sabato, aprile 14, 2012

Il Mago di Gemona

Sabato, 14 aprile 2012
Ma a chi voleva darla a bere il signor Umberto Bossi quando, come l’altra sera, in presenza di un drappello dei soliti adepti – molto meno di quanto pensasse, invero – parlava di complotti di magistrati e oscuri mestatori a proposito delle gravissime distrazioni di denaro della Lega? Ritiene il padre-padrone del Carroccio di poter ancora imbonire qualche idiota di passaggio quando, chiedendo scusa per le malefatte del Trota filmato mentre intascava rimborsi illegittimi provenienti dai rimborsi elettorali riconosciuti al partito che ha guidato per vent’anni?
Scava che ti scava, la verità è venuta a galla, almeno una parte già sufficiente ad inchiodare la controfigura del ben più nobile Mago Otelma, per certi versi, alle sue responsabilità. Sapeva tutto, perché gli era stato detto e, dunque, le sue meschine scuse ai suoi sostenitori non convincono nessuno, sebbene come in tutte le sceneggiate da fine regime ci sia sempre il solito pirla che continua a osannare il nome del capo, del dittatore, dell’imbonitore. E’ successo sempre: Pinochet, Videla, Tito, Ceausescu, Gbabo e prima ancora Tito e altri tirannuncoli arricchitisi sulle spalle della gente sono stati cacciati a furor di popolo, quantunque qualche nostalgico obnubilato dalla loro immagine sia sceso in piazza a gridare il suo sostegno.
Le scope ostentate a Bergamo per fare pulizia in casa, in verità, avrebbero dovuto essere sostituite da striglie, per mondare il lordume che infetta l’animo di certi sedicenti uomini di governo, di quei personaggi che, a dispetto di qualunque miserabile difesa, hanno parlato bene, ma hanno razzolato tra gli escrementi, come maiali in una porcilaia.
Man mano che le indagini sulle malefatte di Belsito procedono, infatti, vengono fuori le distrazioni dei fondi della Lega a favore della famiglia Bossi, per cure mediche di Umberto e dei figli, per pagare infrazioni al codice della strada del Trota, per saldare le pendenze fiscali della famiglia, in pratica per mille comuni ragioni che nulla hanno a che vedere con l’impiego in attività di carattere politico cui furono riconosciuti.
Ovviamente il Mago di Gemona continua a sostenere di non saperne nulla, quantunque la signora Marrone, con la quale è felicemente coniugato da moltissimi anni, sia improvvisamente risultata intestataria di ben undici appartamenti, che si esclude siano stati acquistati con i proventi derivanti dalla gestione della ormai famosa scuola Bosina, foraggiata a sua volta con oltre un milione di euro provenienti dalle casse leghiste.
Né convincono le draconiane misure assunte nei confronti di Rosi Mauro, mamma Ebe per qualcuno, la Scura per qualcun altro, la badante per la truppa leghista, e il furbo Belsito. Il caso Mauro, in questo verminaio di colpi di scena e di dilapidazione a scopi personali di pubblico denaro proveniente dal rimborso elettorale previsto per tutti i partiti, i soldi distratti per l’acquisto della sua laurea in Svizzera o dirottati per foraggiare il Sin.Pa. francamente appare grottesco e il sospetto che, invisa a Maroni e altri colonnelli della nomenklatura leghista, l’arrogantella leghista sia un capro espiatorio di comodo rimane elevato.
Certo è che, qualunque sarà l’epilogo della vicenda, la figura di Bossi, del paladino delle illusioni padane, del federalismo a parole, il discepolo del dio Po e delle sue ridicole ampolline d’acqua benedetta, ne esce a pezzi e il portarlo sugli scudi dopo le doverose dimissioni e la nomina improvvida a presidente del movimento, suona ancor più offensivo e sospetto, - quasi si tema che toglierlo di mezzo con l’ignominia che gli spetta possa generare chissà quale altra catastrofe ai danni di insospettabili maggiorenti oggi ancora non sfiorati da sospetti e coinvolgimenti nella gestione truffaldina del Carroccio.
