Il cavallo bolso di Cassano Magnago
Lunedì, 20 giugno 2011
E’ un atto d’accusa, un atto d’accusa pubblico quello che Umberto Bossi sciorina a Pontida davanti ad una folla da grande evento, convenuta per esprimere tutto il malcontento, la rabbia per un movimento che sembra sempre più ingessato e in ostaggio al cavaliere Silvio Berlusconi e alle sue trame di palazzo. Un atto d’accusa per una politica più da infamia che da lode, che ha visto la Lega perdere insieme all’alleato PdL le amministrative, prima, ed i referendum, dopo, e che rischia adesso di perdere pezzi importanti della propria base elettorale, indispettita e delusa per l’infruttuoso coinvolgimento del partito in un’avventura di governo poco proficua se non addirittura negativa.
Ma nello sciorinare l’atto d’accusa, le sue invettive colorite e le minacce allo stesso Silvio, Bossi forse non si rende conto di effettuare una confessione impietosa dei propri insuccessi, del modo suicida con il quale ha condotto il partito nell’ultimo triennio, suicidio di cui non può che ritenersi che il principale artefice.
L’errore è stato quello di non staccare la spina ad una coalizione visibilmente incapace di creare le condizioni per uno sviluppo del Paese, incapace di evitare che il Nord fosse travolto dalla disfatta dell’economia, dalla crisi della piccola impresa e dell’artigianato, da quel baratro in cui è precipitato il nerbo della base leghista a causa delle scelte, - ma sarebbe il caso di parlare di “non scelte”, - di un governo esasperatamente concentrato a studiare le strade per l’impunità del suo leader e che, adesso sconfitto, brancola nel buio per trovare una soluzione possibile che eviti il ricorso alle urne e il sigillo al definitivo azzeramento di ogni ambizione padana.
Questo tragico epilogo è chiaramente presente a Umberto Bossi che arringa il suo popolo con un o si cambia oppure ognuno per sé, certo non immediato perché «Se facciamo cadere Berlusconi si va a votare, e questo è un momento favorevole per la sinistra». E il diluvio di fischi che accompagna quest’affermazione, accompagnato dal grido «secessione» è la spia evidente del massiccio malumore che serpeggia sul prato di Pontida contro lo stato maggiore leghista, anche se il furbo Umberto finge di non capire e sposta quella contestazione all’indirizzo dell’alleato: «Si può fischiare, è quasi fatale che la gente a un certo punto voglia cambiare; il governo di errori ne ha fatti», ma la Lega è ancora una compagine unita e determinata, a dispetto di quanto scrivono i «giornalisti stronzi». Sul punto interverrà anche Roberto Maroni, da tanti acclamato come il futuro presidente del consiglio, che nel riprendere il filo di questo ragionamento citerà la magistratura come uno dei poteri che lavorano per screditare la Lega: «Sui clandestini», - uno dei cavalli di battaglia del Carroccio, - «i giudici ci sono contro», dice Maroni, dichiarazione cui seguirà pronta la replica dell’ANM: «Provvedimenti sbagliati, che non sono stati fatti da noi».
Né mancano i riferimenti alle ultime trovate di un partito in visibile crisi d’identità ed alla ricerca spasmodica di qualche nuovo tema su cui catalizzare la rabbia dei lumbard. I ministeri al Nord, quel trasferimento di potere da Roma ladrona a Milano giusto per dare un senso al concetto di federalismo e di decentramento, - sebbene mai sia stato spiegato attraverso quale meccanismo che eviti i prevedibili maggiori oneri per la spesa pubblica dovrebbe attuarsi un’operazione del genere. «Berlusconi aveva già firmato il documento per trasferirli», - dichiara Bossi, - «poi si è cagato sotto», - sintetizzando con queste colorite affermazioni la fortissima contestazione scoppiata in casa PdL per voce di Alemanno, Polverini e Cicchitto al progetto.
