giovedì, marzo 29, 2012

Il gioco al massacro

Giovedì, 29 marzo 2012
Non è chiaro ancora quale sia il gioco del professore Monti. E’ certo che nella sua scriteriata e poco scientifica battaglia in difesa delle corbellerie sull’articolo 18, partorite dalla penna del suo giannizzero Fornero, ma orchestrate da una mente malata che intenderebbe approfittare dallo scompiglio generatosi con la gravissima crisi economica in atto per assestare un colpo mortale ai diritti dei lavoratori dipendenti, ha prodotto una frattura profonda nei rapporti con una parte della maggioranza anomala che lo sostiene e con il Quirinale che lo ha voluto come salvatore della patria.
Il sospetto è che il professore, disposto anche a giocarsi la faccia pur di realizzare un disegno oscuro, sia il braccio operativo di una regia occulta, che intende mettere nell’angolo il PD, in significativa ascesa di consensi dopo il disastro berlusconiano, addossandogli la responsabilità della caduta del suo governo per ridare al PdL e alle forze reazionarie e moderate del Paese la credibilità persa in oltre tre anni di vergognosa amministrazione della cosa pubblica.
Sa bene infatti il professore che il PD, al di là delle posizioni intransigenti della CGIL e della Camusso, non potrà mai avallare una modifica dell’articolo 18 che cancella in un solo colpo il sacrosanto diritto di perdere il lavoro per ragioni diverse dalla giusta causa o di comprovate motivazioni oggettive, imputabili a comportamenti contrari ai principi di disciplina, dimostrati inconfutabilmente in sede giudiziale, e non delegati al giudizio strumentale e discutibile dell’imprenditore. Una formulazione così concepita della riforma dell’articolo 18 rappresenterebbe per i lavoratori un salto indietro di mezzo secolo e per il PD, nato dalla rifondazione del PCI e che basa ancora la sua forza sulla saldezza del cordone ombelicale che lo lega alla classe lavoratrice dipendente in senso ampio, lo stravolgimento definitivo della sua matrice operaista. In questa prospettiva non v’è margine per Monti e Fornero per un’imposizione arrogante d’un voto di fiducia, poiché oltre al PD il biglietto per un buon ritiro gli sarebbe messo in mano da IdV- che ha preannunciato un referendum abrogativo nel caso la legge passasse - e Lega Nord, in netto dissenso con l’esecutivo sin dalla sua formazione. Non è, inoltre, peregrina l’ipotesi di defezioni all’interno dello stesso gruppo che, in modo variabile, ha espresso il suo sostanziale assenso alla riforma licenziata.
Questa prospettiva non consente di comprendere le ragioni per le quali il premier, impegnato in oriente in incontri istituzionali, abbia continuato a tuonare come un vecchio trombone sull’immodificabilità del testo sul mercato del lavoro, cingendosi persino il capo di serti d’alloro rappresentati dalle dichiarazioni di plauso dei partner internazionali con i quali si è incontrato. Forse il professor Monti ha sottovalutato che quei plausi provengono da altrettanti squali, Cina compresa, rappresentanti di un capitalismo senza frontiere che sempre ha mal tollerato rispetto di regole e pastoie varie alla sua proterva esuberanza.
Né il dissenso diffuso, non solo di movimenti politici e sindacali, ma anche di cittadini, sulla cui espressione di democraticità a nessuno è consentito nutrire dubbi e men che meno ad un premier pavoneggiante, può essere liquidato con le manipolazioni mediatiche. Il popolo sarà in dissenso con la politica e i partiti, espressione di una neo aristocrazia autoreferenziale, e con le svendute posizioni di qualche leader sindacale, ma è ben lungi dal condividere una riforma profondamente inutile, perniciosa e fascistoide come quella dell’articolo 18. Dunque, asserire che i cittadini “hanno capito” equivale ad affermare solo una verità parziale, che consiste non nella condivisione, ma nella piena comprensione di un disegno malefico che intende fermare gli orologi e tornare ad uno schiavismo imbellettato da modernità in cui il lavoratore è solo merce, materia prima surrogabile a piacimento, senza diritto alcuno di parola e di difesa.
D’altra parte, che questo sia l’orientamento di Monti e del suo esecutivo tecnico s’è già rivelato con la riforma del sistema pensionistico, con il varo di meccanismi dispotici che hanno azzerato lustri di diritti maturati e in poche ore hanno allungato il diritto alla quiescenza di sette anni, oltre a perpetrare con la copertura di una legge infame quanto maturato in anni di versamenti contributivi. Se non questo cos’altro significa tout court il passaggio coatto al sistema contributivo per milioni di lavoratori? Come mai la signora Fornero, la tragediante piagnucolona che ha presentato la riforma e che non ha mai fatto mistero di considerare il precedente sistema retributivo una vera porcata, “un’ingiustizia sociale”, è in prima file nel mantenere il privilegio di quel meccanismo?
La verità è che come nella migliore tradizione cattolica si raccomanda – meglio, s’impone, - di fare ciò che si dice e non ciò che si dà come esempio, magari facendo gli sboroni con i più deboli e tenersi pronti a calar le brache con i poteri forti, - vedi tassisti, professionisti, farmacisti, banche, categorie verso le quali in fase di strombazzamenti sulle liberalizzazioni s’era anticipato un colpo di maglio alle storiche avidità, per poi fare ingloriosa quanto meschina marcia indietro in fase di conversione in legge del provvedimento.
E se quest’andazzo dovesse invece avere l’obiettivo di far rimpiangere all’Italia mentecatta la presenza del giullare di Arcore, che il professore stia tranquillo: non solo è sulla buona strada del recupero degli adepti, ma così continuando sarà in grado di recuperare al Cavalier Viagra tanti neofiti e simpatizzanti, specialmente tra quelli che, stanchi d’essere rappresentati da ladri e cerebrolesi, tutto sommato preferiscono tuffarsi nello sterco quando ne hanno voglia, piuttosto che esservi spinti a viva forza da un esimio luminare d’università, che ignora il senso della giustizia, dell’equità e parecchi dei principi della scienza che si picca d’insegnare.