E il caso Lega, peraltro arrivato mentre ancora rimbombava l’eco delle altrettanto gravi malefatte dell’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, conferma tragicamente che è il sistema italico che è corrotto sino al midollo spinale. Non c’è né Sud né Nord che divida l’Italia. Non c’è una Roma ladrona che in sé ammorbi il Paese. Semmai Roma è come l’hotel Villa Igea di Palermo per la mafia, un covo dove disonesti di tutte latitudini si danno appuntamento per intrigare, ordire abominevoli delitti contro la fede pubblica, ingrassare illecitamente i portafogli propri e quelli dei loro lacchè, nella consapevolezza che, qualunque sia l’entità del delitto consumato, difficilmente saranno perseguiti in maniera esemplare quand’anche fossero colti con le mani nel sacco.
Sulla scorta di quest’ennesimo scandalo, peraltro poco commentato dagli esponenti degli altri partiti che siedono come la Lega in quel che pomposamente s’ostinano a chiamare parlamento italiano, come a sancire un’omertosa connivenza con i metodi truffaldini dei ladri padani, si parla già di una nuova legge che garantisca trasparenza nei bilanci delle formazioni politiche e renda visibile l’utilizzo dei famigerati rimborsi elettorali. Coloro che invocano una diversa normativa e controlli più incisivi, tuttavia, hanno sottovalutato per evidente opportunismo che il problema non è solamente quello di giustificare al popolo che paga quale impiego venga fatto del proprio denaro, ma è anche quello di giustificare la ragione per la quale il rimborso sia d’ammontare spropositato rispetto alle spese effettivamente sostenute da ogni singolo partito per l’attività elettorale. Resta poi da capire quale sia la ragione per la quale i residui di tali finanziamenti, quando non spesi e specialmente di questi tempi, non confluiscano nuovamente nella casse dello stato per finanziare capitoli di spesa in sofferenza.
Quando qualche testa rotolerà recisa nel canestro di una ghigliottina allestita sulla pubblica piazza allora si potrà parlare nuovamente di democrazia in questo Paese, un paese infettato da una corruzione straripante e dove persino il Mago Otelma, venditore di presagi improbabili, appare un onesto professionista in confronto a questa feccia che governa e si autoproclama al servizio dello stato.

(nella foto, un momento del raduno bergamasco della Lega nel quale s'è preannunciata una bonifica dei vertici)

sabato, aprile 07, 2012

Governo bugiardo e imprenditori delusi

Sabato, 7 aprile 2012
Finalmente butta giù la maschera e nel farlo la strappa anche dal viso di Mario Monti e di Elsa Fornero, che tanto avevano insistito con proclami di rilancio dell’occupazione e ripartenza dell’economia con la riforma dell’articolo 18.
A smascherarsi è Emma Marcegaglia, quel presidente di Confindustria ormai passato tra i past dopo la designazione di Giorgio Squinzi, patron della Mapei, alla guida del sindacato degli imprenditori. Le sue dichiarazioni velenose alla volta di Mario Monti, reo di aver “tradito” il non svelato patto per cancellare definitivamente i diritti dei lavoratori o, se si preferisce, quello per ottenere la libertà incondizionata di licenziare, che nulla ci azzecca con le ipocrite dichiarazioni di rilanciare con quella riforma l’occupazione e la ripresa dell’economia.
Lo stesso Monti, dichiarando che in altri tempi «mai gli imprenditori avrebbero potuto aspettarsi una modifica dell’articolo 18 che dà loro la possibilità di ricorrere ai licenziamenti per motivi economici», ha confermato l’esistenza del patto scellerato, stipulato sulla pelle dei lavoratori e spacciato per elemento di potenziale nuovo sviluppo atto a promuovere «investimenti stranieri nel nostro Paese, altrimenti scoraggiati dalla rigidità del mercato del lavoro».