E allora? Un percorso senza via d’uscita. Una condanna a continuare a governare con il socio scomodo nella speranza che accada qualcosa in grado di ribaltare la situazione e ridare alla Lega quell’appeal che sembra aver perso per il momento, possibilmente con l’avvio di quella preannunciata riforma fiscale, che riveda la tassazione a carico dei cittadini e di cui Bossi e soci potrebbero rivendicare una quota di paternità. Senza un’azione concreta, d’altra parte, sperare di riacquisire i consensi con le tante blaterate promesse di riforma costituzionale del numero dei parlamentari e del senato federale, con lo stop alle missioni militari, con la riduzione se non con la soppressione delle auto blu o con la revisione dei vincoli del patto di stabilità per i comuni che si sono dimostrati virtuosi, appare assai arduo, non fosse per le complicazioni procedurali che implicano le riforme costituzionali, i vincoli di carattere internazionale che condizionano la revisione degli impegni militari all’estero e l’esiguità del virtuosismo amministrativo, limitato a poche realtà comunali.
V’è infine un altro problema, non ciato da Bossi, ma estremamente presente nella lista delle priorità di cui tener conto. E’ la questione della revisione della legge elettorale, difesa sino a ieri per evidenti ragioni d’opportunismo da Silvio Berlusconi e non più gradita anche alla Lega, a maggior ragione nell’ipotesi in cui con il ricorso al voto il premio di maggioranza vada a qualche partito oggi all’opposizione, a danno del Carroccio.
Così al governo vengono concessi ancora sei mesi di vita. Sei mesi entro i quali qualcosa dovrà irrimediabilmente accadere se non per riprendere vigore almeno per limitare i danni. Dopo di che, almeno di miracoli, voltare pagine con il ricorso al giudizio dell’elettorato.
In buona sostanza, un discorso fiacco, sotto tono, quasi disperato in qualche passaggio, che la dice lunga su come la capacità di trascinare e motivare dell’attuale leadership della Lega sia in plateale crisi.
E che questa crisi non sia solo della leadership, ma attraversi ancor più profondamente l’intera struttura anatomica dei figliocci di Alberto da Giussano si può cogliere anche dalle incaute parole a ruota libera raccolte sul prato di Pontida: «Non si dimentichi mai lo spirito di ribellione che portò alla cinque giornate di Milano. Il popolo potrebbe ancora una volta averne abbastanza e ricorrere a quelle forme di lotta», afferma tanto improbabilmente minaccioso quanto convinto uno dei tanti delusi, dimenticando però che proprio a Milano qualche giorno fa il suo partito ha preso un dolorosissimo calcio nel deretano.
Ma nello sciorinare l’atto d’accusa, le sue invettive colorite e le minacce allo stesso Silvio, Bossi forse non si rende conto di effettuare una confessione impietosa dei propri insuccessi, del modo suicida con il quale ha condotto il partito nell’ultimo triennio, suicidio di cui non può che ritenersi che il principale artefice.
L’errore è stato quello di non staccare la spina ad una coalizione visibilmente incapace di creare le condizioni per uno sviluppo del Paese, incapace di evitare che il Nord fosse travolto dalla disfatta dell’economia, dalla crisi della piccola impresa e dell’artigianato, da quel baratro in cui è precipitato il nerbo della base leghista a causa delle scelte, - ma sarebbe il caso di parlare di “non scelte”, - di un governo esasperatamente concentrato a studiare le strade per l’impunità del suo leader e che, adesso sconfitto, brancola nel buio per trovare una soluzione possibile che eviti il ricorso alle urne e il sigillo al definitivo azzeramento di ogni ambizione padana.
