenzione, diritti aeroportuali e utilizzo infrastrutture di scalo), aerovia di crociera (altezza di volo, direttrice di navigazione), grond service (handling, biglietteria, assistenza passeggeri), ecc., la cui aggregazione costituisce il cosiddetto break-even, sotto al quale un singolo volo opera in attivo o in perdita. Quantunque non siano disponibili i dati di cui sopra riferiti alla nuova Alitalia, c’è da credere che, se a dati 2008 sulla tratta più remunerativa Roma-Milano-Roma, AZ ed AP accumulavano perdite significative con un load factor medio del 62,6%, tali perdite stiano divenendo voragini spaventose persino con l’ottimistico 43% comunicato da Sabelli.
Ma a cosa è dovuto l’evidente naufragio del Piano Fenice che aveva spino gli intrepidi eroi di CAI ad imbarcarsi nell’operazione Alitalia? La risposta non è difficile se si pensa che l’avidità del profitto a breve, - supportata da una scandalosa politica protezionistica voluta dal governo Berlusconi, che ha sostanzialmente concesso il monopolio degli slot tra Fiumicino e Milano alla nuova Alitalia, - ha portato i lungimiranti amministratori di CAI a fissare tariffe di trasporto estremamente elevate, che hanno convinto i passeggeri ad optare per il collegamento ferroviario tra le due città, più funzionale e meno oneroso, - peraltro migliorato con l’avvio dell’alta velocità nello scorso dicembre, - o a privilegiare hub e compagnie straniere per i collegamenti internazionali e intercontinentali, decisamente più competitive sul piano delle tariffe. A questo va aggiunta la pesantissima caduta di immagine e di affidabilità di Alitalia nel periodo della lunga ed estenuante trattativa per il passaggio a CAI, contraddistinto da disservizi indicibili, che ha fidelizzato i passeggeri presso compagnie aeree straniere decisamente più attente alla qualità del servizio.
C’è da credere che adesso prenderanno spunto da questa situazione tutt’altro che rosea nuove polemiche su fannulloni e sui costi derivanti dal livello degli organici imposti a CAI nel corso delle durissime trattative sindacali, perché mai si ammetteranno da parte del management l’incompetenza e l’approssimazione frutto dell’inesperienza nel settore, con le quali si è disegnato un piano industriale senza testa e gambe.
Nel frattempo un risultato un risultato è stato raggiunto: al prossimo carnevale di Viareggio sarà possibile avere un nuovo carro con personaggi inediti, gli eroi-patrioti che hanno salvato l’italianità, felici e sorridenti per i risultati delle loro ardua impresa, in smagliante cartapesta.
(nell'immagine, alcuni degli eroi-patrioti dell'operazione CAI-Alitalia, in veste Banda Bassotti)