Si trattava di una bufala, maldestra, attaccata da decine di economisti di fama internazionale, e confermata oggi dal livore di una Marcegaglia che, in fondo, porta a casa ben poco da una trattativa estenuante tesa a ribaltare il senso di decenni di lotte operaie. E’ il volto protervo del capitalismo sfruttatore che emerge, quel capitalismo che, a dispetto dei tempi, ritiene che le proprie fortune rimangono ancorate ad imprescindibili forme di schiavitù della forza lavoro. Quel capitalismo malvagio e negriero impersonato da Marchionne e da quella intellighenzia padrona, che ha cercato in questa lunga congiuntura negativa di rigenerare le armi infami di sfruttamento delle classi deboli.
E il dissenso di Marcegaglia è ancora più cocente se, come sottolinea, deve sopportare persino un irrigidimento delle regole che oggi, come nel vecchio west, governano l’entrata nel mondo del lavoro: oltre quaranta tipologie contrattuali, che rendono precaria la stabilità del rapporto di lavoro e hanno permesso l’elaborazione di metodi scientifici di sfruttamento. Questa pratica nobilitata dal termine "flessibilità" non sarà più consentita, essendosi ristretto il campo del ricorso ai contratti a termine e avendo previsto nella nuova normativa un aggravio contributivo a disincentivo delle poche formule di temporaneità consentita. Poco rileva per la proterva presidente degli industriali che, nel tempo, l’uso della flessibilità sia divenuto un abuso generalizzato, con proliferazione di partite IVA, associati in partecipazione, contratti a progetto e sconce amenità varie.
Ad avviso di Marcegaglia l’onere di inquisire sulla correttezza della contrattualistica avrebbe dovuto essere delegato ai disastrati Ispettorati del lavoro, che in quanto tali nel retrocervello della presidente avrebbero di certo garantito la sopravvivenza di condizioni di lavoro ai margini della legalità o strumenti di ricatto in mano ai datori di lavoro degni di epoche colonialiste. Dimentica poi Marcegaglia – o finge piuttosto d’ignorare – che grazie a quell'emblema dello sfruttamento programmato, Silvio Berlusconi, era stata cancellata la norma, ora reintrodotta, che vietava le dimissioni in bianco, alle quali l’imprenditoria più delinquenziale fa ricorso da sempre nei confronti di parecchi dipendenti e, in particolare, delle donne, che potenzialmente, causa lo stato di gravidanza, non offrono alcuna garanzia di continuità lavorativa. E allora cosa c’era di meglio che garantirsi in questi casi il ricorso al licenziamento mascherato da dimissioni? Senza contare poi le partite IVA fasulle, quelle imposte per simulare rapporti di lavoro professionali, dunque escludenti la subordinazione, ma in realtà con un reddito per il lavoratore proveniente da un unico rapporto di collaborazione professionale. Secondo Marcegaglia l’obbligatorietà di trasformare questi rapporti di lavoro in subordinati è un abuso che renderà infelici parecchi giovani desiderosi di intraprendere un rapporto di lavoro indipendente (sic!). Naturalmente la signora imprenditrice non si rende conto dell’ironia che suscita una tale idiota affermazione: sarebbe come concludere che il barbone, in cerca quotidiana di un pasto per sfamarsi, si sentisse frustrato dal mettergli a disposizione una mensa gratuita.
Ma la conferma di una farsa amara ai danni della fede pubblica Marcegaglia la rilascia quando a domanda precisa commenta la valenza della riforma ai fini del rilancio occupazionale. Sostiene infatti l’ex capo degli industriali che la riforma dell'articolo 18 non è la panacea della crescita. E’ un fattore che può influire, a condizione che insieme con i meccanismi del mercato del lavoro si riformi la burocrazia, si operi sugli investimenti in formazione e innovazione, si investa massicciamente sulle infrastrutture e si lavori all'abbassamento dell’imposizione fiscale. Come dire, un’ammissione piena che la trattativa forzata di Fornero e Monti è stato un espediente per tentare di scardinare ciò che le imprese considerano barriere alla loro libertà di impiego del fattore lavore e non l’elemento cardine di un processo di rilancio dello sviluppo.
