Dopo il caimano muore il coccodrillo
Sabato, 7 aprile 2012
Tutto il denaro uscito dalle casse del partito per le spese dei familiari di Umberto Bossi: l'acquisto di auto, le spese per le cure mediche, i lavori di ristrutturazione della casa di Gemonio, i costi sostenuti per far conseguire il titolo di studio al figlio Renzo. La segretaria amministrativa della Lega, Nadia Degrada, e quella particolare di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa, confermano punto su punto gli episodi relativi all'uso 'disinvolto' dei finanziamenti pubblici alla Lega Nord emersi dalle intercettazioni. E inguaiano il Senatur, sottolineando che in cassa entravano "anche soldi in nero" e rivelando che il leader del Carroccio fu "avvisato" delle irregolarità commesse da Belsito, il “tesoriere pazzo”, - come lui stesso si definisce in una telefonata intercettata dai carabinieri.
Conferme che, se mai ci fossero stati ancora dubbi, distruggono definitivamente l’immagine di un leader che aveva fondato le sue fortune politiche sulla dichiarazione di rispetto di alcuni principi inviolabili, che dovevano rendere la Lega qualcosa di profondamente diverso e speciale nell’inquinato panorama politico italiano.
Alla resa dei conti la figura del signor Umberto Bossi esce radicalmente ridimensionata, al punto di apparire ancor più meschina di quella dei quattro ladri di polli cui ci aveva abituato la politica del Belpaese. Un imbroglione peggiore di coloro sui quali ha sputato addosso per anni con la pretesa di dare lezione di correttezza, trasparenza, buon senso, equità e quant’altro sia requisito di integrità morale, visto che al richiamo del nepotismo più becero, al clientelismo più disgustoso, al profumo del denaro facile, in una parola alla corruzione non è riuscito a sfuggire.
A poco servono le miserevoli dichiarazioni dei suoi più laidi servi pronti a mettere le mani sul fuoco per la sua onestà, scaricando la responsabilità degli indegni raggiri perpetrati ai danni dei tanti militanti, che per fideismo esasperato o per opportunismo lo hanno seguito e osannato, sui famigli che lo avrebbero turlupinato approfittando del suo stato di salute. La circostanza, ancorché tutta da dimostrare, probabilmente rende ancora più mesta la figura del Senatur, del capo traghettatosi per suo demerito dalla santità alla porcilaia, poiché nel minimo di lucidità residua rimastagli dopo i gravissimi problemi di saluti sofferti avrebbe dovuto avere la dignità di passare la mano, sapendo di non essere più in condizioni di adempiere agli oneri di conduzione di un’organizzazione ormai complessa. S’è vi è invece rimasto a capo è legittimo sospettare che lo abbia fatto per vanità e insaziabile fame di potere o, nella peggiore delle ipotesi, per continuare a gestire indisturbato i fattacci suoi, non certo per spirito di causa.
Eppure, sebbene le prove che lo inchiodano alle sue responsabilità siano lapalissiane, ancora ha l’arroganza di parlare di “Roma farabutta” a proposito delle tre procure che s’interessano dei reati di cui è accusato, così adombrando l’ennesima teoria del complotto ai suoi danni e ai danni di un movimento di sconsiderati e imbecilli ubriacati di razzismo, superbia e altre ribalderie da avanspettacolo. La sua è la caduta rumorosa del re degli accattoni morali, esaltati dal sogno lisergico di un’indipendenza in una fantomatica terra di Bengodi ribattezzata Padania.
Ad inchiodarlo ci sono i figli Riccardo, scapestrato con l’hobby dei rally e della candeggina, Renzo il Trota (l’unico pesce senza fosforo, come ebbe a dire il comico Dario Vergassola), somaro di lungo corso diplomato a pagamento, la moglie “terrona” Manuela Marrone, maestrina pensionata di lungo corso con l’hobby degli asili, la pasionaria del Sin.Pa. Rosi Mauro, terrona anche lei con il vezzo della sfrenata superbia e dell’accecata ambizione, che hanno foraggiato copiosamente le loro malsane inclinazioni con i soldi del finanziamento pubblico destinato alla Lega Nord. E che abbiano speso con il tesoriere Belsito il nome di Bossi per intascare i danari o abbiano sostenuto la malata manina del capo per ottenere la sua firma sui bonifici a loro favore è del tutto irrilevante: Bossi sapeva. Perché più volte gli era stato detto, anche sotto forma di ricattatorio avviso, che quelle carte sarebbero venute fuori in caso di necessità o di pericolo per chi quei soldi amministrava. Dunque, non merita alcuna pietà o compatimento, anzi, se un sentimento merita il suo caso, questo non può che essere che il disprezzo più profondo. Non merita certo di meglio chi pur consapevole delle più che modeste qualità del proprio figlio finisce per imporlo in politica, garantendogli un ricco appannaggio di oltre diecimila euro mensili a spese dei cittadini allocchi che gli hanno dato il proprio voto.
