I principi traditi della gestione della crisi
Mercoledì, 14 marzo 2012
I mercati e le economie mondiali sono da sempre esposti ai rischi di crisi che ne destabilizzano l’assetto. Tale fenomeno, innescato dal mutare degli equilibri esistenti in un dato periodo storico tra i fattori economici e le variabili che ne determinano l’equilibrio stesso, è ciclicamente ricorrente, influenzato com’è dall’andamento di politiche industriali, assetti del mercato del lavoro, andamenti occupazionali, trend dei prezzi dei beni e delle materie prime, politiche occupazionali, movimenti dei mercati finanziari e, non ultimi, approcci gestionali di politica economica e di bilancio pubblico.
Questi fattori, in buona misura esemplificativi e non esaustivi, nel quadro di un’economia globalizzata, determinano rilevanti ripercussioni sulla stabilità economica di intere nazioni, poiché si riflettono sulla rete dei mercati internazionali e generano effetti domino di rilevante portata.
La globalizzazione dei mercati ha inoltre prodotto un ulteriore fattore di instabilità, costituito dalla ciclicità sempre più rapida e ravvicinata delle fasi di boom e di depressione. Proprio in ragione di questi legami assai stretti tra mercati finanziari, il fallimento di Lehman Brothers del 2008 ha fatto precipitare nel panico le borse mondiali, con effetti devastanti sull'intero sistema economico-finanziario mondiale. La bancarotta ha superato per grandezza quella di gruppi come Worldcom o Enron (fino ad allora i più grandi fallimenti della storia degli USA), ed ha innescato un processo a catena che ha trascinato sull’orlo del baratro intere economie statali come quella Irlandese, Islandese, Portoghese, Italiana, Greca e Spagnola, che già si muovevano su un difficile equilibrio di debito pubblico. Ciò ha reso urgente l’attivazione di misure di risanamento, tese a creare le condizioni per nuovo sviluppo e, nello stesso tempo, rientro dai paurosi deficit bilancio non più sostenibili. Naturalmente, com’era prevedibile, la crisi economica e quindi il calo degli scambi commerciali, ha determinato una profonda contrazione dei redditi, causa la riduzione delle forza lavoro attiva a cui hanno fatto ricorso le aziende per fronteggiare il calo della domanda. Allo stesso tempo, l’esigenza di ridurre i deficit di bilancio ha reso necessario un vertiginoso aumento dell’imposizione fiscale, che s’è scaricato su una realtà già fortemente minata da disoccupazione crescente e scarsezza di risorse pubbliche idonee per fronteggiare l’emergenza sociale che man mano si delineava. Ovviamente un aumento della pressione fiscale non poteva che tentare di scaricarsi in parte sul mercato dei beni, con un effetto depressivo a spirale difficilmente controllabile, che in parte ha vanificato i tentativi di risanamento avviati.
Queste politiche di risanamento, infatti, hanno dovuto fare i conti con un fenomeno sconosciuto alla teoria keynesiana tradizionale, ma oggetto di studio già dalla fine degli anni sessanta da parte del Nobel per l’economia Milton Friedman, noto con il nome di stagflazione, cioè aumento dei prezzi e nello stesso tempo stagnazione dell’economia reale.
La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali. Precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato. Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile invece con prezzi in aumento, ma solo con prezzi in diminuzione in linea col calo della domanda per effetto della diminuzione dei consumi, cioè in regime di recessione.
E’ noto che per fronteggiare l’inflazione secondo le teorie classiche è necessario ridurre la massa del circolante attraverso manovre sui tassi d’interesse e la pressione fiscale, ma quest’approccio non può che penalizzare in modo significativo un economia in stagnazione, che invece avrebbe bisogno di forti iniezioni di liquidità per rilanciare i consumi e l’occupazione.
La trappola della stagflazione impone invece una terza via, dato che le misure dette precedentemente mal si addicono a curare fenomeni economici in evidente conflittuale opposizione. E questa terza via è quella dell’intervento massiccio sul taglio della spesa pubblica improduttiva, che genera solo emorragia di risorse senza alcun ritorno tangibile in termini di sviluppo per il sistema. Tocca infine al sistema bancario calibrare i movimenti di liquidità nel sistema, con finanziamenti di iniziative di sviluppo e con l’allocazione più mirata della massa monetaria disponibile.