Non c’è che dire. Una riforma quella del mercato del lavoro che nasce sotto i peggiori auspici e che non mancherà di creare nuove occasioni di contrazione dell’impiego, proprio alla luce di meccanismi che, se non accompagnati da interventi di finanziamento della crescita economica, finiranno per rivelarsi elemento di penalizzazione per i soliti noti.

Dopo il caimano muore il coccodrillo

Sabato, 7 aprile 2012
Tutto il denaro uscito dalle casse del partito per le spese dei familiari di Umberto Bossi: l'acquisto di auto, le spese per le cure mediche, i lavori di ristrutturazione della casa di Gemonio, i costi sostenuti per far conseguire il titolo di studio al figlio Renzo. La segretaria amministrativa della Lega, Nadia Degrada, e quella particolare di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa, confermano punto su punto gli episodi relativi all'uso 'disinvolto' dei finanziamenti pubblici alla Lega Nord emersi dalle intercettazioni. E inguaiano il Senatur, sottolineando che in cassa entravano "anche soldi in nero" e rivelando che il leader del Carroccio fu "avvisato" delle irregolarità commesse da Belsito, il “tesoriere pazzo”, - come lui stesso si definisce in una telefonata intercettata dai carabinieri.
Conferme che, se mai ci fossero stati ancora dubbi, distruggono definitivamente l’immagine di un leader che aveva fondato le sue fortune politiche sulla dichiarazione di rispetto di alcuni principi inviolabili, che dovevano rendere la Lega qualcosa di profondamente diverso e speciale nell’inquinato panorama politico italiano.
Alla resa dei conti la figura del signor Umberto Bossi esce radicalmente ridimensionata, al punto di apparire ancor più meschina di quella dei quattro ladri di polli cui ci aveva abituato la politica del Belpaese. Un imbroglione peggiore di coloro sui quali ha sputato addosso per anni con la pretesa di dare lezione di correttezza, trasparenza, buon senso, equità e quant’altro sia requisito di integrità morale, visto che al richiamo del nepotismo più becero, al clientelismo più disgustoso, al profumo del denaro facile, in una parola alla corruzione non è riuscito a sfuggire.
A poco servono le miserevoli dichiarazioni dei suoi più laidi servi pronti a mettere le mani sul fuoco per la sua onestà, scaricando la responsabilità degli indegni raggiri perpetrati ai danni dei tanti militanti, che per fideismo esasperato o per opportunismo lo hanno seguito e osannato, sui famigli che lo avrebbero turlupinato approfittando del suo stato di salute. La circostanza, ancorché tutta da dimostrare, probabilmente rende ancora più mesta la figura del Senatur, del capo traghettatosi per suo demerito dalla santità alla porcilaia, poiché nel minimo di lucidità residua rimastagli dopo i gravissimi problemi di saluti sofferti avrebbe dovuto avere la dignità di passare la mano, sapendo di non essere più in condizioni di adempiere agli oneri di conduzione di un’organizzazione ormai complessa. S’è vi è invece rimasto a capo è legittimo sospettare che lo abbia fatto per vanità e insaziabile fame di potere o, nella peggiore delle ipotesi, per continuare a gestire indisturbato i fattacci suoi, non certo per spirito di causa.
Eppure, sebbene le prove che lo inchiodano alle sue responsabilità siano lapalissiane, ancora ha l’arroganza di parlare di “Roma farabutta” a proposito delle tre procure che s’interessano dei reati di cui è accusato, così adombrando l’ennesima teoria del complotto ai suoi danni e ai danni di un movimento di sconsiderati e imbecilli ubriacati di razzismo, superbia e altre ribalderie da avanspettacolo. La sua è la caduta rumorosa del re degli accattoni morali, esaltati dal sogno lisergico di un’indipendenza in una fantomatica terra di Bengodi ribattezzata Padania.