(nella foto, il quadretto di famiglia del governo Monti, infarcito di sedicenti esperti e tecnici)

mercoledì, marzo 21, 2012

Le bufale del Professore

Mercoledì, 21 marzo 2012
S’immagini di volersi dare all’ippica, magari seguendo i consigli di qualche amico lungimirante, che ha ben capito di che pasta siano le nostre attitudini.
Allora, riconoscenti per l’utile consiglio, ci si mette all’opera. Si cerca una stalla, in cui alloggiare il quadrupede, si contattano i fornitori di biada dove attingere il foraggio, si pensa seriamente all’acquisto di un trasportino, - se mai venisse voglia di far correre la bestia in un altro ippodromo, - non senza aver dotato prima l’auto del provvidenziale gancio di traino e, infine s’acquistano sella, frustino, paramenti e, perché no?, del vestiario acconcio, con tanto di stivali e cappellino.
Tutto sembrerebbe pronto per lanciarsi nella nuova avventura, poco importa se amatoriale o con finalità più imprenditive, senonché ci si rende conto a quel punto, forse tardivamente, che manca l’oggetto più importante e fondamentale per l’avvio di quella pratica: il cavallo.
Questo procedimento, forse un po’ eccentrico per non dire demenziale, è quello che pare aver seguito sino ad oggi il signor Monti e i suoi discepoli da quando s’è insediato alla guida del Paese. Ha cominciato con lo spread, curato a suon di tagliole fiscali e di roboanti minacce di morte all’evasore. E’ proseguito con una cervellotica riforma delle pensioni, che nulla ha prodotto in favore dell’occupazione se non la disperazione di chi s’è vista sparire ogni possibilità di sopravvivenza con un magro assegno di quiescenza, nell’impossibilità di trovare un’occupazione qualunque che generasse reddito per sé e la sua famiglia. S’è concluso alcune ore or sono con un bluff degno dei migliori maestri delle tre carte da mercatini rionali sul tema “riforma del mercato del lavoro”, come titolo principale, e “cancellazione degli ammortizzatori sociali” e “azzeramento dell’articolo 18” come occhiello e sottotitolo. Il tutto condito dal suono di un’estenuante quanto disgustosa litania di maggiore equità e giustizia sociale o distribuzione equilibrata dei sacrifici per il risanamento, ripetuta ossessivamente urbi et orbi quasi a convincere se stessi prima ancora che il disincantato pubblico dei cittadini italioti. Un pubblico fatto oramai di nauseati incurabili per l’ennesima tentativo plateale di abbindolare la loro creduloneria in virtù del fatto che l’impegno questa volta provenisse per bocca di conclamati luminari della cultura nazionale e non dai soliti ceffi di Casini, Berlusconi, Alfano o qualche altro membro della benemerita consorteria di ladri, imbroglioni, tangentisti che ammorbano i palazzi del potere.
Certo, è innegabile che il famigerato spread tra titoli del debito italiano e bund tedeschi si sia ridotto vistosamente con la cura Monti, passando dai quasi 600 punti a poco meno di 280 nello scorcio di un paio di mesi. Ma c’è da chiedersi con serenità è meno entusiasmo quali siano i meriti di questo prodigioso governo, dato che non bisogna possedere alcuna scienza infusa per sapere che con la riduzione del cibo ingerito si ottengono effetti miracolosi sulla silhouette: ma che bravi quest’Italiani che nell’arco di 