domenica, febbraio 08, 2009

Eluana Englaro. Storia di ayatollah e piccoli dittatori

Domenica, 8 febbraio 2009
Eluana Englaro. Un nome balzato tristemente agli onori della cronaca senza alcuna volontà dell’interessata né della sua famiglia, ma che per la vicenda che la riguarda è divenuto il simbolo di una battaglia a metà strada tra l’etica ed il legale, che sta coinvolgendo la politica, la scienza, la Chiesa e la pubblica opinione in un dibattito tanto appassionante quanto intriso di ipocrisie e bigottismi in qualche caso impensabili.
Eluana è una giovane di Lecco che da diciassette lunghi anni è in coma irreversibile a causa di un gravissimo incidente stradale nel corso del quale subì la frattura della seconda vertebra cerebrale ed un gravissimo trauma cranico con lesione della corteccia cerebrale. Sin dalle prime ore dopo il ricovero, le sue condizioni appaiono disperanti e, infatti, nonostante tutto il tempo trascorso da allora, ancora oggi la giovane è in stato vegetativo irreversibile e non ha mai ripreso conoscenza neanche per un attimo.
La BMA (British Medical Association) e l’AAN (American Accademy of Neurology), templi mondiali per lo studio di patologie neurologiche come quella di Eluana, sostengono da sempre che, trascorsi dodici mesi dal verificarsi di un evento traumatico con postumi comatosi senza aver registrato il pur minimo segnale di regresso della patologia, ci si debba considerare di fronte ad un caso con probabilità nulle di recupero e, pertanto, sia da ritenere del tutto legittimo il ricorso alla sospensione della nutrizione forzata e dell’idratazione artificiale del paziente. Dello stesso avviso è la maggior parte della comunità medica italiana, quantunque nel nostro Paese siano pochi coloro che osano affermare apertamente che la continuazione delle cure in questi casi costituisce solo un inutile accanimento terapeutico.
Eppure Eluana continua a vivere, - se mai di vita si possa parlare, nel suo stato, e non più, crudemente, di semplice esistenza. Il dottor Carlo Alberto Defanti, primario del reparto di neurologia del Niguarda di Milano, che ha avuto in cura Eluana, ebbe a dichiarare: «Malgrado non soffra direttamente per il suo stato, dovrebbe essere chiaro a tutti che la sua condizione è priva di dignità. Di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, totalmente nelle mani del personale che la assiste. La sua condizione è penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di un risveglio e per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne compiutamente il lutto». Tant’è che nel lontano ’97, su richiesta del padre di Eluana, Peppino, divenuto tra l’altro tutore della figlia, Defanti stila un referto che recita: «In considerazione del lunghissimo intervallo trascorso dall'evento traumatico, si può formulare una prognosi negativa quanto a un recupero della vita cognitiva», con il quale si dovrebbe poter scrivere la parola fine alle sofferenze della famiglia ed alle condizioni disumane della giovane.
Da allora sono passati dodici terribili anni alla ricerca di una soluzione legale che consenta di “staccare la spina”, e nessuno è certamente in grado persino d’immaginare lo strazio di una famiglia condannata a vivere al cospetto di una figlia ridotta in quelle condizioni e senza alcuna speranza di recupero. Men che meno sono in grado di immaginarlo quanti per mera presa di posizione o appellandosi a futili principi etici hanno ostacolato con ogni mezzo i tentativi di Peppino Englaro di rispondere positivamente a quel che sarebbe stato il probabile desiderio della stessa figlia se avesse avuto contezza delle sue condizioni.
In questa guerra senza quartiere contro il sacrosanto diritto all’autodeterminazione, com’era d’altra parte prevedibile, è scesa in campo anche la Chiesa, che tanto ostinatamente quanto incapace di interpretare le vere sofferenze, si batte con spietatezza altrettanto esasperante quanto le inutili terapie cui è sottoposta Eluana contro l’interruzione della sua alimentazione forzata, sostenendo che una tale pratica equivarrebbe a legittimare nel mondo cattolico l’ammissibilità dell’eutanasia e la caduta del principio di sacralità della vita.
E in questa crociata per negare un diritto, - peraltro riconosciuto alla famiglia Englaro anche da un recente dispositivo della Corte di Cassazione, - la Chiesa è riuscita a trascinare anche la politica, con il capo del governo Silvio Berlusconi in trincea contro il Presidente della Repubblica, che ha negato la sua autorizzazione ad un decreto legge promulgato in fretta e furia proprio per vanificare la sentenza della Suprema Corte e manifestare da parte dell’esecutivo il vassallaggio alle imposizione vaticane.
Tuttavia, mentre le posizioni di Ratzinger e delle gerarchie ecclesiastiche, per quanto massimaliste e di chiara matrice ideologica, appaiono comprensibili, non può dirsi altrettanto delle motivazioni addotte da Berlusconi a sostegno del provvedimento bocciato dal Capo dello Stato. La sua iniziativa appare molto di più un atto di ipocrisia, rivolto a riconquistare un accredito nel mondo cattolico, nel quale la sua immagine si è da tempo appannata, che non un genuino sentimento di rispetto di discutibili principi etici. A confermare questo sospetto vi è la scomposta reazione al preannunciato diniego di Napolitano, al quale il premier ha risposto con l’invio in Senato di un disegno di legge con procedura d’urgenza, contenente le norme previste nel decreto bocciato, sollevando così un conflitto tra poteri dello stato mai visto prima d’ora. Le sue dichiarazioni, inoltre, contro una «Carta Costituzionale nata sotto l’egida comunista e per questa ragione necessaria di una revisione immediata con il ricorso al voto popolare, se opportuno» la dice lunga sulla stizza rancorosa con la quale Berlusconi ha subito ciò che considera l’ennesimo schiaffo in pieno viso da parte del Colle, lui che ha scambiato le stanze del governo del Paese per le cantine di casa sua e crede di potervi intraprendere impunito qualunque iniziativa.
Al di là delle conclusioni cui perverrà la vicenda, resta l’amara considerazione che l’assenza di una vera capacità di capire la radice della sofferenza o, peggio, profittare delle altrui pene per bieco interesse o per difendere principi privi della pur minima aderenza alla realtà, anziché nobilitare il senso della vita ed accostarci con rinnovata fierezza al rispetto dei valori dell’etica e della morale, ci fa precipitare nel baratro di una barbarie nella quale non c’è rispetto per il dolore e per lo strazio; un mondo in cui ayatollah, pervasi da oscurantistico fondamentalismo, e minuscoli aspiranti dittatori ritengono di poter dettare senza alcun contraddittorio le regole dell’umana convivenza ed imporle con il disprezzo anche per la pietà.

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