Quantunque queste regole rappresentino principi basilari di scuola, la scelta dei meccanismi e l’ampiezza del loro impiego non possono essere considerati scevri da condizionamenti ideologici di natura politica, specialmente quando, come nella crisi che attanaglia il mondo occidentale dal 2007 con il default del sub prime americano, l’occhio del ciclone è costituito dal sistema bancario e finanziario. In pratica, mentre le banche avrebbero dovuto giocare un ruolo determinante nel ripristino delle regole d’equilibrio del mercato, nella circostanza sono state le vere e indiscusse artefici di una crisi senza precedenti, che le ha costrette a ricorrere a ingenti operazioni di ricapitalizzazione e ad una chiusura dei cordoni della borsa per limitare il rischio di insolvenze e, dunque, a loro volta di default. Il paradosso sta proprio nel fatto che mentre le autorità monetarie internazionali sono corse in aiuto dei sistemi bancari nazionali, elargendo incredibili volumi di finanziamento ad altrettanto incredibili tassi agevolati, le banche hanno utilizzato quei fondi non per finanziare nuove iniziative imprenditoriali ma per fare incetta di titoli del debito pubblico, giusto per lucrare sullo spread tra i tassi attivi e tassi passivi imposti loro sui finanziamenti ricevuti.
Sul fronte della politica economica, il governo Monti, nonostante composto da tecnici perfettamente in grado di comprendere e gestire le distorsioni generatesi nel sistema a causa delle scelte di politica creditizia imposta dalle banche, nulla d’incisivo ha fatto per correggere quest’andamento. Anzi, in perfetta sintonia con la dimostrata insufficienza della teoria keynesiana in materia, la scelta è stata quella di strangolare il paese con cure fiscali da cavallo e nessuna aasunzione d'iniziativa per il taglio drastico della spesa pubblica improduttiva.
Gli stessi interventi draconiani sul sistema pensionistico, salutati da più parti come necessari e sintomo di quel rigore auspicato sulla spesa, hanno dimostrato la loro spietata natura vessatoria sui redditi e, quindi, sulla capacità di generare in qualche misura una fonte di spinta al consumo per l’intero sistema economico, senza produrre nel breve periodo alcun effetto sulla creazione di riserve finanziarie per spese produttive. Gli effetti di questi presunti “risparmi”, giocati ancora una volta sulla pelle di categorie deboli prive di qualunque strumento alternativo per recuperare le penalizzazioni subite, non solo si vedranno nel lungo termine, ma serviranno ha mantenere in vita i capitoli di spesa necessari per foraggiare apparati burocratici di conclamata inutilità e sistemi di privilegi medievali a favore di caste improduttive, mentre la crisi andrà avanti chissà per quanto tempo e gli oneri della sua gestione continueranno a gravare esclusivamente su chi, grazie ad un infame e perverso sistema fiscale, non può sfuggire alla persecuzione di un governo, nei fatti, censocratico.
C'è da chiedersi se i professori di cui è infarcito questo governo così spallegiato da destra e sinistra, - probabilmente per coprire la rispettiva inettitudine, - avrebbero mai il coraggio di insegnare ai loro studenti le misure che sino ad ora hanno messo in pratica, spacciandole per buone e per regole di teoria economica, senza temere di rischiare le pernacchie.
Questi fattori, in buona misura esemplificativi e non esaustivi, nel quadro di un’economia globalizzata, determinano rilevanti ripercussioni sulla stabilità economica di intere nazioni, poiché si riflettono sulla rete dei mercati internazionali e generano effetti domino di rilevante portata.
La globalizzazione dei mercati ha inoltre prodotto un ulteriore fattore di instabilità, costituito dalla ciclicità sempre più rapida e ravvicinata delle fasi di boom e di depressione. Proprio in ragione di questi legami assai stretti tra mercati finanziari, il fallimento di Lehman Brothers del 2008 ha fatto precipitare nel panico le borse mondiali, con effetti devastanti sull'intero sistema economico-finanziario mondiale. La bancarotta ha superato per grandezza quella di gruppi come Worldcom o Enron (fino ad allora i più grandi fallimenti della storia degli USA), ed ha innescato un processo a catena che ha trascinato sull’orlo del baratro intere economie statali come quella Irlandese, Islandese, Portoghese, Italiana, Greca e Spagnola, che già si muovevano su un difficile equilibrio di debito pubblico. Ciò ha reso urgente l’attivazione di misure di risanamento, tese a creare le condizioni per nuovo sviluppo e, nello stesso tempo, rientro dai paurosi deficit bilancio non più sostenibili. Naturalmente, com’era prevedibile, la crisi economica e quindi il calo degli scambi commerciali, ha determinato una profonda contrazione dei redditi, causa la riduzione delle forza lavoro attiva a cui hanno fatto ricorso le aziende per fronteggiare il calo della domanda. Allo stesso tempo, l’esigenza di ridurre i deficit di bilancio ha reso necessario un vertiginoso aumento dell’imposizione fiscale, che s’è scaricato su una realtà già fortemente minata da disoccupazione crescente e scarsezza di risorse pubbliche idonee per fronteggiare l’emergenza sociale che man mano si delineava. Ovviamente un aumento della pressione fiscale non poteva che tentare di scaricarsi in parte sul mercato dei beni, con un effetto depressivo a spirale difficilmente controllabile, che in parte ha vanificato i tentativi di risanamento avviati.