Ad inchiodarlo ci sono i figli Riccardo, scapestrato con l’hobby dei rally e della candeggina, Renzo il Trota (l’unico pesce senza fosforo, come ebbe a dire il comico Dario Vergassola), somaro di lungo corso diplomato a pagamento, la moglie “terrona” Manuela Marrone, maestrina pensionata di lungo corso con l’hobby degli asili, la pasionaria del Sin.Pa. Rosi Mauro, terrona anche lei con il vezzo della sfrenata superbia e dell’accecata ambizione, che hanno foraggiato copiosamente le loro malsane inclinazioni con i soldi del finanziamento pubblico destinato alla Lega Nord. E che abbiano speso con il tesoriere Belsito il nome di Bossi per intascare i danari o abbiano sostenuto la malata manina del capo per ottenere la sua firma sui bonifici a loro favore è del tutto irrilevante: Bossi sapeva. Perché più volte gli era stato detto, anche sotto forma di ricattatorio avviso, che quelle carte sarebbero venute fuori in caso di necessità o di pericolo per chi quei soldi amministrava. Dunque, non merita alcuna pietà o compatimento, anzi, se un sentimento merita il suo caso, questo non può che essere che il disprezzo più profondo. Non merita certo di meglio chi pur consapevole delle più che modeste qualità del proprio figlio finisce per imporlo in politica, garantendogli un ricco appannaggio di oltre diecimila euro mensili a spese dei cittadini allocchi che gli hanno dato il proprio voto.
E’ la caduta degli dei quella di Bossi, la definitiva conferma che la democrazia e la politica hanno urgente e improrogabile necessità di una riforma che le metta al riparo dalle eterne infezioni che colpiscono orizzontalmente i suoi gestori. E ciò che significa questo tonfo inglorioso è ben condensato in un articolo di Alexander Stille su la Repubblica di oggi: «La feccia che risale il pozzo – questo sembrano le porcherie della famiglia Bossi che vengono ora a galla nelle varie inchieste sulle finanze della Lega Nord. Mi ha sempre stupito come, fino ad ora, Umberto Bossi sia riuscito a continuare a passare come un tribuno del popolo, castigatore dei costumi nefasti di Roma Ladrona, quando era perfino troppo evidente da dieci o quindici anni che i leader della Lega erano diventati tra i membri più viziati ed arroganti della casta politica italiana e che Bossi non aveva realizzato niente – proprio niente – delle sue tante promesse elettorali, in particolare, un’Italia federalista. L’unico loro successo semmai era di avere creato una rete di clientela leghista in alcune regioni e città che assomigliassero alle clientele della prima Repubblica……Bossi, miracolosamente, è riuscito a tenere tranquillo il suo elettorato pur prendendolo in giro in un modo sempre più palese. Ha mantenuto il suo profilo populista grazie al suo dito medio alzato e le sue battute volgari, becere e spesso violente, mentre tutto il suo comportamento politico andava in senso contrario. Da campione di Mani Pulite, motore del movimento anti-corruzione, Bossi si è rapidamente convertito in difensore dei privilegi della classe politica. Da figura trasversale che ha lasciato il primo governo Berlusconi denunciando il colpo di spugna mirato a proteggere la famiglia Berlusconi dalle inchieste giudiziarie, Bossi è diventato l’alleato più fedele del grande corruttore. Improvvisamente, dopo aver parlato di Berlusconi come “Craxi con la parrucca” e come “il mafioso di Arcore”, Bossi ha fatto molto del lavoro sporco del Popolo della Libertà, appoggiano quasi tutte le misure fatte dagli avvocati di Berlusconi per toglierlo dai guai, per proteggere la sua azienda, annacquare il codice penale, azzerare processi in corso e rendere molto, molto difficile i processi di corruzione. Doveva destare molti più sospetti l’aiuto finanziario che Berlusconi ha dato alla Lega per farla uscire dalla crisi - due milioni in forma di linea di credito garantita da una fideiussione personale di Silvio Berlusconi. Questo aiuterebbe a capire come mai Bossi si sia trasformato da cane arrabbiato del popolo del Nord in cagnolino della corte di Berlusconi dal 2001, anno del prestito, a oggi. Conoscendo la “generosità” del Cavaliere non sarebbe fuori luogo sospettare che questi due milioni siano solo la punta dell’iceberg. La presenza del nome di Aldo Brancher nelle inchieste sulla Lega – uomo di fiducia di Berlusconi e figura chiave in molti processi di tangenti e corruzione – presenta vari scenari possibili.».

