sabato, dicembre 29, 2012

Il paese delle porcate e dei manigoldi



Sabato, 29 dicembre 2012
L’antico cerusico ha colpito ancora. Come è nel suo stile ha estratto dalla borsa degli attrezzi le sue viscide sanguisughe e con rara maestria le ha attaccate sul petto del presunto malato, convinto che un buon salasso sia la medicina giusta per guarire il male e rimetterlo in piedi velocemente.
Poco importa che il malato sia un vecchio oramai con la tempra minata dagli anni e dalle fatiche giovanili, se dovesse lasciarci le penne almeno non lo si dovrà più mantenere con una pensione pagata dallo stato e spacciata come un esborso quasi indebito, che pesa sulle spalle dei pochi giovanotti fortunati che hanno un lavoro, pagano contributi e, probabilmente, una pensione non la vedranno mai.
Ma il professore Monti è contento così. I vecchi, ovviamente lui escluso, non servono più a niente. Anzi pesano sulle casse dello stato e prima si levano di torno meglio è. E allora ecco rispolverata la ricetta del vecchio cerusico, con tanto di sanguisughe a succhiare il sangue ai pensionati per far quadrare i conti della repubblica delle porcate e dei manigoldi.
Come non fossero bastati i rincari dei servizi, i tagli alla sanità, le gabelle più fantasiose, l’incremento dei prezzi, l’IMU e le mille diavolerie inventate per spremere i contribuenti, particolarmente quelli redditualmente più deboli ed i pensionati, dal primo gennaio scattano gli aumenti del 3% per adeguare le pensioni al costo della vita ma, anche il prossimo anno, la rivalutazione non sarà valida per gli assegni superiori tre volte la soglia minima. Il blocco della rivalutazione riguarda sei milioni di pensionati. Con la rivalutazione prevista una pensione minima passerà da 481 euro a 495,43, mentre una da 1.000 euro arriverà a quota 1.025 euro. Nel 2013 sarà ancora in vigore il blocco della rivalutazione annuale introdotto con la riforma Fornero e, quindi, sei milioni di pensionati vedranno invariato il valore della propria pensione per il secondo anno di fila. Il blocco – fa sapere il sindacato pensionati della Cgil - riguarda soprattutto pensionati che hanno un reddito mensile di 1.217 euro netti (1.486 euro lordi): nel 2012 ha già perso 363 euro, l'anno prossimo ne perderà 776. Un pensionato con un reddito mensile di 1.576 euro netti (2.000 lordi) nel 2012 ha perso invece 478 euro e nel 2013 ne perderà 1.020.
Tutto questo per alleggerire gli oneri a carico dell’INPS che, ciononostante. Continua, per bocca del suo presidente Mastrapasqua, a presentare i conti in ordine, e senza nessuna considerazione per l’allarme lanciato dall’ISTAT secondo il quale con meno di 1500 euro netti al mese si è nella soglia di povertà.
«In questo anno - ha detto il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone - abbiamo assistito a un accanimento senza precedenti sui pensionati, che più di tutti hanno dovuto pagare sulla propria pelle il conto della crisi. L'aumento annuale delle pensioni, che scatterà nei prossimi giorni, è risibile e non garantisce il pieno recupero del loro potere d'acquisto. Oltretutto da questo meccanismo automatico sono stati estromessi per decreto sei milioni di pensionati, la maggior parte dei quali non possono di certo essere considerati ricchi o privilegiati. Il governo - conclude - ha scelto deliberatamente di colpire la categoria dei pensionati lasciandone in pace tante altre che potevano e dovevano contribuire al risanamento dei conti, ed è per questo che per noi la cosiddetta Agenda Monti non può di certo essere la ricetta giusta per la crescita e lo sviluppo del Paese».
Una vera porcata, diciamo noi, appropriandoci per una volta del colorito linguaggio della Lega, considerato che il blocco della rivalutazione delle pensioni è già in vigore dal gennaio del 2012 e che il 3% previsto per il 2013 è ben lungi dal compensare l’effettiva variazione del costo della vita intervenuta nel corso dell’anno che se ne va.
Inoltre, se di porcate si deve parlare, non va dimenticato che nel corso del 2012 i fantasmagorici progetti d’equità del cerusico Monti o non si sono visti per niente o sono andati a puttane, perché sistematicamente bocciati dal manipoli di manigoldi che siede in parlamento a per farsi i fattacci propri. Lo stesso Mastrapasqua, che in qualche occasione abbiamo visto in televisione balbettare imbarazzato nello spiegare che i conti del suo istituto erano a posto anche senza bisogno delle follie del ministro Fornero, gode di una modestissima retribuzione di oltre 600 mila euro all’anno, che francamente suona un insulto gravissimo a chi deve rinunciare ai pochi spiccioli dell’indice di rivalutazione automatica del proprio assegno di pensione.
Né l’appannaggio di Antonio Mastrapasqua si può giustificare con il rango di presidente in servizio permanente effettivo: sarà pure bravo oltre che un affermato commercialista, ma a scorrere il suo curriculum viene spontaneo chiedersi quali superpoteri possegga per aver ricoperto da sempre cariche apicali in innumerevoli aziende pubbliche e parapubbliche. Non crediamo che una certa limatura del suo stipendio, associata ad altrettante limatura alle retribuzioni dei tanti boiardi di stato, non potesse dare un contributo significativo al contenimento della spesa statale, senza per questo costringerlo in povertà.
Ma l’ulteriore porcata sta nel metodo d’applicazione della norma-blocco sulle pensioni. Non è chiara, a parte l’iniquità, la ragione per la quale il blocco non sia stato applicato alle quote eccedenti  il famigerato importo eccedente cinque volte il minimo, lasciando fuori quelle comprese nel plafond. Ma ci rendiamo conto che avanzare queste obiezioni ad un governo che ha nel suo DNA l’obiettivo esclusivo di far soldi a spese dei più deboli è cosa priva di significato.
C’è da augurarsi che alle prossime elezioni i cittadini si ricordino delle vessazioni loro inflitte e rispondano adeguatamente con il loro voto, senza farsi irretire dai pifferai  e dagli illusionisti come purtroppo avviene spesso. 
(nella foto, un gruppo di modesti pensionati)