60 giorni sono riusciti a mettersi in carreggiata. Qui, cari amici, non c’è nessuna bravura. C’è solo l’effetto del taglio selvaggio delle disponibilità economiche per l’acquisto anche dei generi di prima necessità; c’è un’escalation della tassazione a livelli inauditi, che non lascia spazio a spese aggiuntive a quelle per bollette, imposte e gabelle. Ma a fronte di questo strepitoso successo rimane aperta la questione ripresa e sviluppo, quell’araba fenice inafferrabile di cui ci si riempie la bocca ma che nessuno ha mai visto. Rimane aperta altresì la questione dell’equità, cioè della ripartizione dei sacrifici, che fino a questo momento ha avuto vittime più che certe che attendono di vedere in quale modo imprenditori di grido, finanzieri d’assalto, - e perché no?, - la feccia politica che rapina il Paese saranno chiamati a versare il loro contributo, contributo ben più sostanzioso di quello che con spocchia sommaria è stato imposto a muratori ed elettrauto, a operai ed impiegati.
C’è, infine, la questione sviluppo e rilancio dell’economia, che dovrebbe passare attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e l’allargamento della base distributiva della ricchezza. E qui, francamente, ci pare s’arrivi alla storia del cavallo ancora d’acquistare, mentre stalla ed orpelli accessori, almeno nelle dichiarazioni d’intento, sembrerebbero esserci tutti: taglio delle pensioni, manovra per il taglio del debito, riforma del mercato del lavoro, con annessa libertà di licenziare. Cavallo al cui arrivo sono in pochi a credere, visto che le premesse lasciano intravvedere al massimo possibilità per l’acquisto d’un modesto asinello e non certo d’un focoso destriero.
Forse alla luce dei fatti sarebbe stato meglio dedicarsi all’allevamento di bufale, attività che ci pare decisamente più consona alla credibilità del governo tecnico di cui parliamo.
Nel frattempo, mentre fiduciosi s’attende Godot, si deve prendere atto anche di un vistoso calo della democrazia, di un’espansione senza confine di quelle pratiche decisionistiche e autoritarie, che hanno svuotato il ruolo delle istituzioni parlamentari a colpi di voto di fiducia – 12 in quattro mesi di vita dell’attuale governo, -ed hanno avvelenato, al grido di “nessun ponga veti”, il confronto civile e la ricerca del consenso: qui gli unici che pongon veti sono coloro che esortano gli altri a non porne più, nel pieno rispetto di quella tradizione catto-fascista che predica di fare ciò che si chiede e non d’imitare i comportamenti cui s’assiste.
Ma la situazione ormai sembra volgere al capolinea. Questo governo, voluto da Napolitano e sostenuto dall’ignava coalizione PdL/PD/UDC, il famigerato trio Alfano-Bersani-Casini, sta per consumare i margini che lo mantengono in vita, poiché le scelte imposte in materia di lavoro obbligheranno molto presto qualcuno di questi a venire allo scoperto e dimostrare in modo ineludibile da quale parte intende schierarsi nella difesa degli interessi del proprio elettorato.
Questo passaggio sarà particolarmente delicato per il PD, quel partito fondato sulla difesa delle istanze della classe lavoratrice, guarda caso proprio quella che dalla cura del professor Monti e della sua equipe di medici e infermieri ha subito i maggiori traumi.

