martedì, marzo 20, 2012

Totem e tabù

Martedì, 20 marzo 2012
In queste ore si sta consumando la battaglia tra il governo e le organizzazioni sindacali sulla riforma del mercato del lavoro, voluta da Mario Monti e accettata, obtorto collo, da CGIL, CISL e UIL.
E’ una battaglia dal sapore amaro per svariate ragioni, poiché si combatte quando, come si suole, dire i buoi sono scappati dal recinto, quindi tardivamente; si svolge in uno scenario di gravissima recessione economica, dunque di contrazione fortissima della domanda; è compromessa da precedenti colpi di mano dello stesso governo in tema di pensionamento, che con l’innalzamento dell’età di quiescenza ha occluso il fronte del turn over; è straordinariamente inquinata da pregiudizi ideologici, che nulla hanno a che vedere con l’effettiva capacità della riforma medesima di contribuire in qualche modo alla creazione di nuovi posti di lavoro o di nuove opportunità d’impiego. Vi è, in fine, un pregiudizio pesantissimo che condiziona il confronto-scontro tra le parti in causa, costituito dalla dichiarata volontà dell’esecutivo di riformare comunque il mercato del lavoro, anche in assenza di un accordo con le parti sociali.
Tutto ciò in presenza di buon senso sarebbe stato di per sé sufficiente a far concludere che la tempistica e le condizioni sociali non erano certo favorevoli all’avvio di una trattativa su un tema così scottante. Infatti, sarebbe stato sufficiente intervenire con la cancellazione per legge delle storture più eclatanti che hanno mortificato la civiltà del lavoro, rappresentate dalle aberrazioni introdotte dalla cosiddetta legge Biagi e dall’esasperazione senza regole del precariato. Ma il governo, quello dei sedicenti tecnici, che avrebbe dovuto guidare il Paese fuori dalla palude mefitica della crisi, quello insediatosi per far fronte all’ignavia dei partiti, ha ritenuto di dover trattare questo tema, spacciando la volontà restauratrice di un capitalismo comatoso, ma sempre pronto ad azzannare, per una via attraverso la quale creare le premesse per una risalita della china, al punto da minacciare atti di decisionismo autoritario in assenza di un’intesa su un quadro di riforma già preconfezionato.
Questa aberrante modalità, già denunciata sulle righe di questo blog, è stata ancora una volta confermata da Pierre Carniti, ex leader della Cisl negli anni ‘70/’80, nel corso della trasmissione l’Infedele di Gad Lerner, nella quale ha senza mezzi termini parlato di metodo di “democrazia orientale,” a proposito dell’atteggiamento di Monti, e di assoluta indimostrabilità di ogni nesso tra riduzione o cancellazione della tutela attuale della stabilità del posto di lavoro e crescita occupazionale. A sostegno di quest’ovvia affermazione, Carniti ha rammentato che il mercato del lavoro rispetta le logiche comuni dell’economia e cioè che l’andamento occupazionale non è che il prodotto dell’incrocio di due curve, quella della domanda e quella dell’offerta, in base al quale si determinano le condizioni d'equilibrio dell’impiego. Dunque, ogni minor tutela della stabilità del posto non costituisce un presupposto scientificamente convincente a favore di maggiore occupazione. Ne discende che il turn over s'incrementa per effetto di misure che ne possano favorire l’accelerazione: incentivi al pensionamento, riduzione della pressione fiscale e contributiva, agevolazioni contributive per l’impiego di nuove risorse, alleggerimento della fiscalità e incremento corrispondente delle disponibilità reddituali da destinare al consumo, rilancio dell’attività produttiva.
E che queste siano le imprescindibili condizioni per la ripresa occupazionale è cosa talmente consolidata che stupisce che il professor Monti finga di non saperlo. La modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, - quello che inibisce la libertà di disporre del licenziamento a piacimento dell’imprenditore, - non può essere considerata in alcun modo l’elemento frenante alla ripresa economica, all’avvio di nuove intraprese produttive, nazionali o estere, che creino nuova occupazione o condizioni di ammodernamento e di maggiore flessibilità. Negare quest’evidenza è solo un modo protervo per eludere l’ammissione di verità inconfessabili e per scaricare ancora una volta sulla parte più debole della società il fardello di una crisi frutto degli errori della speculazione finanziaria e di un capitalismo malato, che tenta con ogni mezzo di risorgere dalla cenere della propria distruzione.
E’ dimostrazione di quest’approccio la tigna con la quale qualunque intervento è stato rifiutato da questo governo nei confronti delle rendite patrimoniali e finanziarie, nei confronti di quei santuari della speculazione che hanno tratto ingenti vantaggi dalla destabilizzazione dei mercati e dal vertiginoso aumento dei prezzi delle materie prime e delle risorse energetiche, che come in una spirale senza fine indeboliscono ulteriormente la tenuta del tessuto economico: si guardi al prezzo del petrolio e dei suoi derivati, prodotti fondamentali nel ciclo economico, per acquisire un riscontro immediato di come la crisi abbia colpito le categorie deboli del reddito fisso e si sia invece rivelata una lucrosa fonte di guadagno per i grandi monopoli finanziari. E se tutto ciò è documentalmente vero è ancor più grave l’entità del delitto sociale che si profila con l’esproprio ai danni delle classi lavoratrici di ogni tutela sul posto di lavoro: forse il professor Monti e la sua congrega di insigni docenti non s’è reso conto, nonostante sia costretto a conviverci, che il motivo per il quale gli investimenti produttivi latitano o le imprese straniere non affrontino iniziative nel nostro Paese, al di là della congiuntura sfavorevole, è da ricercare nell’incredibile livello di corruzione diffusa, che corrode da Nord a Sud la Penisola.
Chi scrive vive in una tipica area del Sud, in cui le poche imprese che sorgono sono in larga misura il frutto del riciclo di denaro di dubbia provenienza, in cui l’attività imprenditoriale è soggetta a condizionamenti vessatori di stampo mafioso, in cui gli imprenditori, figli di una cultura della sopraffazione delle regole e del malaffare, prima che illuminati affaristi sono autentici aguzzini che sfruttano in maniera rivoltante i miserabili bisognosi di lavorare, con contratti al più fasulli, con retribuzioni saltuarie e da accattoni, con orari di lavoro massacranti e da schiavi, con omissioni contributive generalizzate e impunite, con condizioni complessive di lavoro in cui parlare di articolo 18 è come dibattere di realtà scandinave, lontane anni luce da quegli ambienti.
Se davanti a questa realtà il governo di Monti e dei cattedratici intende perseverare sordo nel conseguimento di un nuovo assetto sociale e del mercato del lavoro, smetta di sventolare ridicoli feticci e di nascondere l’intendimento restauratore dietro a totem posticci, ma imponga piuttosto un minimo di regole di civiltà, attingendo al rispetto di quelle quattro norme di buon senso che già esistono inosservate con la complicità delle istituzioni nel nostro sistema legislativo.

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