sabato, febbraio 07, 2009

L’Italia che aspetta Godot


Venerdì, 6 febbraio 2009
Pressione fiscale al 43,3%, disoccupazione cresciuta negli ultimi 2 mesi di oltre un punto percentuale, inflazione oltre il 3% con un +1,6% nel solo mese di gennaio, politica della scuola e dell’università da ventennio fascista, varo di leggi a misura di assoluta impunità per il capo del governo, accanimento senza precedenti contro l’indipendenza della magistratura e previsioni di riforma che aggioghi la giustizia all’esecutivo, ventilata cancellazione dello strumento delle intercettazioni telefoniche anche per le indagini sui reati più gravi, riforma del sistema elettorale con sbarramento al 4% per cancellare definitivamente il pungolo del dissenso, ma con conservazione del diniego di esprimere alcuna preferenza, privatizzazione Alitalia con accollo di un debito imprecisato sul gobbo dei cittadini (la stima cresce ogni giorno e adesso si parla di oltre 3,5 miliardi) e regalia del nome storico ad un manipolo di affaristi-eroi, attacco senza precedente all’unità sindacale ed alla rappresentatività del sindacato più significativo, nuove minacce di revisione del sistema pensionistico, dileggio di milioni di lavoratori pubblici, collasso dei bilanci comunali, aggravio del deficit pubblico di oltre un punto percentuale, revisione al ribasso (dallo 0,5 al 2%) della contrazione del PIL, sterile quanto inconcludente ed infinito dibattito sul federalismo fiscale, accanimento senza precedente sulla questione immigrazione.
Questi sono in sintesi, - e ci scusiamo se ne abbiamo scordato qualcuno, - i temi edificanti sui quali il provetto governo Berlusconi ha fatto trascorrere ben 9 mesi dalla sua elezione.
Ve n’è abbastanza per convincere anche i più acerrimi oppositori e delusi del precedente governo Prodi sul fatto che la musica non è cambiata. Anzi, se cambiamento si è verificato, è stato solo in peggio, tenuto conto che Prodi e soci sono stati rispediti a casa per eccesso di rissosità e immobilismo, mentre nel caso del neo-salvatore della patria Silvio Berlusconi l’orologio della storia sembra aver preso a girare vorticosamente all’incontrario, con l’intento di condurci nel baratro di una democrazia Sudamericana, nelle quali il potere si confonde con l’arbitrio e chi comanda può permettersi di decidere ciò che gli aggrada di più tra l’indifferenza di cittadini schiavi e la selvaggia repressione dello scarso ma coraggioso dissenso.
Mentre il popolo è alla fame, attanagliato da un regime di prezzi ipertrofico anche per i beni di prima necessità, - basta guardare al prezzo di un kilo di pasta, vicino ai 2 euro, o di un kilo di pane, ben oltre i 4 euro in città come Milano, - e la disoccupazione è vicina a percentuali a due cifre, il nostro neo-salvatore della patria ed i suoi figuranti perdono il loro tempo a dibattere sull’allucinate paranoia della Lega, con la fissa dell’immigrazione, e assurde classi differenziate per Italiani, purosangue come i cavalli da corsa, e per i discendenti degli schiavi spartani, gli immigrati, perché i problemi del Paese si risolvono evitando la contaminazione tra la razza eletta e l’esercito dei servi della gleba.
La questione è talmente ridicola che c’è da credere che davanti a questa tragica buffonata persino Mengistu, Pinochet ed il suo maestro Hitler, con Mengele ed Heichmann, si stiano rivoltando nella tomba per il gran ridere.
Naturalmente non uno straccio di provvedimento per l’occupazione, il salario, la sospensione, - visto che pretenderne la cancellazione sarebbe utopia, - dell’indegno meccanismo delle assunzioni precarie, anche se di questi tempi, con i licenziamenti in massa proprio ad iniziare da questi disgraziati, la questione probabilmente si risolverà da sé.
Si parla di revisione dei meccanismi pensionistici, a cominciare dalle donne, perché la “spesa pensionistica è fuori controllo” e, dunque, vanno anche azzerati gli “assurdi” privilegi che godono le donne. Rinunciare alle tante macchine blu, con rispettivo autista con licenza di sberleffare i codice stradale e costo d’esercizio a carico della pubblica spesa, è invece irrinunciabile, ché se nella vecchia Cina i Mandarini usufruivano di lettiga e lettighieri, i neo-Mandarini della Repubblica debbono usufruire di una lussuosa Lancia Thesis, - nella peggiore delle ipotesi, - persino per portare i figli all’oratorio o l’amante a fare shopping.
