lunedì, maggio 30, 2011

Le incongruenze sulle pensioni

Lunedì, 30 maggio 2011
Valentina Conte, giornalista di la Repubblica, dedica oggi un’analisi sommaria la tema delle pensioni. Probabilmente sull’onda dei dati INPS di alcuni giorno or sono, che hanno rappresentato l’universo dei pensionati come una sterminata corte dei miracoli con redditi mensili sull’orlo della sussistenza se non del tutto ridicoli.
Il tema è divenuto improvvisamente di grande attualità, al punto che anche la segreteria della CGIL, per bocca di Susanna Camusso, ancora oggi sollecita un intervento legislativo che fissi le pensioni minime al meno al 60% dell’ultima retribuzione utile per il suo calcolo.
Il discorso non fa una grinza. Anche da pensionato il cittadino ha diritto ad un reddito che gli consenta di vivere in maniera dignitosa, specialmente nell’epoca dell’euro che, almeno nel nostro Paese, ha finito per importare un forte rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità, che ha limato ulteriormente l’assegno di quiescenza.
Ciò che non è accettabile, come accade spesso in questi casi, è il populismo con il quale s’infarciscono i discorsi su questi argomenti, finendo per innescare una sordida guerra tra poveri che nulla ha a che vedere con la giusta soluzione del problema.
«La distanza che separa un pilota da un co. co. co o co. co. pro qualunque, se misurata dall'entità della sua pensione, è davvero incolmabile: 3.500 euro contro 120 o poco più. Lordi, al mese. Raggelante, poi, se il confronto è con un dirigente: 3.800 euro contro i soliti 120», scrive Conte, offrendo così un flash del tutto distorto di una realtà, che ha le sue motivazioni in un sistema previdenziale sostanzialmente iniquo e vorace, che esige molto a livello contributivo e nel corso degli anni non ha fatto che tagliare i rendimenti dei contributi versati, sino a falcidiare le pensioni finali rispetto ai redditi effettivi in costanza di rapporto di lavoro.
Ciò è avvenuto con buona pace di tutti: sindacati, politici, associazioni di categoria datoriali, cittadini e, paradossalmente, i lavoratori, che hanno approvato le perverse norme sull’innalzamento dell’età pensionabile, la revisione dei coefficienti di rendimento e, ciò che più conta, le assurde norme sulla precarizzazione del lavoro e la revisione con il governo Dini del sistema pensionistico, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo. Nel primo caso la pensione si calcolava in base a due parametri: le retribuzioni ricevute negli anni che precedevano il pensionamento e l’anzianità contributiva, con evidente maggior beneficio per il percettore – tale calcolo, ad esaurimento, riguarda tutti colo che all’entrata in vigore della riforma del ’96 avevano almeno 18 anni di contributi versati. Nel secondo caso, la prestazione pensionistica è correlata ai contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa. Infine, v’è un calcolo di pensione che riguarda tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro non stabile (co.co.co, co.co.pro, stagionali, lavoratori in affitto, professionisti, ecc), che versano un contributo pensionistico ad una cosiddetta gestione separata INPS (legge 335/95), che ha meccanismi di funzionamento particolari. E’ evidente che le pensioni erogate a seguito di un rapporto di lavoro precario sono più basse di quelle maturate in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e continuativo e, dunque, qualunque raffronto tra categorie pensionistiche che non tenga conto di questi presupposti rischia di diventare fortemente fuorviante.
In questo senso Valentina Conte dimentica di precisare che i dirigenti che percepiscono la pensione da lei riportata sono coloro che hanno maturato il diritto in base al metodo retributivo, che vanno ad esaurimento, sebbene ciò nulla tolga allo sconcio di pensioni da 120 euro mensili come quelle previste per un precario. Tuttavia, occorre essere onesti e precisi quando si parla di queste cose, poiché il rischio è di fare un fascio unico di erba diversa e creare le condizioni per alimentare le radici di un odio sociale assai diffuso di questi tempi.
D’altra parte e qualora si volesse effettuare un’analisi più puntuale, emergerebbe che anche all’interno delle stesse categorie di pensionati esistono differenze macroscopiche dovute ai diversi regimi previdenziali in vigore in passato: tra dirigenti di enti soppressi e confluiti in INPS e dirigenti che hanno maturato la pensione all’interno di quest’istituto sussistono notevolissime differenze, dovute alla presenza di tetti contributivi poi rimossi o di meccanismi di congelamento degli importi maturati, che sarebbe assai complicato qui spiegare. Crediamo sia utile per il lettore comprendere che esistono importi pensionistici anche notevolmente differenziati come risultato di meccanismi di calcolo ormai in via d’esaurimento, in uno scenario preoccupante di precarietà del lavoro che nulla lascia presagire di buono per il futuro.
Infine, rileva Valentina Conte «In tema di pensioni, un'altra distanza ormai incancrenita, perché immutata da almeno cinque anni, è quella tra le aree del Paese. Le pensioni erogate al Sud, scrive l'Istat nel Rapporto annuale, sono più basse di quelle del Nord-ovest di quasi un quinto, ovvero del 19,5% e del 12,1% rispetto alla media nazionale. Per fare un esempio, nel 2009 un pensionato meridionale prendeva in media 9.501 euro lordi l'anno, una cifra di gran lunga inferiore se paragonata agli assegni erogati al Nord-ovest (11.805 euro), Nord-est (10.959 euro) e Centro (11.317 euro). E, ovviamente, alla media nazionale pari a 10.808 euro». Ma anche in questo caso la consistenza del dato va analizzata con riferimento alla natura dei rapporti da lavoro al Sud rispetto al Nord, al sottosalario ed al lavoro nero diffuso più nel Mezzogiorno che nel Settentrione del Paese.
In definitiva, ben venga un dibattito che metta a nudo le distorsioni presenti del sistema pensionistico italiano, ma l’evidenziazione di tali distorsioni non serva per alimentare le false ragioni di uno scontro tra categorie sociali basato esclusivamente sulla errata percezione della realtà di riferimento.

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