venerdì, novembre 23, 2012

La solidarietà della casta

Venerdì, 23 novembre 2012
Ce la stanno mettendo tutta e chissà che alla fine non ce la facciano pure.
In questo scorcio di fine legislatura sta succedendo di tutto, in negativo s’intende. E ieri s’è assistito ancora una volta all’ennesimo colpo di mano di un parlamento di onorevoli indegni di questo titolo.
La cronaca parlamentare dice infatti che l'emendamento al decreto sviluppo, che proponeva di ridurre gli stipendi dei parlamentari, investendo questo notevole taglio nelle opere di sviluppo e crescita è stato dichiarato "inammissibile" e così i poco onorevoli della repubblica delle banane mantengono il loro stipendio intatto e i costi della politica non cambiano, mentre gli stessi poco onorevoli continuano a votare l’imposizione di duri sacrifici al popolo.
Non c’è che dire, l’ennesimo bell’esempio di vomitevole corporativismo imbecille e irresponsabile, che se da un lato aumenta esponenzialmente la disaffezione dalla politica, dall’altro fa montare la rabbia cieca di chi non ha più posto nella cinghia per far buchi e adeguarla al proprio girovita. E quella che monta è una rabbia sorda, foriera di implicazioni imprevedibili così continuando, una rabbia alimentata dalla più totale insensibilità di una classe dirigente sempre più sprezzante e disinvolta, che deve sperare che mai insorga la scintilla che scateni quella giustizia popolare che travolge come un uragano tutto ciò che incontra sul suo cammino.
L'istanza, portata avanti dalla senatrice Pd Leana Pignedoli, è stata respinta dalla Commissione industria del Senato, che sta vagliando l’ammissibilità o meno dei circa 1.800 emendamenti presentati.
I parlamentari, dunque, hanno votano no, negando al Paese la possibilità di reperire fondi per investire sulla crescita e l'occupazione giovanile, che a parole costituisce una vera emergenza nazionale. Era quanto deciso dall'emendamento bocciato: "Al fine di reperire, attraverso la riduzione del costo della rappresentanza politica nazionale, maggiori risorse da destinare al sostegno delle politiche per la crescita e l'occupazione giovanile, il trattamento economico omnicomprensivo annualmente corrisposto ai membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica non può superare la media ponderata rispetto al Pil degli analoghi trattamenti economici percepiti annualmente dai membri dei Parlamenti nazionali dei sei principali Stati dell'Area Euro".
Il parlamento italiano non è nuovo a queste ribalderie, a bocciare proposte di legge che tentano di accorciare la distanza tra le retribuzioni dei suoi membri e quelle dei comuni cittadini. Già lo scorso anno, a luglio, quando ancora era in piedi il governo Berlusconi, la Commissione Bilancio del Senato aveva bocciato - durante una votazione notturna e segreta - i provvedimenti da adottare per ridurre i costi della politica, annunciati dall'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti, che tentava di adeguare i compensi dei parlamentari nazionali alla media di quella degli altri paese europei.
E la musica non è cambiata neanche con Monti, che aveva annunciato mirabolanti interventi per ridurre il numero dei rappresentanti nelle due Camere e incisivi tagli ai costi della politica: qualcuno gli ha fatto notare che al parlamento è riconosciuto dalla legge un potere autarchico di autodeterminazione dei compensi dei parlamentari e così il professore ha dovuto fare un’ingloriosa retromarcia, tra sberleffi e risatine compiaciute.
La decurtazione dell'indennità parlamentare di 1.300 euro lordi al mese - 700 euro netti, - di cui si strombazzarono con grande vanto per il sacrificio fatto  parlamentari di destra e sinistra, era in realtà il taglio di un aumento automatico dovuto al cambio di regime pensionistico. Una rinuncia ad un aumento, in buona sostanza, lasciando la situazione esattamente come prima. Nel frattempo, è stato pure steso un complice velo di silenzio  sulla raccolta firme per chiedere un referendum sul taglio degli stipendi d'oro dei parlamentari. Si tace così, probabilmente per evitare che qualche buontempone autolesionista si senta giustificato dall’incalzare i propri poco autorevoli colleghi a trattare con maggiore attenzione il tema in argomento, sulla raccolta di un milione e trecentomila firme già effettuata per dire no alla legge 261 del 1965, che fissa in 3.500 euro mensili l’indennità aggiuntiva che ogni membro di Camera e Senato riceve per le spese di soggiorno a Roma. E’ una proposta che ha un iter lungo: a gennaio, infatti, le firme raccolte saranno consegnate in Cassazione, che dovrà valutare la legittimità delle sottoscrizioni ed il cui esito che si saprà soltanto in autunno. Dopodiché sarà la volta della Corte Costituzionale, che valuterà i quesiti non prima di gennaio 2014 e, se tutto va bene, autorizzerà il conseguente referendum abrogativo a non prima della primavera successiva. In quest’attesa dagli esiti incerti, non solo i parlamentarti in carica ma anche quelli che li sostituiranno con la prossima tornata elettorale si godranno senza fare una grinza il principesco appannaggio in atto, alla faccia dei cittadini imbufaliti e svenati dalle tasse.
La domanda più che lecita è a questo punto quanto i nostri sedicenti rappresentanti – e il sedicente è d’obbligo, visto che dimostrano d’essere refrattari ad ogni richiamo di buon senso e persino indifferenti alle conseguenze potenziali derivanti da questi allucinanti comportamenti, - credono che sia possibile andare avanti. Se ritengano che la pazienza o l’ignavia – come è più plausibile – dei cittadine possa perpetuarsi senza reazioni.
Sembrerebbe del tutto inutile rammentare il noto detto secondo il quale ciascuno ha il governo che si merita e dunque, se le cose vanno in una certa maniera in parlamento, è perché, di fondo, agli Italiani va del tutto bene che una classe parassita che lavora tre giorni alla settimana, infarcita anche di inquisiti e qualche scampato alla galera, guadagni stipendi così scandalosi: è una sorta di scambio tacito tra un certo dilagare del malcostume sociale, fatto d’evasione, di lavoro nero, di bustarelle, di raccomandazione e di quant’altro annoverabile nel manuale del truffaldino e dell’arrangione, e chi ne governa le sorti, che non avrebbe alcun interesse a forzare la legalità anche a proprio danno. E allora non sarebbe qualche rimbrotto a dover far temere per l’equilibrio delle cose. Tuttavia nessuno ha messo in conto che il quadro sociale sta cambiando con una rapidità imprevista e le schiere dei senza lavoro, dei precari senza futuro e delle famiglie a rischio di consumare un pasto sta incrementandosi in modo preoccupante, con il rischio di rompere fragorosamente un equilibrio ormai altamente instabile.