mercoledì, aprile 04, 2012

Il Carroccio dell’ipocrisia

Mercoledì, 4 aprile 2012
Sarebbe troppo facile in questo caso mutuare il famoso “chi di spada ferisce, di spada perisce”, non fosse per la sottintesa nobiltà d’intenti che per certi versi soggiace all’affermazione medesima.
Quella di Bossi e della Lega è, invece, una storia di fango, per non dir di peggio. Un’ordinaria storia tutta italiana contrassegnata da roboanti dichiarazioni di trasparenza, d’onestà cristallina, di buon governo, mista ad insulti e sberleffi al Paese, alle sue istituzioni, alla politica ladra e corrotta dei palazzi romani, ai terroni, agli immigrati e a quanto di più spregevole abbia individuato negli anni la mentecatta “cultura” da postribolo del Carroccio.
«Denuncerò chi ha utilizzato i soldi della Lega per sistemare la mia casa. Io non so nulla di questa cose e d'altra parte, avendo pochi soldi, non ho ancora finito di pagare le ristrutturazioni di casa mia » ha dichiarato ieri sera Umberto Bossi, incurante di quanto queste parole richiamino le ridicole affermazioni di un altro inquisito di rango, l’ex ministro Scajola, a cui qualcuno, a sua insaputa, aveva acquistato un prestigioso appartamento a Roma con vista Colosseo.
Eppure, nonostante queste indignate prese di distanza, tre procure indagano su vicende che vedono coinvolto il leader leghista e il tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito: Milano, Napoli e Reggio Calabria. In uno dei decreti di perquisizione, quello della procura di Milano, si parla senza mezzi termini di «esborsi effettuati per esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord» e l’affermazione è talmente grave da lasciar presupporre che nessun magistrato sarebbe talmente matto da promuovere disinvoltamente un’accusa del genere senza uno straccio di prova in mano.
Francesco Belsito, tesoriere della Lega Nord e, naturalmente, uomo di grande fiducia di Umberto Bossi. Un uomo dal passato più che equivoco. Nato e cresciuto in quella Liguria che, pur non essendo uno degli epicentri del Carroccio, ha sempre garantito al partito di Bossi soddisfacenti risultati elettorali anche nei periodi più bui del movimento in camicia verde. In realtà, il curriculum leghista del quarantunenne Belsito non affonda un granché le radici nel tempo: prima di virare al verde (nel 2002), il futuro tesoriere preferiva l'azzurro di Forza Italia, nella quale era approdato dopo un’esperienza da buttafuori di discoteche e night club, con il ruolo di autista e sbrogliafaccende di Alfredo Biondi. Eppure è proprio nell'humus leghista ligure che germoglia la carriera fulminante di Belsito.
Conquistata la fiducia della famiglia Bossi e del cosiddetto "cerchio magico" che circonda il leader, - la moglie, l’ex pasionaria del Sindacato Padano Rosi Mauro, oggi senatrice della repubblica, Roberto Calderoli e qualche altro intimo, - nel 2009 ottiene il ruolo di custode del tesoro del Carroccio in sostituzione del corregionale Maurizio Balocchi, plenipotenziario della Lega a Chiavari. Quando Balocchi scompare prematuramente nel febbraio del 2010, Belsito eredita da lui anche una poltrona di governo come sottosegretario nel ministero calderoliano della Semplificazione normativa. A queste cariche il tesoriere leghista aggiunge quella di segretario del partito nell'area del Tigullio, oltre ad altre responsabilità di prestigio come, tra le altre, la vice presidenza della Fincantieri.