Che mandare in pensione in deroga temporanea alle norme canaglia esistenti qualche migliaio di disperati, con tanto di requisiti contributivi ma in carenza dei nuovi limiti d’età varati in fretta e furia, possa costituire un mezzo per risolvere i problemi di sussistenza di altrettante famiglie, costrette ad espedienti di varia natura per arrivare alla maturazione del fatidico limite anagrafico imposto al loro congiunto, non sfiora nemmeno questi arroganti supponenti. Loro non hanno e mai avranno problemi di questa natura: parlamentari oggi, si ricicleranno al parlamento Europeo domani, in una qualche Assemblea regionale dopodomani, e in un posticino di sottogoverno, - magari ai vertici di qualche municipalizzata, - in caso di mancata investitura in una delle istituzioni prima dette e……..a “culo tutti quanti”, come diceva Francesco Guccini in una nota canzone degli anni ’70.
Certo, non sono chiare le ragioni per le quali il popolo non insorga contro un tale scempio di indifferenza e di ingiustizie sociali, quantunque non sia necessario scomodare il Machiavelli per sapere che, in fondo, il popolo è bruto, bue, e la sua maggioranza è sempre pronta a prostrarsi al potere ed ai potenti.
Fortunatamente ci sono nel Paese personaggi politici di ben altra statura, di pasta ben più solida e pregiata, in grado nel loro piccolo di pensare al bene della gente, sentimento nei fatti così distante dalle preoccupazioni del potere.
E’ il caso del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, novello Caronte di AN verso il PdL, che ha fatto l’impossibile per accaparrarsi l’AGS NATO (Alliance Ground Station) e portarlo alla base americana di Singonella, che costerà all’Italia un contributo di 150 milioni di euro. A leggere i giornali che della vicenda si sono occupati, si scopre che la Spagna, nel cui territorio avrebbe dovuto essere collocata la struttura di controllo aereo del Mediterraneo, ha rinunciato al progetto perché indisponibile a cacciare un contributo di 90 milioni euro. Ma il prode La Russa la pensa diversamente e sostiene che il costo previsto, quasi doppio di quello stimato dagli Spagnoli, è in realtà un investimento, che produrrà occupazione e ricchezza per il territorio di Lentini e Paternò, - quest’ultimo paese natale del ministro, - confinanti con la base di Sigonella.
A confermare la bontà della tesi di La Russa è intervenuto il direttore/editore del quotidiano catanese La Sicilia, Mario Ciancio, con un articolo che illustra i vantaggi dell’operazione: oltre mille villette monofamiliare per ospitare gli Americani che opereranno nella base e che si aggiungeranno a quelli già presenti a Sigonella, da costruirsi su un terreno attualmente piantumato ad agrumeto, per il quale, prontamente, è già stata concessa la variante per la lottizzazione.
Bravo Ciancio, così pronto a mettere il suo giornale al servizio dei grandi benefattori dell’umanità. Peccato si sia dimenticato di confessare ai suoi lettori che il terreno su cui sorgeranno le dimore per il personale di Sigonella è di sua proprietà!
Bravo La Russa, che accetta di farsi sponsorizzare da un direttore/editore reticente e nell’occhio del ciclone per aver pubblicato sul suo giornale proprio qualche giorno, - senza alcun commento o avviso ai propri lettori sulle credenziali del personaggio, - una lettera di tal Vincenzo Santapaola, figlio del famigerato capo mafia Benedetto “Nitto”, in regime di 41bis come l’illustre genitore, con la quale reclamava la propria innocenza e si lamentava della “ingiusta” condanna subita per fatti di mafia.
Non c’è che dire, sembra lo scenario di Aspettando Godot: la gente che si lamenta del freddo, della fame e del proprio miserabile stato esistenziale, magari pensando al suicidio in attesa del mitico Godot che risolverà tutti i propri affanni. Ma Godot, in uno scenario quasi in assenza di spazio e di tempo, non arriverà mai e mai arriverà la salvezza sperata. Chiacchiere, chiacchiere, ma mai uno straccio di provvedimento effettivo che possa far sospettare una qualche miracolosa svolta. E così si perpetua nella sua drammaticità il nonsenso della vita quotidiana affidata alla schiera dei neo-Mandarini cui sta a cuore solo il proprio privilegio.