giovedì, novembre 22, 2012

Il letargo della ragione



Giovedì, 22 novembre 2012
Non sono molti gli organi di stampa che ne parlano, ma ciò che è accaduto ieri al Senato ieri ad opera di un drappello di senatori berlusconiani è l’inequivoco e definitivo segnale che la democrazia italiana è in stato comatoso.  
Un emendamento al decreto Sviluppo presentato ieri a Palazzo Madama, nascosto nei 1600 contenuti nelle proposte in discussione, vorrebbe introdurre un quarto grado di giudizio nel sistema giudiziario, basandosi sul presupposto che, qualora una sentenza della Cassazione fosse viziata da manifesta violazione del diritto comunitario, la parte interessata potrebbe chiederne la correzione o la revoca, con ricorso da presentarsi alle Sezioni Unite della stessa Cassazione. L’emendamento qualora approvato prevederebbe altresì la retroattività dell’efficacia della nuova norma, poiché non troverebbe applicazione solo alle sentenze future bensì anche a quelle  «depositate nei due anni precedenti l'entrata in vigore». Il condannato dovrebbe solo fare attenzione a chiedere il «quarto grado di giudizio» entro 180 giorni dall'effettiva operatività della nuova norma, con la possibilità, oltretutto, di ottenere la sospensione delle sentenze. Così la Cassazione oltre che per errori materiali o di fatto potrebbe essere scavalcata con il facile appiglio della violazione del diritto comunitario.
Sarebbe del tutto superfluo sottolineare il coro di critiche sollevatesi dalle opposizioni ad un ipotesi come quella paventata, ipotesi che si concretizzerebbe, di fatto, con il «blocco del sistema giustizia, grazie all’introduzione di pratiche dilatorie contrarie  alle ragioni di chi invoca il processo breve e che avvantaggerebbero esclusivamente solo coloro che dispongono di mezzi economici sostanziosi», - come ha evidenziato Donatella Ferranti, capogruppo del PD in Commissione Giustizia della Camera, e che sintetizza il senso di improponibilità dell’emendamento.
Ma la questione stimola ben più gravi considerazioni sull’irrisolto tema dell’incompatibilità e del conflitto d’interessi che da oltre un ventennio schiaccia la nostra democrazia, deviandone ricorrentemente l’esercizio per salvaguardare le posizioni di qualcuno, ossessionato dall’individuazione di metodi che ne tutelino il tornaconto. Ed il pensiero non può che andare immediatamente a Silvio Berlusconi, all’ennesimo tentativo di cambiare il diritto per salvarsi da processi e condanne passate e future. A partire dalla sospensione del pagamento di 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti per il Lodo Mondadori, sul quale a breve dovrà pronunciarsi la Cassazione. Un emendamento del genere darebbe la scappatoia al Cavaliere di richiedere un ulteriore pronunciamento, ancorché basato su ragioni sussistenti, al solo scopo d’allungare i termini per adempiere l’oneroso pagamento cui potrebbe essere condannato in via definitiva.
Al di là di queste considerazioni, - palesemente fondate visto che il ventennio berlusconiano ci ha reso avvezzi ad ogni scempio della legalità costituita pur di “scudarsi” dalle conseguenze delle leggi valide erga omnes messe in campo dalle falangi del Cavaliere, - l’ipotesi normativa stride platealmente con le innumerevoli denunce sulla lentezza della giustizia sollevate ormai da tempi immemorabili da ogni parte e che hanno portato Monti persino a dichiarare che una delle ragioni dei mancati investimenti nel nostro Paese sarebbe da