E’ la caduta degli dei quella di Bossi, la definitiva conferma che la democrazia e la politica hanno urgente e improrogabile necessità di una riforma che le metta al riparo dalle eterne infezioni che colpiscono orizzontalmente i suoi gestori. E ciò che significa questo tonfo inglorioso è ben condensato in un articolo di Alexander Stille su la Repubblica di oggi: «La feccia che risale il pozzo – questo sembrano le porcherie della famiglia Bossi che vengono ora a galla nelle varie inchieste sulle finanze della Lega Nord. Mi ha sempre stupito come, fino ad ora, Umberto Bossi sia riuscito a continuare a passare come un tribuno del popolo, castigatore dei costumi nefasti di Roma Ladrona, quando era perfino troppo evidente da dieci o quindici anni che i leader della Lega erano diventati tra i membri più viziati ed arroganti della casta politica italiana e che Bossi non aveva realizzato niente – proprio niente – delle sue tante promesse elettorali, in particolare, un’Italia federalista. L’unico loro successo semmai era di avere creato una rete di clientela leghista in alcune regioni e città che assomigliassero alle clientele della prima Repubblica……Bossi, miracolosamente, è riuscito a tenere tranquillo il suo elettorato pur prendendolo in giro in un modo sempre più palese. Ha mantenuto il suo profilo populista grazie al suo dito medio alzato e le sue battute volgari, becere e spesso violente, mentre tutto il suo comportamento politico andava in senso contrario. Da campione di Mani Pulite, motore del movimento anti-corruzione, Bossi si è rapidamente convertito in difensore dei privilegi della classe politica. Da figura trasversale che ha lasciato il primo governo Berlusconi denunciando il colpo di spugna mirato a proteggere la famiglia Berlusconi dalle inchieste giudiziarie, Bossi è diventato l’alleato più fedele del grande corruttore. Improvvisamente, dopo aver parlato di Berlusconi come “Craxi con la parrucca” e come “il mafioso di Arcore”, Bossi ha fatto molto del lavoro sporco del Popolo della Libertà, appoggiano quasi tutte le misure fatte dagli avvocati di Berlusconi per toglierlo dai guai, per proteggere la sua azienda, annacquare il codice penale, azzerare processi in corso e rendere molto, molto difficile i processi di corruzione. Doveva destare molti più sospetti l’aiuto finanziario che Berlusconi ha dato alla Lega per farla uscire dalla crisi - due milioni in forma di linea di credito garantita da una fideiussione personale di Silvio Berlusconi. Questo aiuterebbe a capire come mai Bossi si sia trasformato da cane arrabbiato del popolo del Nord in cagnolino della corte di Berlusconi dal 2001, anno del prestito, a oggi. Conoscendo la “generosità” del Cavaliere non sarebbe fuori luogo sospettare che questi due milioni siano solo la punta dell’iceberg. La presenza del nome di Aldo Brancher nelle inchieste sulla Lega – uomo di fiducia di Berlusconi e figura chiave in molti processi di tangenti e corruzione – presenta vari scenari possibili.».
Conferme che, se mai ci fossero stati ancora dubbi, distruggono definitivamente l’immagine di un leader che aveva fondato le sue fortune politiche sulla dichiarazione di rispetto di alcuni principi inviolabili, che dovevano rendere la Lega qualcosa di profondamente diverso e speciale nell’inquinato panorama politico italiano.
Alla resa dei conti la figura del signor Umberto Bossi esce radicalmente ridimensionata, al punto di apparire ancor più meschina di quella dei quattro ladri di polli cui ci aveva abituato la politica del Belpaese. Un imbroglione peggiore di coloro sui quali ha sputato addosso per anni con la pretesa di dare lezione di correttezza, trasparenza, buon senso, equità e quant’altro sia requisito di integrità morale, visto che al richiamo del nepotismo più becero, al clientelismo più disgustoso, al profumo del denaro facile, in una parola alla corruzione non è riuscito a sfuggire.
A poco servono le miserevoli dichiarazioni dei suoi più laidi servi pronti a mettere le mani sul fuoco per la sua onestà, scaricando la responsabilità degli indegni raggiri perpetrati ai danni dei tanti militanti, che per fideismo esasperato o per opportunismo lo hanno seguito e osannato, sui famigli che lo avrebbero turlupinato approfittando del suo stato di salute. La circostanza, ancorché tutta da dimostrare, probabilmente rende ancora più mesta la figura del Senatur, del capo traghettatosi per suo demerito dalla santità alla porcilaia, poiché nel minimo di lucidità residua rimastagli dopo i gravissimi problemi di saluti sofferti avrebbe dovuto avere la dignità di passare la mano, sapendo di non essere più in condizioni di adempiere agli oneri di conduzione di un’organizzazione ormai complessa. S’è vi è invece rimasto a capo è legittimo sospettare che lo abbia fatto per vanità e insaziabile fame di potere o, nella peggiore delle ipotesi, per continuare a gestire indisturbato i fattacci suoi, non certo per spirito di causa.
