Così muoiono i rappresentanti de “l’Italia peggiore”
Giovedì, 27 giugno 2011
«Di precariato si vive male, anzi si può anche morire». Queste le parole del presidente del Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti pugliesi, Onofrio Introna, con le quali è intervenuto ai funerali di Pierpaolo Faggiano, giornalista pubblicista collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, morto suicida ad appena quarant’anni compiuti perché incapace di tollerare ulteriormente la propria condizione di precario di lungo corso, con famiglia a carico.
Il caso di Faggiano è forse un esempio estremo di rifiuto di condizione di vita apparentemente inimmaginabili in un paese civile, in un paese che si picca di sedere tra le più importanti potenze economiche mondiali. Ma è, allo stesso tempo, la spia drammatica di come il fenomeno diffuso del precariato possa indurre a tragiche conclusioni una generazione di disperati abbandonati ad un destino senza futuro, di marginalizzazione spaventosa, a condizioni d’esistenza prive di dignità e di significato.
Questi sono i risultati del tanto declamato Decreto legislativo n. 30 del febbraio 2003, con il quale in ossequio ad un annosa reclamata flessibilità del mercato del lavoro furono introdotte anche in Italia un pacchetto di norme innovative che nelle intenzioni, ma solo in quelle, avrebbero dovuto favorire l’ingresso al lavoro di tanti giovani, vittime del mercato nero dell’occupazione o impossibilitati a collocarsi nel mondo produttivo a causa degli alti costi del lavoro non compensati da un’immediata capacità di performance produttiva.
Come è triste costume italiano, in breve il provvedimento è divenuto una formidabile escamotage per reclutare a tempo forze fresche a livelli retributivi più bassi rispetto a quanto stabilito dalla manodopera inquadrata a tempo indeterminato e senza alcun vincolo di legge per la loro dismissione. E il provvedimento, piovuto come una manna inaspettata per un tessuto produttivo storicamente incline allo sfruttamento esasperato del lavoro, ha avuto una diffusione tale da generare un esercito di disgraziati che alla fine del 2006, secondo i dati ISTAT, contava quasi quattro milioni di anime tra precari in attività e disoccupati già con un’esperienza di lavoro a termine.
Un esercito che, com’era facilmente prevedibile, è stato il primo a pagare il prezzo della crisi economica che ha colpito il pianeta tra il 2007 e il 2008 e che è tutt’ora in corso. Un esercito che è stato falcidiato senza pietà dalla necessità delle aziende di ridurre i costi a fronte di una crisi dei mercati e di un crollo verticale dei consumi, che hanno imposto fortissime contrazioni alla produzione di beni e servizi e, quindi, un taglio spietato degli organici.
Ma se ciò è storia attuale nota a tutti, considerato che il ricorso al precariato, a questa bengodi dello sfruttamento disumano, ha coinvolto tutti i settori produttivi, dalla pubblica amministrazione al privato, dall’industria ai servizi, è altrettanto storia attuale la politica di disinteresse con la quale i governi di sinistra e di destra che si sono succeduti da quel maledetto 2003 hanno affrontato la questione o hanno inteso porre rimedio ad una tragedia generazionale dalle dimensioni bibliche. Le grida di dolore di una generazione uccisa nella speranza con ferocia senza precedenti sono rimaste inascoltate e così oggi il Paese si ritrova con un tessuto sociale fatto di quarantenni e cinquantenni alla disperata ricerca di un espediente che consenta loro di sopravvivere. In un epoca peraltro contrassegnata dalla globalizzazione dei mercati, che impone alla permanenza nel mondo sviluppato l’esigenza di ripristinare termini di rigore e buon governo dei conti economici, a cominciare dalla spesa pubblica. Da qui una rarefazione delle risorse disponibili per dare nel breve termine un contributo significativo al rilancio dell’economia e, dunque, un impulso alle imprese a reinvestire e a ripartire con uno sviluppo dell’occupazione.
E’ una situazione drammatica, in apparenza senza via d’uscita, ma che non giustifica per questo sortite come «siete l’esempio dell’Italia peggiore» o che la nostra è l’Italia dei «bamboccioni», espressioni a dir poco volgari proferite per bocca di ministri indegni, che ritengono che la rimozione dei problemi vada fatta con l’invettiva a danno dei diseredati e non con opportuni provvedimenti che servano a rimuovere le cause di un fenomeno di per sé inaccettabile. Illudersi di rimuovere la polvere asfissiante sollevando un lembo del tappeto e nascondervela sotto è utile solo a perpetuare malsane condizioni di vita. E se queste malsane condizioni di vita derivano da uno stato di disoccupazione diffuso o da una precarietà selvaggia dell’esistenza, allora si stanno sottovalutando i rischi di una vera e propria rivoluzione sociale che presto o tardi esploderà e travolgerà nella violenza la comunità intera, provocando danni persino più incalcolabili di quelli prodotti da una proterva marginalizzazione sociale nella quale si sono costretti per anni migliaia di individui.