attribuire alla lentezza dei processi, che non offre alcuna garanzia di certezza giuridica: si pensi ai milioni di processi civili giacenti e che riguardano l’esigibilità di crediti e l’assolvimento di debiti. Chi ha interesse a pagare con la dovuta rapidità quando basta accampare un pretesto ed instaurare un ricorso giudiziale per rimandare sine die i propri obblighi? E’ forse sfuggito ai promotori dell’emendamento che in Italia una causa civile dura mediamente 15 o 20 anni e che tali durate bibliche vanno a vantaggio esclusivo dei debitori? Che senso ha una giustizia che nei fatti tutela esclusivamente chi può permettersi di foraggiare legulei di grido a danno di chi non ha analoghe capacità economiche? Dov’è l’applicazione della famosa legge Pinto con la quale si sono assegnati tempi “certi” alla durata dei processi? Credono, infine, i presentatori dell’emendamento che ci si sia scordati dell’indegna gazzarra montata nelle aule parlamentari per accorciare i tempi della prescrizione al fine di offrire maggiori garanzie di rapidità per la conclusione dei processi? Quali motivi adesso soggiacciono contrari agli esiti di quella gazzarra da richiede un allungamento dei processi con l’introduzione di un quarto grado?
I quesiti potrebbero continuare ben più numerosi, ma non è certo dall’abbondanza dei quesiti che dipende lo smascheramento di una propensione della destra italiana a dimostrarsi asservita agli interessi innominabili di una sola persona, che da anni tiene in scacco il Paese e che in conseguenza di questi interessi ha fatto declinare l’Italia a zimbello della comunità internazionale. Non è più tollerabile che nel nostro panorama politico continuino ad operare personaggi di questo stampo e, ancora peggio, che un intero schieramento parlamentare si muova come un drappello di guastatori pronti a qualunque scempio pur di portare a termine la propria discutibile missione. Sono ormai anni che rispetto ai problemi della gente, a quelli dell’economia, del lavoro, del risanamento del bilancio statale, della ricerca, dell’istruzione, in una parola del paese reale, viviamo sotto l’assedio di Cirelli, di processi brevi, di responsabilità dei magistrati, di legittimi impedimenti, di falsi in bilancio e di altre squallide iniziative personalistiche servite anche a distrarre l’attenzione dagli scempi accessori che alla loro ombra si consumavano. C’è da augurarsi che alla prossima tornata elettorale gli Italiani, comprensibilmente stanchi di queste miserabili messe in scena della politica, non si rifugino nel non voto dell’antipolitica, ma profittino dell’opportunità per liberarsi definitivamente di quei personaggi che, o autori di atti criminali compiuti in ragione del proprio incarico parlamentare o nominati esclusivamente per servire pedissequamente un padrone, infestano le aule delle istituzioni e che sono il sintomo del degrado cui siamo da tempo precipitati.
Il cammino della democrazia è costellato di agguati d’ogni sorta e la sua sopravvivenza dipende primariamente dalla capacità di vigilare affinché le regole dell’equità e della giustizia, nel loro significato più ampio, non cadano nel letargo della ragione generando mostruosi servizi agl’interessi di parte, ma guardino senza compromessi e manipolazioni al benessere della collettività e alla supremazia della rispettosa convivenza, che non ammettono la mortificazione dei diritti della maggioranza cittadini per favorire la libertà incontrollata di pochi altri.