Mentre ci accingevamo a pubblicare l’articolo è giunta notizia dello scontro tra il premier ed il Capo dello Stato sul caso Englaro.
Quantunque ci riserviamo di trattare la questione in modo più ampio, esprimiamo una dura condanna per il comportamento di un Silvio Berlusconi, che, sfidando il Capo dello Stato e minacciando di modificare la Costituzione qualora dovesse perdurare il rifiuto di Napolitano di apporre la firma per la promulgazione del provvedimento varato oggi teso a vanificare una sentenza della Cassazione, con la quale si autorizzava la famiglia a metter fine ai 17 lunghi anni di sofferenze della figlia Eluana, ha varcato il confine della tollerabilità e manifestato l’intento golpista che da sempre accarezza. Questi comportamenti non sono ammissibili in democrazia e dunque sarà bene che i cittadini prendano coscienza dei gravissimi pericoli che stanno correndo le loro libertà fondamentali con la presenza al governo di un uomo che non ha mai fatto mistero del disprezzo per le istituzioni e per le regole della democrazia.

martedì, febbraio 03, 2009

Lega e questione immigrazione

Martedì, 3 febbraio 2009
«Nessun buonismo né forme di remissione, con i clandestini occorre cattiveria» ha tuonato il ministro leghista Maroni, al quale in tutta evidenza sfugge il senso delle sue stesse dichiarazioni nel clima di odio che ormai serpeggia nel Paese nei confronti degli immigrati.
Né serve precisare che il pugno duro deve essere usato contro quei clandestini che giorno dopo giorno raggiungono le nostre frontiere e si introducono in Italia in cerca di quel miraggio di condizioni di vita migliore rispetto ai Paesi d’origine. Dopo i recenti fatti criminali di Guidonia e di Vittoria, - ma vivo è il ricordo dei tanti fatti di sangue e di violenza accaduti negli ultimi mesi, - parole come quelle del Ministro degli Interni non servono a creare lo spartiacque tra buoni e cattivi, tra colpevoli e innocenti, ma servono solo a stringere il laccio con il quale si tiene la fascina dell’immigrazione nel suo complesso, simbolo ormai di disordini, di perenne insicurezza per i cittadini, di violenze potenziali che minano i rapporti sociali e la vita di ogni giorno nelle grandi città come nei piccoli centri.
Che per la Lega la questione immigrazione rappresenti da sempre un problema sul quale puntare il dito e coltivare buona parte del consenso elettorale è cosa nota. D’altra parte il Nord d’Italia, quell’Italia creduta evoluta, opulenta e dal volto falsamente cosmopolita ha sempre malcelato una vena di radicato razzismo che ha concimato il radicamento di Bossi e della sua armata di rozzi xenofobi. Negli anni del dopoguerra il razzismo aveva colpito la migrazione meridionale verso i ricchi centri industriali di Piemonte e Lombardia. Oggi come allora quest’insofferenza, quest’odio sordo e anacronistico si è trasferito sui nuovi simboli di una povertà in cerca di riscatto, l’immigrazione dal Terzo Mondo e dalle aree povere d’Europa, sebbene come era stato per Calabresi, Siciliani, Pugliesi e Sardi, questo flusso rappresenti un fattore di forte stabilizzazione per l’economia dell’intero Settentrione.
Il tasso di scolarizzazione crescente del nostro Paese ha fortemente elevato le aspettative di attività lavorative impiegatizie e ad alta componente intellettuale, rendendo praticamente introvabile manodopera in grado di eseguire mestieri prevalentemente manuali. Naturalmente, nel normale gioco di domanda e offerta i lavori manuali hanno accresciuto il loro valore e l’immigrazione ha rappresentato il nuovo esercito industriale di riserva sul quale si sono sostenute le attività delle piccole e medie imprese, vero e proprio volano dell’economia nazionale.
Se da un lato, dunque, l’immigrazione è servita a colmare le falle di un mercato del lavoro in rapida “terziarizzazione” dell’offerta, da un altro versante è stata funzionale al mantenimento di salari contenuti, che hanno giocato sul profittamento dello stato di bisogno di braccia scarsamente qualificate, spesso accompagnati dal mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza sul lavoro, orari massacranti, condizioni assuntive di fatto prive di ogni forma legale di tutela.
Per riscontrare questa radicata realtà è sufficiente recarsi in un qualsiasi cantiere edile della Penisola e constatare quale sia la presenza di stranieri dell’Est europeo o del Nord Africa impiegati in lavori di bassa manovalanza; fare un giro nei tanti locali di grido per giovani nottambuli per prendere atto di quanto sia diffuso l’impiego di personale extracomunitario nel lavoro di servizio, o nelle tante imprese di trasporto o che eseguono lavori di carico e scarico.
Questa situazione, perfettamente nota anche e soprattutto a Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio ed alla falange di predicatori razzisti che pascolano nel Carroccio, dato che la Lombardia è tra le regioni che attrae una delle più grosse fette d’immigrazione, è del tutto evidente che debba presentare un rovescio di medaglia, che comunque non giustifica in alcun modo l’accanimento con il quale si infierisce con comportamenti verbali e di fatto ai confini dell’inciviltà. E’ tristemente noto e, per certi versi, normale che alle schiere dei poveri ma onesti, degli umili ma di buona volontà, si associno frange di poco di buono o di gente che con la legge ha da tempo chiuso ogni rapporto. Ma queste presenze non possono giustificare il prese di posizione populiste al limite dell’istigazione all’odio razziale. Se il nostro Paese non può essere certamente considerato a guisa di un porto di mare, non è per questo lecito fomentare la caccia ad ogni marinaio additandolo quale potenziale stupratore o spacciatore o delinquente. Metodi di questa natura costituiscono solo squallidi moventi per costringere, per bieco interesse di chi fa tale propaganda per sé o per conto di meschini interessi, nel ghetto gente che comunque è in grado di dare un contributo fattivo all’economia del Paese e, per queste ragioni, ha diritto non solo al rispetto umano ma anche ad un’accoglienza che ne faciliti l’integrazione, nel rispetto dell’identità.
L’incapacità di comprendere il valore aggiunto che può determinarsi dal processo d’immigrazione, - certamente più controllato e regolamentato, ma scevro da pregiudizi razziali, - è un indicatore gravissimo di una barbarie culturale e morale indegna di un paese evoluto, che nel caso italiano fa persino torto alla nostra storia ed alla memoria dei tanti episodi di discriminazione e sofferenza cui furono sottoposti i nostri avi quando, loro emigranti, andarono in cerca di fortuna per il mondo come oggi fanno Indiani, Cingalesi, Rumeni e Marocchini.Chi è incapace di cogliere questi aspetti non insorga poi se nella tanto sedicente civile Inghilterra un gruppo di operai italiani, andato là per lavorare, è costretto a vivere segregato per sottrarsi alla furia delle maestranze locali, che vedono in loro ciò che noi ci ostiniamo a vedere in un pullman di Polacchi.