(nella foto, Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, rimasta l'ultimo baluardo in difesa dell'art. 18 e della politica di restaurazione del governo Monti)

martedì, marzo 20, 2012

Totem e tabù

Martedì, 20 marzo 2012
In queste ore si sta consumando la battaglia tra il governo e le organizzazioni sindacali sulla riforma del mercato del lavoro, voluta da Mario Monti e accettata, obtorto collo, da CGIL, CISL e UIL.
E’ una battaglia dal sapore amaro per svariate ragioni, poiché si combatte quando, come si suole, dire i buoi sono scappati dal recinto, quindi tardivamente; si svolge in uno scenario di gravissima recessione economica, dunque di contrazione fortissima della domanda; è compromessa da precedenti colpi di mano dello stesso governo in tema di pensionamento, che con l’innalzamento dell’età di quiescenza ha occluso il fronte del turn over; è straordinariamente inquinata da pregiudizi ideologici, che nulla hanno a che vedere con l’effettiva capacità della riforma medesima di contribuire in qualche modo alla creazione di nuovi posti di lavoro o di nuove opportunità d’impiego. Vi è, in fine, un pregiudizio pesantissimo che condiziona il confronto-scontro tra le parti in causa, costituito dalla dichiarata volontà dell’esecutivo di riformare comunque il mercato del lavoro, anche in assenza di un accordo con le parti sociali.
Tutto ciò in presenza di buon senso sarebbe stato di per sé sufficiente a far concludere che la tempistica e le condizioni sociali non erano certo favorevoli all’avvio di una trattativa su un tema così scottante. Infatti, sarebbe stato sufficiente intervenire con la cancellazione per legge delle storture più eclatanti che hanno mortificato la civiltà del lavoro, rappresentate dalle aberrazioni introdotte dalla cosiddetta legge Biagi e dall’esasperazione senza regole del precariato. Ma il governo, quello dei sedicenti tecnici, che avrebbe dovuto guidare il Paese fuori dalla palude mefitica della crisi, quello insediatosi per far fronte all’ignavia dei partiti, ha ritenuto di dover trattare questo tema, spacciando la volontà restauratrice di un capitalismo comatoso, ma sempre pronto ad azzannare, per una via attraverso la quale creare le premesse per una risalita della china, al punto da minacciare atti di decisionismo autoritario in assenza di un’intesa su un quadro di riforma già preconfezionato.
Questa aberrante modalità, già denunciata sulle righe di questo blog, è stata ancora una volta confermata da Pierre Carniti, ex leader della Cisl negli anni ‘70/’80, nel corso della trasmissione l’Infedele di Gad Lerner, nella quale ha senza mezzi termini parlato di metodo di “democrazia orientale,” a proposito dell’atteggiamento di Monti, e di assoluta indimostrabilità di ogni nesso tra riduzione o cancellazione della tutela attuale della stabilità del posto di lavoro e crescita occupazionale. A sostegno di quest’ovvia affermazione, Carniti ha rammentato che il mercato del lavoro rispetta le logiche comuni dell’economia e cioè che l’andamento occupazionale non è che il prodotto dell’incrocio di due curve, quella della domanda e quella dell’offerta, in base al quale si determinano le condizioni d'equilibrio dell’impiego. Dunque, ogni minor tutela della stabilità del posto non costituisce un presupposto scientificamente convincente a favore di maggiore occupazione. Ne discende che il turn over s'incrementa per effetto di misure che ne possano favorire l’accelerazione: incentivi al pensionamento, riduzione della pressione fiscale e contributiva, agevolazioni contributive per l’impiego di nuove risorse, alleggerimento della fiscalità e incremento corrispondente delle disponibilità reddituali da destinare al consumo, rilancio dell’attività produttiva.