Questo tragico epilogo è chiaramente presente a Umberto Bossi che arringa il suo popolo con un o si cambia oppure ognuno per sé, certo non immediato perché «Se facciamo cadere Berlusconi si va a votare, e questo è un momento favorevole per la sinistra». E il diluvio di fischi che accompagna quest’affermazione, accompagnato dal grido «secessione» è la spia evidente del massiccio malumore che serpeggia sul prato di Pontida contro lo stato maggiore leghista, anche se il furbo Umberto finge di non capire e sposta quella contestazione all’indirizzo dell’alleato: «Si può fischiare, è quasi fatale che la gente a un certo punto voglia cambiare; il governo di errori ne ha fatti», ma la Lega è ancora una compagine unita e determinata, a dispetto di quanto scrivono i «giornalisti stronzi». Sul punto interverrà anche Roberto Maroni, da tanti acclamato come il futuro presidente del consiglio, che nel riprendere il filo di questo ragionamento citerà la magistratura come uno dei poteri che lavorano per screditare la Lega: «Sui clandestini», - uno dei cavalli di battaglia del Carroccio, - «i giudici ci sono contro», dice Maroni, dichiarazione cui seguirà pronta la replica dell’ANM: «Provvedimenti sbagliati, che non sono stati fatti da noi».
Né mancano i riferimenti alle ultime trovate di un partito in visibile crisi d’identità ed alla ricerca spasmodica di qualche nuovo tema su cui catalizzare la rabbia dei lumbard. I ministeri al Nord, quel trasferimento di potere da Roma ladrona a Milano giusto per dare un senso al concetto di federalismo e di decentramento, - sebbene mai sia stato spiegato attraverso quale meccanismo che eviti i prevedibili maggiori oneri per la spesa pubblica dovrebbe attuarsi un’operazione del genere. «Berlusconi aveva già firmato il documento per trasferirli», - dichiara Bossi, - «poi si è cagato sotto», - sintetizzando con queste colorite affermazioni la fortissima contestazione scoppiata in casa PdL per voce di Alemanno, Polverini e Cicchitto al progetto.
E allora? Un percorso senza via d’uscita. Una condanna a continuare a governare con il socio scomodo nella speranza che accada qualcosa in grado di ribaltare la situazione e ridare alla Lega quell’appeal che sembra aver perso per il momento, possibilmente con l’avvio di quella preannunciata riforma fiscale, che riveda la tassazione a carico dei cittadini e di cui Bossi e soci potrebbero rivendicare una quota di paternità. Senza un’azione concreta, d’altra parte, sperare di riacquisire i consensi con le tante blaterate promesse di riforma costituzionale del numero dei parlamentari e del senato federale, con lo stop alle missioni militari, con la riduzione se non con la soppressione delle auto blu o con la revisione dei vincoli del patto di stabilità per i comuni che si sono dimostrati virtuosi, appare assai arduo, non fosse per le complicazioni procedurali che implicano le riforme costituzionali, i vincoli di carattere internazionale che condizionano la revisione degli impegni militari all’estero e l’esiguità del virtuosismo amministrativo, limitato a poche realtà comunali.
V’è infine un altro problema, non ciato da Bossi, ma estremamente presente nella lista delle priorità di cui tener conto. E’ la questione della revisione della legge elettorale, difesa sino a ieri per evidenti ragioni d’opportunismo da Silvio Berlusconi e non più gradita anche alla Lega, a maggior ragione nell’ipotesi in cui con il ricorso al voto il premio di maggioranza vada a qualche partito oggi all’opposizione, a danno del Carroccio.
Così al governo vengono concessi ancora sei mesi di vita. Sei mesi entro i quali qualcosa dovrà irrimediabilmente accadere se non per riprendere vigore almeno per limitare i danni. Dopo di che, almeno di miracoli, voltare pagine con il ricorso al giudizio dell’elettorato.
In buona sostanza, un discorso fiacco, sotto tono, quasi disperato in qualche passaggio, che la dice lunga su come la capacità di trascinare e motivare dell’attuale leadership della Lega sia in plateale crisi.
E che questa crisi non sia solo della leadership, ma attraversi ancor più profondamente l’intera struttura anatomica dei figliocci di Alberto da Giussano si può cogliere anche dalle incaute parole a ruota libera raccolte sul prato di Pontida: «Non si dimentichi mai lo spirito di ribellione che portò alla cinque giornate di Milano. Il popolo potrebbe ancora una volta averne abbastanza e ricorrere a quelle forme di lotta», afferma tanto improbabilmente minaccioso quanto convinto uno dei tanti delusi, dimenticando però che proprio a Milano qualche giorno fa il suo partito ha preso un dolorosissimo calcio nel deretano.
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