Eppure, sebbene le prove che lo inchiodano alle sue responsabilità siano lapalissiane, ancora ha l’arroganza di parlare di “Roma farabutta” a proposito delle tre procure che s’interessano dei reati di cui è accusato, così adombrando l’ennesima teoria del complotto ai suoi danni e ai danni di un movimento di sconsiderati e imbecilli ubriacati di razzismo, superbia e altre ribalderie da avanspettacolo. La sua è la caduta rumorosa del re degli accattoni morali, esaltati dal sogno lisergico di un’indipendenza in una fantomatica terra di Bengodi ribattezzata Padania.
Ad inchiodarlo ci sono i figli Riccardo, scapestrato con l’hobby dei rally e della candeggina, Renzo il Trota (l’unico pesce senza fosforo, come ebbe a dire il comico Dario Vergassola), somaro di lungo corso diplomato a pagamento, la moglie “terrona” Manuela Marrone, maestrina pensionata di lungo corso con l’hobby degli asili, la pasionaria del Sin.Pa. Rosi Mauro, terrona anche lei con il vezzo della sfrenata superbia e dell’accecata ambizione, che hanno foraggiato copiosamente le loro malsane inclinazioni con i soldi del finanziamento pubblico destinato alla Lega Nord. E che abbiano speso con il tesoriere Belsito il nome di Bossi per intascare i danari o abbiano sostenuto la malata manina del capo per ottenere la sua firma sui bonifici a loro favore è del tutto irrilevante: Bossi sapeva. Perché più volte gli era stato detto, anche sotto forma di ricattatorio avviso, che quelle carte sarebbero venute fuori in caso di necessità o di pericolo per chi quei soldi amministrava. Dunque, non merita alcuna pietà o compatimento, anzi, se un sentimento merita il suo caso, questo non può che essere che il disprezzo più profondo. Non merita certo di meglio chi pur consapevole delle più che modeste qualità del proprio figlio finisce per imporlo in politica, garantendogli un ricco appannaggio di oltre diecimila euro mensili a spese dei cittadini allocchi che gli hanno dato il proprio voto.
E’ la caduta degli dei quella di Bossi, la definitiva conferma che la democrazia e la politica hanno urgente e improrogabile necessità di una riforma che le metta al riparo dalle eterne infezioni che colpiscono orizzontalmente i suoi gestori. E ciò che significa questo tonfo inglorioso è ben condensato in un articolo di Alexander Stille su la Repubblica di oggi: «La feccia che risale il pozzo – questo sembrano le porcherie della famiglia Bossi che vengono ora a galla nelle varie inchieste sulle finanze della Lega Nord. Mi ha sempre stupito come, fino ad ora, Umberto Bossi sia riuscito a continuare a passare come un tribuno del popolo, castigatore dei costumi nefasti di Roma Ladrona, quando era perfino troppo evidente da dieci o quindici anni che i leader della Lega erano diventati tra i membri più viziati ed arroganti della casta politica italiana e che Bossi non aveva realizzato niente – proprio niente – delle sue tante promesse elettorali, in particolare, un’Italia federalista. L’unico loro successo semmai era di avere creato una rete di clientela leghista in alcune regioni e città che assomigliassero alle clientele della prima Repubblica……Bossi, miracolosamente, è riuscito a tenere tranquillo il suo elettorato pur prendendolo in giro in un modo sempre più palese. Ha mantenuto il suo profilo populista grazie al suo dito medio alzato e le sue battute volgari, becere e spesso violente, mentre tutto il suo comportamento politico andava in senso contrario. Da campione di Mani Pulite, motore del movimento anti-corruzione, Bossi si è rapidamente convertito in difensore dei privilegi della classe politica. Da figura trasversale che ha lasciato il primo governo Berlusconi denunciando il colpo di spugna mirato a proteggere la famiglia Berlusconi dalle inchieste giudiziarie, Bossi è diventato l’alleato più fedele del grande corruttore. Improvvisamente, dopo aver parlato di Berlusconi come “Craxi con la parrucca” e come “il mafioso di Arcore”, Bossi ha fatto molto del lavoro sporco del Popolo della Libertà, appoggiano quasi tutte le misure fatte dagli avvocati di Berlusconi per toglierlo dai guai, per proteggere la sua azienda, annacquare il codice penale, azzerare processi in corso e rendere molto, molto difficile i processi di corruzione. Doveva destare molti più sospetti l’aiuto finanziario che Berlusconi ha dato alla Lega per farla uscire dalla crisi - due milioni in forma di linea di credito garantita da una fideiussione personale di Silvio Berlusconi. Questo aiuterebbe a capire come mai Bossi si sia trasformato da cane arrabbiato del popolo del Nord in cagnolino della corte di Berlusconi dal 2001, anno del prestito, a oggi. Conoscendo la “generosità” del Cavaliere non sarebbe fuori luogo sospettare che questi due milioni siano solo la punta dell’iceberg. La presenza del nome di Aldo Brancher nelle inchieste sulla Lega – uomo di fiducia di Berlusconi e figura chiave in molti processi di tangenti e corruzione – presenta vari scenari possibili.».
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