venerdì, novembre 23, 2012

La solidarietà della casta

Venerdì, 23 novembre 2012
Ce la stanno mettendo tutta e chissà che alla fine non ce la facciano pure.
In questo scorcio di fine legislatura sta succedendo di tutto, in negativo s’intende. E ieri s’è assistito ancora una volta all’ennesimo colpo di mano di un parlamento di onorevoli indegni di questo titolo.
La cronaca parlamentare dice infatti che l'emendamento al decreto sviluppo, che proponeva di ridurre gli stipendi dei parlamentari, investendo questo notevole taglio nelle opere di sviluppo e crescita è stato dichiarato "inammissibile" e così i poco onorevoli della repubblica delle banane mantengono il loro stipendio intatto e i costi della politica non cambiano, mentre gli stessi poco onorevoli continuano a votare l’imposizione di duri sacrifici al popolo.
Non c’è che dire, l’ennesimo bell’esempio di vomitevole corporativismo imbecille e irresponsabile, che se da un lato aumenta esponenzialmente la disaffezione dalla politica, dall’altro fa montare la rabbia cieca di chi non ha più posto nella cinghia per far buchi e adeguarla al proprio girovita. E quella che monta è una rabbia sorda, foriera di implicazioni imprevedibili così continuando, una rabbia alimentata dalla più totale insensibilità di una classe dirigente sempre più sprezzante e disinvolta, che deve sperare che mai insorga la scintilla che scateni quella giustizia popolare che travolge come un uragano tutto ciò che incontra sul suo cammino.
L'istanza, portata avanti dalla senatrice Pd Leana Pignedoli, è stata respinta dalla Commissione industria del Senato, che sta vagliando l’ammissibilità o meno dei circa 1.800 emendamenti presentati.
I parlamentari, dunque, hanno votano no, negando al Paese la possibilità di reperire fondi per investire sulla crescita e l'occupazione giovanile, che a parole costituisce una vera emergenza nazionale. Era quanto deciso dall'emendamento bocciato: "Al fine di reperire, attraverso la riduzione del costo della rappresentanza politica nazionale, maggiori risorse da destinare al sostegno delle politiche per la crescita e l'occupazione giovanile, il trattamento economico omnicomprensivo annualmente corrisposto ai membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica non può superare la media ponderata rispetto al Pil degli analoghi trattamenti economici percepiti annualmente dai membri dei Parlamenti nazionali dei sei principali Stati dell'Area Euro".
Il parlamento italiano non è nuovo a queste ribalderie, a bocciare proposte di legge che tentano di accorciare la distanza tra le retribuzioni dei suoi membri e quelle dei comuni cittadini. Già lo scorso anno, a luglio, quando ancora era in piedi il governo Berlusconi, la Commissione Bilancio del Senato aveva bocciato - durante una votazione notturna e segreta - i provvedimenti da adottare per ridurre i costi della politica, annunciati dall'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti, che tentava di adeguare i compensi dei parlamentari nazionali alla media di quella degli altri paese europei.
E la musica non è cambiata neanche con Monti, che aveva annunciato mirabolanti interventi per ridurre il numero dei rappresentanti nelle due Camere e incisivi tagli ai costi della politica: qualcuno gli ha fatto notare che al parlamento è riconosciuto dalla legge un potere autarchico di autodeterminazione dei compensi dei parlamentari e così il professore ha dovuto fare un’ingloriosa retromarcia, tra sberleffi e risatine compiaciute.
La decurtazione dell'indennità parlamentare di 1.300 euro lordi al mese - 700 euro netti, - di cui si strombazzarono con grande vanto per il sacrificio fatto  parlamentari di destra e sinistra, era in realtà il taglio di un aumento automatico dovuto al cambio di regime pensionistico. Una rinuncia ad un aumento, in buona sostanza, lasciando la situazione esattamente come prima. Nel frattempo, è stato pure steso un complice velo di silenzio  sulla raccolta firme per chiedere un referendum sul taglio degli stipendi d'oro dei parlamentari. Si tace così, probabilmente per evitare che qualche buontempone autolesionista si senta giustificato dall’incalzare i propri poco autorevoli colleghi a trattare con maggiore attenzione il tema in argomento, sulla raccolta di un milione e trecentomila firme già effettuata per dire no alla legge 261 del 1965, che fissa in 3.500 euro mensili l’indennità aggiuntiva che ogni membro di Camera e Senato riceve per le spese di soggiorno a Roma. E’ una proposta che ha un iter lungo: a gennaio, infatti, le firme raccolte saranno consegnate in Cassazione, che dovrà valutare la legittimità delle sottoscrizioni ed il cui esito che si saprà soltanto in autunno. Dopodiché sarà la volta della Corte Costituzionale, che valuterà i quesiti non prima di gennaio 2014 e, se tutto va bene, autorizzerà il conseguente referendum abrogativo a non prima della primavera successiva. In quest’attesa dagli esiti incerti, non solo i parlamentarti in carica ma anche quelli che li sostituiranno con la prossima tornata elettorale si godranno senza fare una grinza il principesco appannaggio in atto, alla faccia dei cittadini imbufaliti e svenati dalle tasse.
La domanda più che lecita è a questo punto quanto i nostri sedicenti rappresentanti – e il sedicente è d’obbligo, visto che dimostrano d’essere refrattari ad ogni richiamo di buon senso e persino indifferenti alle conseguenze potenziali derivanti da questi allucinanti comportamenti, - credono che sia possibile andare avanti. Se ritengano che la pazienza o l’ignavia – come è più plausibile – dei cittadine possa perpetuarsi senza reazioni.
Sembrerebbe del tutto inutile rammentare il noto detto secondo il quale ciascuno ha il governo che si merita e dunque, se le cose vanno in una certa maniera in parlamento, è perché, di fondo, agli Italiani va del tutto bene che una classe parassita che lavora tre giorni alla settimana, infarcita anche di inquisiti e qualche scampato alla galera, guadagni stipendi così scandalosi: è una sorta di scambio tacito tra un certo dilagare del malcostume sociale, fatto d’evasione, di lavoro nero, di bustarelle, di raccomandazione e di quant’altro annoverabile nel manuale del truffaldino e dell’arrangione, e chi ne governa le sorti, che non avrebbe alcun interesse a forzare la legalità anche a proprio danno. E allora non sarebbe qualche rimbrotto a dover far temere per l’equilibrio delle cose. Tuttavia nessuno ha messo in conto che il quadro sociale sta cambiando con una rapidità imprevista e le schiere dei senza lavoro, dei precari senza futuro e delle famiglie a rischio di consumare un pasto sta incrementandosi in modo preoccupante, con il rischio di rompere fragorosamente un equilibrio ormai altamente instabile.

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