mercoledì, novembre 21, 2012

L'evasione? Te l'azzero col quiz



Mercoledì, 21 novembre 2012
Oggi per l’Italia è un altro D-day, un’altra data storica con la quale tutti i cittadini vengono promossi automaticamente a ragionieri, sebbene senza diritto d’iscriversi ad un albo professionale.
Questo miracolo, - che c’è da giurare non creerà maggiori posti di lavoro, ma che permetterà alla rapace quanto malata compagine del governo dei professori di imporre il numero chiuso nelle iscrizioni ai corsi scolastici per ragionieri e periti commerciali, con conseguenti risparmi per aule, professori e bidelli, - è il frutto non di uno stravagante S. Gennaro, ma della pervicace lotta all’evasione che si prepara ad affrontare rinnovata l’armata di Befera e dell’Agenzia delle entrate.
Qualcuno ha già bollato l’iniziativa come l’ennesima trovata di un governo a corto d’idee, ma affetto da un’inguaribile “sindrome da improvvisazione fiscale”, che lo porta ad inventare improbabili metodi più vicini alla logica della caccia alle streghe che non ad un serio meccanismo di equità e trasparenza contributiva.
Il toccasana, presentato in pompa magna sul sito del fisco nazionale nella giornata di ieri e disponibile già oggi per gli amanti di rebus e sciarade, di gratta e vinci o scarabeo, si basa su un complesso incrocio di elementi di spesa, rilevanti ai fini della misurazione della capacità reddituale dei nuclei familiari italici, che dovrebbero condurre automaticamente all’individuazione della nutrita schiera di evasori che circolano per le strade della nostra disastrata Repubblica.
Il metodo si basa sul presupposto che chi spende una certa somma complessiva nell’arco dell’anno deve necessariamente aver accumulato in quell’arco di tempo redditi non inferiori al volume della spesa effettuata, tenendo conto nel calcolo di prestiti, mutui, introiti percepiti a qualunque titolo tali da pareggiare i costi sostenuti. E fin qui non ci sarebbe molto da obiettare, visto che sul piano teorico la logica cui s’ispira il marchingegno non fa apparentemente una grinza.
L’asino scivola quando ci si addentra nel sistema e ci si rende conto che il volume delle spese indicate dallo sprovveduto contribuente non deve essere quello di cui ha conservato memoria nel corso dell’anno, che potrebbe risultare persino di gran lunga inferiore ai redditi che ha denunciato, ma deve impattare ciò che è in mano al fisco, attraverso gli incroci effettuati nella sua banca dati. Come dire, se ci si è dimenticati di includere nel calcolo la somma sborsata per cavarsi un dente o quella pagata per la messa a punto del motorino, ove queste spese siano state fatturate da chi ha rilasciato la prestazione, la loro mancata indicazione altrettanto automaticamente costituirà un elemento addizionale alla capacità di spesa dichiarata, con tutto ciò che ne consegue, con buon diritto dell’agenzia delle entrate di convocare lo smemorato di turno e chiedergli conto e ragione di come abbia fatto a pagare una prestazione che assottiglia il suo grado di congruenza reddituale.
Il signor Befera, a cui non sarebbe possibile negare di possedere un cuore enorme e una bontà infinità, ha già fatto sapere che s’interverrà solo sulle incongruenze più macroscopiche e senza alcun automatica correzione delle dichiarazioni dei redditi inoltrate per gli anni che saranno sottoposti ad esame con la nuova prelibatezza metodologica. Anzi, poiché per questo rinnovato fisco dal volto umano sarà inaugurato il metodo del contradditorio, i cittadini sospettati saranno convocati – immaginiamo abbia voluto scientemente evitare il termine tradotti – nelle sedi dell’Agenzia e lì potranno ampiamente dimostrare loro illibatezza contributiva. Sfortunatamente ha omesso di precisare Befera se il tempo che verrà dedicato a questi amorevoli intrattenimenti salottieri da parte di chi lavora saranno a carico di questa neo-Gestapo o, come di consueto, resteranno a carico dei malcapitati, né se i cordiali colloqui saranno condotti con l’ausilio di lampade o altro raffinato materiale idoneo, di stimolo alla confessione volontaria.