Né può sottovalutarsi che la caduta del governo delle sinistre è stata causata anche dal malcontento montante di fette di popolazione disillusa da politiche evanescenti di quella compagine in ordine ai problemi dello stato sociale, della politica dei redditi, dei provvedimenti sulle pensioni, delle iniziative a favore del mondo del lavoro. Grosse fette di elettorato si sono spostate a destra nell’illusione che Berlusconi, - immagine di un successo imprenditoriale senza precedenti, - fosse in grado di trasferire al Paese quel benessere di cui era portatore, negato loro da Prodi e compagni.
Le disillusioni che invece ne sono derivate sono questa volta maggiormente foriere di uno sconvolgimento che, così continuando, non potrà fermarsi ad un semplice ricapovolgimento di fronte: son venuti meno una parte e l’altra, destra e sinistra, quali punti di riferimento credibili e alternativi. E pensare di scalzare gli avversari con banali e rinnovate promesse non è più sufficiente per scongiurare un movimento di popolo che, trovato l’innesco giusto, sarà difficilissimo fermare.
«E' indispensabile»– ha esortato Introna a margine della tragedia che ha colpito Faggiano, uno dei tanti diseredati di una realtà non certo disposta a togliersi di mezzo come lui con un atto estremo - «che le Istituzioni si facciano carico nel loro complesso di interventi che possano determinare condizioni di occupazione certa e dignitosa per i giovani, all'altezza dell'impegno che la società ha chiesto loro per qualificarsi e laurearsi».
E’ facile per quanto ottuso rammentare che per guadagnarsi uno stipendio esistono lavori come quello di scaricare casse di frutta ai mercati generali, - come hanno ricordato Brunetta o Stracquadanio, - quantunque anche queste siano occupazioni oneste verso le quali è dovuto il giusto rispetto. Ma i saccenti moralisti in questione, - ai quali viene spontaneo chiedere il buon esempio, visto che nei rispettivi ruoli non sembrano troneggiare, - dovrebbero forse rammentare con un pizzico d’umiltà smarrita che è facile sparare idiozie stando comodamente seduti su poltrone che rendono ventimila euro al mese solo per vomitare acide stronzate.
(nella foto, il giornalista precario Pierpaolo Faggiano)
Il caso di Faggiano è forse un esempio estremo di rifiuto di condizione di vita apparentemente inimmaginabili in un paese civile, in un paese che si picca di sedere tra le più importanti potenze economiche mondiali. Ma è, allo stesso tempo, la spia drammatica di come il fenomeno diffuso del precariato possa indurre a tragiche conclusioni una generazione di disperati abbandonati ad un destino senza futuro, di marginalizzazione spaventosa, a condizioni d’esistenza prive di dignità e di significato.
Questi sono i risultati del tanto declamato Decreto legislativo n. 30 del febbraio 2003, con il quale in ossequio ad un annosa reclamata flessibilità del mercato del lavoro furono introdotte anche in Italia un pacchetto di norme innovative che nelle intenzioni, ma solo in quelle, avrebbero dovuto favorire l’ingresso al lavoro di tanti giovani, vittime del mercato nero dell’occupazione o impossibilitati a collocarsi nel mondo produttivo a causa degli alti costi del lavoro non compensati da un’immediata capacità di performance produttiva.
Come è triste costume italiano, in breve il provvedimento è divenuto una formidabile escamotage per reclutare a tempo forze fresche a livelli retributivi più bassi rispetto a quanto stabilito dalla manodopera inquadrata a tempo indeterminato e senza alcun vincolo di legge per la loro dismissione. E il provvedimento, piovuto come una manna inaspettata per un tessuto produttivo storicamente incline allo sfruttamento esasperato del lavoro, ha avuto una diffusione tale da generare un esercito di disgraziati che alla fine del 2006, secondo i dati ISTAT, contava quasi quattro milioni di anime tra precari in attività e disoccupati già con un’esperienza di lavoro a termine.
Un esercito che, com’era facilmente prevedibile, è stato il primo a pagare il prezzo della crisi economica che ha colpito il pianeta tra il 2007 e il 2008 e che è tutt’ora in corso. Un esercito che è stato falcidiato senza pietà dalla necessità delle aziende di ridurre i costi a fronte di una crisi dei mercati e di un crollo verticale dei consumi, che hanno imposto fortissime contrazioni alla produzione di beni e servizi e, quindi, un taglio spietato degli organici.