E che queste siano le imprescindibili condizioni per la ripresa occupazionale è cosa talmente consolidata che stupisce che il professor Monti finga di non saperlo. La modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, - quello che inibisce la libertà di disporre del licenziamento a piacimento dell’imprenditore, - non può essere considerata in alcun modo l’elemento frenante alla ripresa economica, all’avvio di nuove intraprese produttive, nazionali o estere, che creino nuova occupazione o condizioni di ammodernamento e di maggiore flessibilità. Negare quest’evidenza è solo un modo protervo per eludere l’ammissione di verità inconfessabili e per scaricare ancora una volta sulla parte più debole della società il fardello di una crisi frutto degli errori della speculazione finanziaria e di un capitalismo malato, che tenta con ogni mezzo di risorgere dalla cenere della propria distruzione.
E’ dimostrazione di quest’approccio la tigna con la quale qualunque intervento è stato rifiutato da questo governo nei confronti delle rendite patrimoniali e finanziarie, nei confronti di quei santuari della speculazione che hanno tratto ingenti vantaggi dalla destabilizzazione dei mercati e dal vertiginoso aumento dei prezzi delle materie prime e delle risorse energetiche, che come in una spirale senza fine indeboliscono ulteriormente la tenuta del tessuto economico: si guardi al prezzo del petrolio e dei suoi derivati, prodotti fondamentali nel ciclo economico, per acquisire un riscontro immediato di come la crisi abbia colpito le categorie deboli del reddito fisso e si sia invece rivelata una lucrosa fonte di guadagno per i grandi monopoli finanziari. E se tutto ciò è documentalmente vero è ancor più grave l’entità del delitto sociale che si profila con l’esproprio ai danni delle classi lavoratrici di ogni tutela sul posto di lavoro: forse il professor Monti e la sua congrega di insigni docenti non s’è reso conto, nonostante sia costretto a conviverci, che il motivo per il quale gli investimenti produttivi latitano o le imprese straniere non affrontino iniziative nel nostro Paese, al di là della congiuntura sfavorevole, è da ricercare nell’incredibile livello di corruzione diffusa, che corrode da Nord a Sud la Penisola.
Chi scrive vive in una tipica area del Sud, in cui le poche imprese che sorgono sono in larga misura il frutto del riciclo di denaro di dubbia provenienza, in cui l’attività imprenditoriale è soggetta a condizionamenti vessatori di stampo mafioso, in cui gli imprenditori, figli di una cultura della sopraffazione delle regole e del malaffare, prima che illuminati affaristi sono autentici aguzzini che sfruttano in maniera rivoltante i miserabili bisognosi di lavorare, con contratti al più fasulli, con retribuzioni saltuarie e da accattoni, con orari di lavoro massacranti e da schiavi, con omissioni contributive generalizzate e impunite, con condizioni complessive di lavoro in cui parlare di articolo 18 è come dibattere di realtà scandinave, lontane anni luce da quegli ambienti.
Se davanti a questa realtà il governo di Monti e dei cattedratici intende perseverare sordo nel conseguimento di un nuovo assetto sociale e del mercato del lavoro, smetta di sventolare ridicoli feticci e di nascondere l’intendimento restauratore dietro a totem posticci, ma imponga piuttosto un minimo di regole di civiltà, attingendo al rispetto di quelle quattro norme di buon senso che già esistono inosservate con la complicità delle istituzioni nel nostro sistema legislativo.