Di certo è che sia i produttori di carrelli da traino che la gloriosa Registri Buffetti si stanno fregando le mani, data la corsa generalizzata che s’è registrata nelle ultime 24 ore e che si prevede in abbondante crescita nelle prossime settimane, all’acquisto di idonei strumenti di traino del cartaceo probatorio e di cartelline, faldoni, elastici, pinzatrici ed altro materiale d’ufficio idoneo a consentire il trasporto e la conservazione ordinata dei documenti necessari a smacchiare dall’ombra di ogni sospetto i potenziali evasori.
Qualcuno, poi, vinto dai dubbi che tutto possa giocargli contro e confermare la sua propensione all’evasione continuata, ha deciso di non acquistare più alcuna merendina per il figlio scolaro, il cui costo, moltiplicato per i giorni di lezione di un intero anno, potrebbe far decollare la presunzione capacitiva della famiglia e metterlo in grave imbarazzo al cospetto dei cortesissimi ed integerrimi Befera boys.
Né la creatività di Befera, del ministero delle finanze e del governo tutto, durante la paziente elaborazione di queste simpatiche misure, è stata scalfita dal dubbio che prima di generalizzare l’applicazione di sistemi al limite del demenziale come quello di cui si parla, sarebbe stato il caso di intervenire su singole categorie di professionisti, commercianti, imprese artigianali, in cui è arcinoto s’annida l’evasione più sfrenata con l’occultamento di redditi milionari.
La generalizzazione alle famiglie del criterio inquisitorio è, a nostro avviso, un meccanismo capace solo di generare un costo sproporzionato di lotta al fenomeno dell’evasione, che implicherà un enorme dedizione di risorse e, in molti casi, perdita di tempo micidiale, con un’escalation del contenzioso senza precedenti e con il rischio che finirà per rivelarsi un ulteriore maglio in capo a chi è già povero e fa salti mortali pericolosissimi per poter tirare avanti. Ed in questi casi – parecchi, purtroppo, nella realtà odierna – chi riesce a fatica procurarsi un pasto per sé e la propria famiglia, magari con un lavoro in nero discontinuo da poche migliaia di euro all’anno non garantiti, non potendo dimostrare come fa a procurarsi da mangiare con mezzi trasparenti, sarà additato ad esempio di buon funzionamento di un cervellotico metodo d’inquisizione.
Qui nessuno si fa sfiorare dal dubbio che tra il non mangiare e l’arrangiarsi per carenza di opportunità di lavoro la seconda alternativa è un passo obbligato e non un optional. Tantomeno, è del tutto scontato che l’emersione di questo fenomeno, ancorché noto alla schiera dei geni benpensanti, non costituirà di certo il presupposto per “normalizzare” un rapporto di lavoro precario e per dare dignità all’esistenza di chi è costretto a piegarsi ad ogni sorta di ricatto per vivere.
Con questo non vorremmo passare per quanti, pur indirettamente, predicando bene e apparentemente razzolando male, offrono una copertura alla piaga assai diffusa dell’evasione nella nostra realtà. La giustizia fiscale, quell’equità di cui ama riempirsi la bocca il cattedratico Monti, passa inizialmente per l’esempio proveniente dalle istituzioni, quelle istituzioni che dovrebbero tutelare il cittadino e non vessarlo con ogni sorta di ribalderia impunita per appagare la propria famelicità, come accade nei fatti. S’inizi dunque con il presentare il conto alla politica, all’orda di amministratori pubblici corrotti e infedeli, ai dispensatori di leggi e guarentigie a favore delle proprie clientele, alle corporazioni dei professionisti, dei commercianti e degli imprenditori che sguazzano nella permissività delle leggi e che costituiscono con i loro comportamenti la causa del degrado, anziché cominciare sempre da ciò che banalmente non è che l’effetto del problema, se proprio si vogliono dare segnali d’inversione di tendenza.
Dimenticavamo, è la logica del muro basso!
(nella foto, il responsabile dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera)