Queste politiche di risanamento, infatti, hanno dovuto fare i conti con un fenomeno sconosciuto alla teoria keynesiana tradizionale, ma oggetto di studio già dalla fine degli anni sessanta da parte del Nobel per l’economia Milton Friedman, noto con il nome di stagflazione, cioè aumento dei prezzi e nello stesso tempo stagnazione dell’economia reale.
La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali. Precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato. Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile invece con prezzi in aumento, ma solo con prezzi in diminuzione in linea col calo della domanda per effetto della diminuzione dei consumi, cioè in regime di recessione.
E’ noto che per fronteggiare l’inflazione secondo le teorie classiche è necessario ridurre la massa del circolante attraverso manovre sui tassi d’interesse e la pressione fiscale, ma quest’approccio non può che penalizzare in modo significativo un economia in stagnazione, che invece avrebbe bisogno di forti iniezioni di liquidità per rilanciare i consumi e l’occupazione.
La trappola della stagflazione impone invece una terza via, dato che le misure dette precedentemente mal si addicono a curare fenomeni economici in evidente conflittuale opposizione. E questa terza via è quella dell’intervento massiccio sul taglio della spesa pubblica improduttiva, che genera solo emorragia di risorse senza alcun ritorno tangibile in termini di sviluppo per il sistema. Tocca infine al sistema bancario calibrare i movimenti di liquidità nel sistema, con finanziamenti di iniziative di sviluppo e con l’allocazione più mirata della massa monetaria disponibile.
Quantunque queste regole rappresentino principi basilari di scuola, la scelta dei meccanismi e l’ampiezza del loro impiego non possono essere considerati scevri da condizionamenti ideologici di natura politica, specialmente quando, come nella crisi che attanaglia il mondo occidentale dal 2007 con il default del sub prime americano, l’occhio del ciclone è costituito dal sistema bancario e finanziario. In pratica, mentre le banche avrebbero dovuto giocare un ruolo determinante nel ripristino delle regole d’equilibrio del mercato, nella circostanza sono state le vere e indiscusse artefici di una crisi senza precedenti, che le ha costrette a ricorrere a ingenti operazioni di ricapitalizzazione e ad una chiusura dei cordoni della borsa per limitare il rischio di insolvenze e, dunque, a loro volta di default. Il paradosso sta proprio nel fatto che mentre le autorità monetarie internazionali sono corse in aiuto dei sistemi bancari nazionali, elargendo incredibili volumi di finanziamento ad altrettanto incredibili tassi agevolati, le banche hanno utilizzato quei fondi non per finanziare nuove iniziative imprenditoriali ma per fare incetta di titoli del debito pubblico, giusto per lucrare sullo spread tra i tassi attivi e tassi passivi imposti loro sui finanziamenti ricevuti.
Sul fronte della politica economica, il governo Monti, nonostante composto da tecnici perfettamente in grado di comprendere e gestire le distorsioni generatesi nel sistema a causa delle scelte di politica creditizia imposta dalle banche, nulla d’incisivo ha fatto per correggere quest’andamento. Anzi, in perfetta sintonia con la dimostrata insufficienza della teoria keynesiana in materia, la scelta è stata quella di strangolare il paese con cure fiscali da cavallo e nessuna aasunzione d'iniziativa per il taglio drastico della spesa pubblica improduttiva.
Gli stessi interventi draconiani sul sistema pensionistico, salutati da più parti come necessari e sintomo di quel rigore auspicato sulla spesa, hanno dimostrato la loro spietata natura vessatoria sui redditi e, quindi, sulla capacità di generare in qualche misura una fonte di spinta al consumo per l’intero sistema economico, senza produrre nel breve periodo alcun effetto sulla creazione di riserve finanziarie per spese produttive. Gli effetti di questi presunti “risparmi”, giocati ancora una volta sulla pelle di categorie deboli prive di qualunque strumento alternativo per recuperare le penalizzazioni subite, non solo si vedranno nel lungo termine, ma serviranno ha mantenere in vita i capitoli di spesa necessari per foraggiare apparati burocratici di conclamata inutilità e sistemi di privilegi medievali a favore di caste improduttive, mentre la crisi andrà avanti chissà per quanto tempo e gli oneri della sua gestione continueranno a gravare esclusivamente su chi, grazie ad un infame e perverso sistema fiscale, non può sfuggire alla persecuzione di un governo, nei fatti, censocratico.
C'è da chiedersi se i professori di cui è infarcito questo governo così spallegiato da destra e sinistra, - probabilmente per coprire la rispettiva inettitudine, - avrebbero mai il coraggio di insegnare ai loro studenti le misure che sino ad ora hanno messo in pratica, spacciandole per buone e per regole di teoria economica, senza temere di rischiare le pernacchie.
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