mercoledì, marzo 14, 2012

I principi traditi della gestione della crisi

Mercoledì, 14 marzo 2012
I mercati e le economie mondiali sono da sempre esposti ai rischi di crisi che ne destabilizzano l’assetto. Tale fenomeno, innescato dal mutare degli equilibri esistenti in un dato periodo storico tra i fattori economici e le variabili che ne determinano l’equilibrio stesso, è ciclicamente ricorrente, influenzato com’è dall’andamento di politiche industriali, assetti del mercato del lavoro, andamenti occupazionali, trend dei prezzi dei beni e delle materie prime, politiche occupazionali, movimenti dei mercati finanziari e, non ultimi, approcci gestionali di politica economica e di bilancio pubblico.
Questi fattori, in buona misura esemplificativi e non esaustivi, nel quadro di un’economia globalizzata, determinano rilevanti ripercussioni sulla stabilità economica di intere nazioni, poiché si riflettono sulla rete dei mercati internazionali e generano effetti domino di rilevante portata.
La globalizzazione dei mercati ha inoltre prodotto un ulteriore fattore di instabilità, costituito dalla ciclicità sempre più rapida e ravvicinata delle fasi di boom e di depressione. Proprio in ragione di questi legami assai stretti tra mercati finanziari, il fallimento di Lehman Brothers del 2008 ha fatto precipitare nel panico le borse mondiali, con effetti devastanti sull'intero sistema economico-finanziario mondiale. La bancarotta ha superato per grandezza quella di gruppi come Worldcom o Enron (fino ad allora i più grandi fallimenti della storia degli USA), ed ha innescato un processo a catena che ha trascinato sull’orlo del baratro intere economie statali come quella Irlandese, Islandese, Portoghese, Italiana, Greca e Spagnola, che già si muovevano su un difficile equilibrio di debito pubblico. Ciò ha reso urgente l’attivazione di misure di risanamento, tese a creare le condizioni per nuovo sviluppo e, nello stesso tempo, rientro dai paurosi deficit bilancio non più sostenibili. Naturalmente, com’era prevedibile, la crisi economica e quindi il calo degli scambi commerciali, ha determinato una profonda contrazione dei redditi, causa la riduzione delle forza lavoro attiva a cui hanno fatto ricorso le aziende per fronteggiare il calo della domanda. Allo stesso tempo, l’esigenza di ridurre i deficit di bilancio ha reso necessario un vertiginoso aumento dell’imposizione fiscale, che s’è scaricato su una realtà già fortemente minata da disoccupazione crescente e scarsezza di risorse pubbliche idonee per fronteggiare l’emergenza sociale che man mano si delineava. Ovviamente un aumento della pressione fiscale non poteva che tentare di scaricarsi in parte sul mercato dei beni, con un effetto depressivo a spirale difficilmente controllabile, che in parte ha vanificato i tentativi di risanamento avviati.
Queste politiche di risanamento, infatti, hanno dovuto fare i conti con un fenomeno sconosciuto alla teoria keynesiana tradizionale, ma oggetto di studio già dalla fine degli anni sessanta da parte del Nobel per l’economia Milton Friedman, noto con il nome di stagflazione, cioè aumento dei prezzi e nello stesso tempo stagnazione dell’economia reale.
La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali. Precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato. Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile invece con prezzi in aumento, ma solo con prezzi in diminuzione in linea col calo della domanda per effetto della diminuzione dei consumi, cioè in regime di recessione.
E’ noto che per fronteggiare l’inflazione secondo le teorie classiche è necessario ridurre la massa del circolante attraverso manovre sui tassi d’interesse e la pressione fiscale, ma quest’approccio non può che penalizzare in modo significativo un economia in stagnazione, che invece avrebbe bisogno di forti iniezioni di liquidità per rilanciare i consumi e l’occupazione.