 

lunedì, novembre 19, 2012

Il centro e l’araba fenice



Lunedì, 19 novembre 2012
Volentieri pubblichiamo un articolo di Luca Ricolfi apparso su La Stampa di oggi, in cui viene tracciata un’immagine della realtà politica italiana e l’eterno tentativo di ogni movimento politico, sia d’estrazione tradizionale che di nuova formazione, di conquistare uno spazio nel cosiddetto centro.
L’autore, nel descrivere le origini del bipolarismo nazionale, bipolarismo in evidente stato fallimentare, offre un’oculata chiave di lettura delle ragioni per le quali a questo fallimento non è al momento prevedibile l’emersione di un nuovo centro capace di contemperare le diverse anime che al suo interno albergano, contrassegnato com’è da distinguo metodologici, differenziazioni di obiettivi e apparenti convergenze, con il risultato che la corsa alla conquista dell’area moderata sembra più un esercizio di dichiarazioni d’intenti che non un processo in grado di consolidarsi con l’affermazione di una delle compagini che ne affollano la scena.
Ne discende una previsione poco rassicurante per il futuro del Paese, una previsione di divisioni irrisolvibili tra quanti aspirano al predominio dell’area moderata, privilegiata dagli Italiani - che tradizionalmente rifuggono gli estremismi sia di destra che di sinistra, - che non può che condurre al radicamento di un’ingovernabilità perdurante, una sorta di fronte occluso a tinte fosche, pernicioso per il futuro dell’Italia e degli Italiani.
E allora, se Montezemolo aprendo ieri la presentazione del suo movimento Italia Futura  ha esordito con un «siamo qui dopo un ventennio perso, in cui ci siamo talvolta vergognati d’essere Italiani» c’è da prevedere che ragioni di vergogna in futuro ve ne saranno ancora.
*****
Sì, pare proprio che il centro stia tornando ad essere di moda, come lo era stato per quasi mezzo secolo, ai tempi in cui governava la Dc. Allora votare centro significava soprattutto una cosa: tenere i fascisti e i comunisti lontani dalle stanze del potere. Ma bastarono 5 anni per disfarne quasi 50. Fra il 1989 e il 1994 tutto cambiò, nel mondo e in Italia. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, e la paura del comunismo si sciolse come neve al sole. Il resto, in Italia, lo fecero Mario Segni con i referendum sulla legge elettorale e Di Pietro con l’inchiesta Mani pulite. In un pugno di anni, fra il 1991 e il 1994, democristiani e socialisti furono affondati per sempre. Al loro posto si fecero avanti i reietti di ieri, fascisti e comunisti, che per rendersi accettabili provvidero lestamente a riverniciare le loro insegne, cambiando nome, modernizzando programmi, stabilendo alleanze con il nuovo o presunto nuovo che stava avanzando, dalla Lega alla Rete, da Forza Italia al Patto Segni.
È così che è nato il bipolarismo all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica. 
Oggi che quel bipolarismo appare fallito, si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra. 
Ma che cosa è il centro oggi?
E’ questa, a mio parere, la domanda che non ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica, una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia: solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di possederne uno. 
Perché quello del centro riuscisse a diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.
Il centro che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto del Mezzogiorno, possiede una lunga storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).
Il centro che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una creatura strana. Per alcuni dei suoi protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso, ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap? Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e tassando i propri cittadini?
Sono solo esempi, ma si potrebbero moltiplicare. Su tutte queste cose il centro tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché è affetto da «ma-anchismo», il tic per cui prendevamo in giro Veltroni qualche anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra, diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo, le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di Grillo, sia le politiche della destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un estremo il moderatismo cattolico, tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle famiglie, all’altro estremo il radicalismo riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni, la cittadella dei liberali oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar Giannino). E vedrete che è più facile mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero cattolico e un vero liberale.
Luca Ricolfi, (La Stampa 19.11.2012)

(nella foto, Luca Cordero di Montezemolo)