Ma se ciò è storia attuale nota a tutti, considerato che il ricorso al precariato, a questa bengodi dello sfruttamento disumano, ha coinvolto tutti i settori produttivi, dalla pubblica amministrazione al privato, dall’industria ai servizi, è altrettanto storia attuale la politica di disinteresse con la quale i governi di sinistra e di destra che si sono succeduti da quel maledetto 2003 hanno affrontato la questione o hanno inteso porre rimedio ad una tragedia generazionale dalle dimensioni bibliche. Le grida di dolore di una generazione uccisa nella speranza con ferocia senza precedenti sono rimaste inascoltate e così oggi il Paese si ritrova con un tessuto sociale fatto di quarantenni e cinquantenni alla disperata ricerca di un espediente che consenta loro di sopravvivere. In un epoca peraltro contrassegnata dalla globalizzazione dei mercati, che impone alla permanenza nel mondo sviluppato l’esigenza di ripristinare termini di rigore e buon governo dei conti economici, a cominciare dalla spesa pubblica. Da qui una rarefazione delle risorse disponibili per dare nel breve termine un contributo significativo al rilancio dell’economia e, dunque, un impulso alle imprese a reinvestire e a ripartire con uno sviluppo dell’occupazione.
E’ una situazione drammatica, in apparenza senza via d’uscita, ma che non giustifica per questo sortite come «siete l’esempio dell’Italia peggiore» o che la nostra è l’Italia dei «bamboccioni», espressioni a dir poco volgari proferite per bocca di ministri indegni, che ritengono che la rimozione dei problemi vada fatta con l’invettiva a danno dei diseredati e non con opportuni provvedimenti che servano a rimuovere le cause di un fenomeno di per sé inaccettabile. Illudersi di rimuovere la polvere asfissiante sollevando un lembo del tappeto e nascondervela sotto è utile solo a perpetuare malsane condizioni di vita. E se queste malsane condizioni di vita derivano da uno stato di disoccupazione diffuso o da una precarietà selvaggia dell’esistenza, allora si stanno sottovalutando i rischi di una vera e propria rivoluzione sociale che presto o tardi esploderà e travolgerà nella violenza la comunità intera, provocando danni persino più incalcolabili di quelli prodotti da una proterva marginalizzazione sociale nella quale si sono costretti per anni migliaia di individui.
Né può sottovalutarsi che la caduta del governo delle sinistre è stata causata anche dal malcontento montante di fette di popolazione disillusa da politiche evanescenti di quella compagine in ordine ai problemi dello stato sociale, della politica dei redditi, dei provvedimenti sulle pensioni, delle iniziative a favore del mondo del lavoro. Grosse fette di elettorato si sono spostate a destra nell’illusione che Berlusconi, - immagine di un successo imprenditoriale senza precedenti, - fosse in grado di trasferire al Paese quel benessere di cui era portatore, negato loro da Prodi e compagni.
Le disillusioni che invece ne sono derivate sono questa volta maggiormente foriere di uno sconvolgimento che, così continuando, non potrà fermarsi ad un semplice ricapovolgimento di fronte: son venuti meno una parte e l’altra, destra e sinistra, quali punti di riferimento credibili e alternativi. E pensare di scalzare gli avversari con banali e rinnovate promesse non è più sufficiente per scongiurare un movimento di popolo che, trovato l’innesco giusto, sarà difficilissimo fermare.
«E' indispensabile»– ha esortato Introna a margine della tragedia che ha colpito Faggiano, uno dei tanti diseredati di una realtà non certo disposta a togliersi di mezzo come lui con un atto estremo - «che le Istituzioni si facciano carico nel loro complesso di interventi che possano determinare condizioni di occupazione certa e dignitosa per i giovani, all'altezza dell'impegno che la società ha chiesto loro per qualificarsi e laurearsi».
E’ facile per quanto ottuso rammentare che per guadagnarsi uno stipendio esistono lavori come quello di scaricare casse di frutta ai mercati generali, - come hanno ricordato Brunetta o Stracquadanio, - quantunque anche queste siano occupazioni oneste verso le quali è dovuto il giusto rispetto. Ma i saccenti moralisti in questione, - ai quali viene spontaneo chiedere il buon esempio, visto che nei rispettivi ruoli non sembrano troneggiare, - dovrebbero forse rammentare con un pizzico d’umiltà smarrita che è facile sparare idiozie stando comodamente seduti su poltrone che rendono ventimila euro al mese solo per vomitare acide stronzate.
(nella foto, il giornalista precario Pierpaolo Faggiano)
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