La trappola della stagflazione impone invece una terza via, dato che le misure dette precedentemente mal si addicono a curare fenomeni economici in evidente conflittuale opposizione. E questa terza via è quella dell’intervento massiccio sul taglio della spesa pubblica improduttiva, che genera solo emorragia di risorse senza alcun ritorno tangibile in termini di sviluppo per il sistema. Tocca infine al sistema bancario calibrare i movimenti di liquidità nel sistema, con finanziamenti di iniziative di sviluppo e con l’allocazione più mirata della massa monetaria disponibile.
Quantunque queste regole rappresentino principi basilari di scuola, la scelta dei meccanismi e l’ampiezza del loro impiego non possono essere considerati scevri da condizionamenti ideologici di natura politica, specialmente quando, come nella crisi che attanaglia il mondo occidentale dal 2007 con il default del sub prime americano, l’occhio del ciclone è costituito dal sistema bancario e finanziario. In pratica, mentre le banche avrebbero dovuto giocare un ruolo determinante nel ripristino delle regole d’equilibrio del mercato, nella circostanza sono state le vere e indiscusse artefici di una crisi senza precedenti, che le ha costrette a ricorrere a ingenti operazioni di ricapitalizzazione e ad una chiusura dei cordoni della borsa per limitare il rischio di insolvenze e, dunque, a loro volta di default. Il paradosso sta proprio nel fatto che mentre le autorità monetarie internazionali sono corse in aiuto dei sistemi bancari nazionali, elargendo incredibili volumi di finanziamento ad altrettanto incredibili tassi agevolati, le banche hanno utilizzato quei fondi non per finanziare nuove iniziative imprenditoriali ma per fare incetta di titoli del debito pubblico, giusto per lucrare sullo spread tra i tassi attivi e tassi passivi imposti loro sui finanziamenti ricevuti.
Sul fronte della politica economica, il governo Monti, nonostante composto da tecnici perfettamente in grado di comprendere e gestire le distorsioni generatesi nel sistema a causa delle scelte di politica creditizia imposta dalle banche, nulla d’incisivo ha fatto per correggere quest’andamento. Anzi, in perfetta sintonia con la dimostrata insufficienza della teoria keynesiana in materia, la scelta è stata quella di strangolare il paese con cure fiscali da cavallo e nessuna aasunzione d'iniziativa per il taglio drastico della spesa pubblica improduttiva.
Gli stessi interventi draconiani sul sistema pensionistico, salutati da più parti come necessari e sintomo di quel rigore auspicato sulla spesa, hanno dimostrato la loro spietata natura vessatoria sui redditi e, quindi, sulla capacità di generare in qualche misura una fonte di spinta al consumo per l’intero sistema economico, senza produrre nel breve periodo alcun effetto sulla creazione di riserve finanziarie per spese produttive. Gli effetti di questi presunti “risparmi”, giocati ancora una volta sulla pelle di categorie deboli prive di qualunque strumento alternativo per recuperare le penalizzazioni subite, non solo si vedranno nel lungo termine, ma serviranno ha mantenere in vita i capitoli di spesa necessari per foraggiare apparati burocratici di conclamata inutilità e sistemi di privilegi medievali a favore di caste improduttive, mentre la crisi andrà avanti chissà per quanto tempo e gli oneri della sua gestione continueranno a gravare esclusivamente su chi, grazie ad un infame e perverso sistema fiscale, non può sfuggire alla persecuzione di un governo, nei fatti, censocratico.
C'è da chiedersi se i professori di cui è infarcito questo governo così spallegiato da destra e sinistra, - probabilmente per coprire la rispettiva inettitudine, - avrebbero mai il coraggio di insegnare ai loro studenti le misure che sino ad ora hanno messo in pratica, spacciandole per buone e per regole di teoria economica, senza temere di rischiare le pernacchie.