giovedì, novembre 15, 2012

Elezioni e circo della politica



Giovedì, 15 novembre 2012
Come al solito si fa affidamento sulla memoria corta degli Italiani se chi ha ridotto il Paese ad una latrina lurida e nauseabonda adesso si arroga persino il diritto di richiamare l’attenzione sui risparmi che deriverebbero dall’accorpamento delle elezioni regionali con le politiche in programma nel 2013.
Correva l’anno 2011 e il capo comico Berlusconi e il suo cast di clown occupava palazzo Chigi oltre che il parlamento e il complesso delle istituzioni della Repubblica. Nei primi mesi di quell’anno si pose il problema di accorpare i referendum abrogativi sulla privatizzazione dell’acqua, sul legittimo impedimento e sul nucleare, e le consultazioni amministrative, prevedendo un risparmio di circa 300/350 milioni di euro da tale accorpamento. Com’è noto, l’accorpamento fu bocciato in parlamento dalla maggioranza di governo dell’epoca, convinta che il mantenimento di date disgiunte per le consultazioni avrebbe determinato un flop per i quesisti referendari e che, in ogni caso, l’eventuale voto negativo che avrebbe potuto emergere sui quesiti referendari non avrebbe condizionato anche il voto per i partiti ed i candidati del centrodestra alle amministrative. L’esito di quelle consultazioni, sebbene disgiunte, è noto a tutti: il centrodestra incassò una sonora sconfitta sia nei referendum, passati con una maggioranza plebiscitaria, che nelle successive elezioni per i rinnovi dei consigli comunali, risultati che ridimensionarono vistosamente la mappa del suo potere locale.
A distanza di poco più di un anno, gli stessi personaggi, che in quell’occasione non badarono certo ad economizzare il danaro pubblico pur di tentare di trarre un vantaggio, scendono in campo ed alzano la voce per chiedere l’accorpamento delle elezioni politiche, previste per l’aprile del 2013, e le regionali di Lazio, Lombardia e Molise fissate indicativamente per il febbraio dello stesso anno.
E per far ciò che argomenti utilizzare – udite, udite!, - se non il risparmio di circa 150 milioni che ne deriverebbe per le casse dello stato..
Sembra incredibile, ma ormai la gentaglia che si arroga il diritto di rappresentarci vive in un tale delirio di sprezzante onnipotenza da imporci a proprio insindacabile piacimento tutto ed il contrario di tutto, con un continuo cambiamento di carte in tavola da lasciare sconvolti. E la protervia dei loro comportamenti è tale da non trovare ostacolo neanche in un presumibile senso minimo di responsabilità che ci si augurerebbe albergasse nelle loro menti malate. L’ondivago ex unto del Signore, Silvio Berlusconi, la mezza tacca in crisi di leadership, Angelino Alfano, e i resti di quel residuato di Circo Medrano che è orami il centrodestra arrivano persino a minacciare su questa questione la crisi di governo, il ritiro del sostegno al governo Monti, che, accusato nella circostanza d’essersi piegato ai diktat di Bersani e delle sinistre, si vorrebbe prono alla soddisfazione dei loro inconfessabili desideri.
La partita è aperta e dall’esito incerto. Non che Monti ed i suoi arrivisti professorini non meritino il benservito, ma i motivi della sfiducia nei loro confronti sono ben altri rispetto all’improbabile omaggio concesso ai voleri delle sinistre. Hanno platealmente dimostrato che per loro risanare i conti consiste nel tagliare il rancio a chi è già in evidente stato anoressico e nell’accettare con clericale devozione che chi già mangiava aragoste ed ostriche sia meritevole di rimpinzarsi anche di pregiato caviale del Volga. In quanto a sviluppo, equità sociale e progetti di nuove opportunità occupazionali, sono rimasti solo gli slogan, come nelle campagne pubblicitarie, in cui si promettono miracolosi toccasana dal consumo del prodotto ma mai se ne vedono gli effetti.
La verità e che dietro la minaccia dei ringalluzziti clown del decimato Circo Medrano c’è un altro obiettivo, una finalità assai più acuta e dalle soluzioni così difficili da togliere il sonno ai protagonisti di quel gran guignol .