Belsito rimane sconosciuto alle cronache finché qualche mese fa non emerge il caso dei sorprendenti investimenti che il tesoriere ha fatto con i quattrini leghisti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia. In primis il quotidiano genovese Il Secolo XIX e poi altri iniziano a passare al crivello la biografia di Belsito e scoprono vari punti controversi. Ex buttafuori nelle discoteche della Riviera, ex titolare di un'impresa di pulizie, Belsito in diversi curricula ha persino fornito notizie divergenti se non fantasiose sui suoi titoli di studio. Ma tutto ciò non serve certo ad intaccare la stima di Bossi e dei suoi fedelissimi, che in tutta evidenza ben avevano da guadagnare dagli equivoci maneggiamenti del valente tesoriere, che, stando alle ipotesi di reato, si prendeva affettuosamente cura delle necessità del capo, dei capricci del suo rampollo Trota e delle spesucce cui andava incontro qualche componente del cerchio magico, come Rosi Mauro.
Ieri, comunque, dimostrando un senso della dignità esemplare, il signor Francesco Belsito ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica di partito, sebbene le stesse siano arrivata non tanto spontaneamente, ma dopo una seduta fiume della direzione della Lega, in cui Roberto Maroni, da sempre in rotta di collisione con la cosca che ne detiene il potere, ha tuonato con richieste di pulizia radicale all’interno del partito, «cominciando dalla nomina di un nuovo amministratore capace di aprire tutti i cassetti».
«Sono stato io a chiedere a Belsito si dimettersi, per fare chiarezza. E lui si è dimesso», ha aggiunto Bossi. «Vogliono colpire la Lega e quindi colpiscono me, mi sembra che sia iniziata la prossima campagna elettorale», ha concluso, disvelando quanto quel senso della dignità cui prima s’accennava sia stato del tutto incidentale rispetto all’esigenza di liberare il partito da un elemento di fortissimo disturbo nella lotta in corso tra la vecchia guardia oltranzista e radicale, di cui è indiscussa immagine, e il montante dissenso, rappresentato dall’ala moderata progressista, di cui Maroni è la voce più autorevole.
Certo è che in seguito all’esplosione del caso e soprattutto a causa dei controversi investimenti esotici fatti da Belsito con i soldi provenienti dalla cassa del partito, benché i vertici leghisti abbiano sempre cercato di minimizzare, numerosi militanti (e anche alcuni esponenti di primo piano come il milanese Matteo Salvini) hanno manifestato senza troppe dissimulazioni le loro perplessità sull'operato del tesoriere. E nel contesto della lotta di potere che da tempo agita la Lega non era un mistero che i fedeli a Roberto Maroni avessero scarsa simpatia per Belsito e guardassero con sospetto la sua affiliazione a quella che, con ruvido gergo leghista qualcuno aveva battezzato “la famiglia terrona", - il famigerato cerchio magico in cui hanno avuto un ruolo di spicco la moglie di Bossi, Manuela Marrone, e la vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, entrambe nate un po' più a sud del vagheggiato confine padano.
Adesso si attendono nuovi sviluppi, ma certo è che l’immagine di Bossi esce profondamente compromessa dalla vicenda, compromessa non solo moralmente, stando almeno agli sviluppi dell’indagine in corso.
E la vicenda, degna di un feuilleton di bassa lega, - ci si perdoni il gioco di parole, - conferma la teoria d’un vecchio saggio: dove ci son campane ci son puttane. La Lega Nord, per tanti anni emblema di un’intolleranza esasperata al grido di “tutti disonesti e corrotti”, oggi alla luce dei tanti indagati al suo interno per storie di corruzione – leggi Davide Boni - o pericolose frequentazioni di mafiosi e delinquenti – vedi le equivoche aderenze dello stesso Belsito – sta dimostrando quanto la teoria sia vera nei fatti, con ciò disvelando quanto nel tempo abbia fatto presa sostanzialemte grazie alla profonda sprovvedutezza dei suoi grezzi adepti e alla spregevole ipocrisia dei suoi portabandiera, non certo per le sue smentite qualità, che non la rendono estranea allo squallore generale e all'infezione mortale che affligge la politica nostrana.

(nella foto, il prode ex tersoriere della Lega Francesco Belsito in compagnia del suo segretario Umberto Bossi)