Il problema vero è la legge elettorale, che preso atto della sconfitta alla prossime consultazioni orami scritta, il centrodestra sta cercando da tempo di modificare con il minor danno possibile nei propri confronti. Così da una posizione di chiusura alla sua modifica, s’è prima passati ad un’apertura a ritocchi marginale e poi, via via, al riconoscimento d’improbabili premi di maggioranza, chiamati pomposamente premi di governabilità, del tutto impossibili da conseguire per qualunque partito e qualunque coalizione. E’ evidente che un premio di maggioranza legato al raggiungimento di una percentuale di consensi oltre al 40%, come si starebbe delineando, non consentirebbe ad alcun partito di poterne usufruire e così si perpetuerebbe una condizione cronica di ingovernabilità per uscire dalla quale sarebbe necessario inventarsi alleanze improbabili tra vincitori e vinti, con lo scatenamento delle clientele e dei ricatti cui la politica nostrana ci ha abituato dai tempi dei governi a guida DC. L’ipotesi non è peregrina se si pensa che già da qualche tempo si sono formate nello scenario politico coalizioni in cui s’ammucchiano partiti le cui radici ideologiche non avrebbero mai potuto consentire non solo la coabitazione ma persino rapporti di vicinato. In poche parole, ancora una conferma che tutto va cambiato affinché cambi nulla.
In questo panorama, sbaglia chi ritiene che la politica non si renda conto di quanto questi meschini giochi da prestigiatori delle tre carte da mercatino rionale non consolidino il deprecato senso dell’antipolitica. La certezza del rifiuto della gente di questi metodi è talmente chiara che chi della politica ha fatto una redditizia professione e, peggio ancora, chi al di fuori di quella professione non saprebbe come sbarcare il lunario, cerca disperatamente d’inventarsi ogni possibile escamotage per non perdere il posto e tornarsene a casa con biglietto di sola andata, dato che obtorto collo un ricambio ci sarà senz’altro. Qualcuno ha problemi di altra natura, per esempio come salvare il proprio patrimonio di dubbia accumulazione che vede in qualche modo minacciato. Chi alla politica si è accostato solo perché ha annusato qualche pericolo per le proprie fortune dal cambiamento del vento o dalle ondate che in passato hanno spazzato via i referenti di cui s’era servito senza doversi esporre in prima persona, certamente qualcosa teme. In questi casi, non si tratta di politici di professione o, come comunemente li si definisce, di razza. Costoro, in realtà, possono avere persino reazioni più pericolose nell’eventualità di veder compromessa la loro posizione di privilegio, poiché si sono formati alla scuola delle camarille, delle bustarelle, dello shopping di tutto e di tutti e, adesso, da un cambiamento radicale delle regole del gioco, cui non erano assolutamente preparati, non sanno a che santo votarsi.
In questo bailamme, dunque, va bene tutto ed il contrario di tutto, tanto alla fine avrà il sopravvento chi ha saputo vendere la propria cialtroneria al meglio; e in ogni caso c’è chi dovrebbe fare l’opposizione e mostrare senso di concretezza che, navigando nell’incertezza e nell’approssimazione, dà senza volere una mano non indifferente allo sfascio generale. Così trionfa l’antipolitica e il qualunquismo, ed il furbissimo Grillo ed il suo dirompente M5S mietono proseliti a man bassa e portano a casa il successo dei tanti signor nessuno senza un progetto e uno straccio di programma, ma con tanti anatemi insulsi contro le presunte icone di una crisi economica, sociale e morale che ha colpito l’immaginario di chi, nella disperazione, aveva la necessità d’individuare un colpevole qualunque su cui scaricare la propria rabbia.   
Dall’altro lato, tra coloro che si assume dovrebbero avere una maggiore coscienza del significato della politica, non si fa che litigare per l’affermazione del proprio primato personale, quasi che la guida del Paese sia divenuta una sorta di pubblico concorso, in cui vince chi recita meglio un copione, e non sia piuttosto il risultato di una capacità di tracciare una via con la quale invertire una tragica tendenza e guidare fuori dal pantano di una crisi senza precedenti. Qui, in ultima analisi, sembra si stia giocando uno scontro tanto drammatico quanto incosciente, fatto di slogan, di dichiarazioni di principio e di personalismi esasperati, sul quale troneggia l’omissione di un programma di iniziative concrete sulle quali impegnarsi ventre a terra in caso di vittoria. E il cittadino a quel punto rimane basito, non comprende la ragione per la quale tra un Bersani e un Renzi, tra un Vendola e un Tabacci o una Puppato l’uno debba preferirsi all’altro, visto che cambierebbero i volti ma permarrebbe quel vuoto di idee che angoscia e che non lascia sperare nel futuro.
E allora, in questa melma putrida di contraddizioni e di scontri di bassa lega c’è da chiedersi quale sia la via d’uscita se, da qualunque parte si giri la frittata, non s’intravvede uno spiraglio di luce. La risposta ben ce la sintetizza una vignetta di Altan apparsa oggi sul quotidiano la Repubblica: tanto vale tirare la monetina per designare chi dovrà governarci, tanto per vincere ormai ci vuole solo culo e, aggiungeremmo noi, con il vantaggio di non dover buttare via soldi per consultazioni inutili.