giovedì, dicembre 27, 2012

Quando anche l’arbitro vuol segnare un gol



Giovedì, 27 dicembre 2012
C’è chi giura di averlo trovato un po’ più pallido del solito e qualcuno addirittura d’un colore tendente al verdognolo, come se avesse usato un dopobarba al muschio natalizio. Ma cosa è realmente accaduto a Renato Schifani che lo ha ridotto in queste sospette condizioni di salute? Non è certo il mancato ricorso alle primarie, che ha sostenuto a gran voce, dice lui, ma che una probabile faringite deve avergli affievolito al punto che nessuno l’ha sentito. Né deve esser stata la fuga di quattro reprobi dal PdL, come Frattini o Pisanu e altri ingrati mattacchioni, che devono aver inferto un colpo inaspettato alla sua figura al punto da conferirgli un’apparenza da infermo cronico.
E’ lui stesso che spiega le origini del male oscuro. «Monti ha espresso valutazioni politiche in una sede situazionale» ha dichiarato il poveretto, e ciò non solo l’ha lasciato di stucco perché è cosa che non si fa, ma gli ha procurato un improvviso e rapido deflusso sanguigno dalle parti superiori del corpo verso le zone periferiche, creando le condizioni di pallore accentuato di cui si parla.
Confessiamo che poco c’importa se il baldo Presidente, seconda carica dello stato, accusa reazioni così anomale ad un evento del tutto rituale cui s’è reso artefice Mario Monti. Nella quasi normalità la rabbia fa bollire e, dunque, provoca una pigmentazione paonazza del volto. Lui, invece, a certe “provocazioni reagisce sbollendo immediatamente e ciò spiega l’arcano.
Ma cosa ha mai fatto Monti per suscitare cotanto sbigottimento – che ormai va di moda – nell’intrepido e, soprattutto, “indipendente” presidente del Senato? Semplice, ha riunito la stampa nazionale e internazionale nella sala delle conferenze di palazzo Chigi, cioè una sede istituzionale, e nel tracciare un resoconto di quanto fatto dal suo esecutivo dopo un anno di governo ha preannunciato il suo ingresso nella politica attiva e la dismissione della tuta da tecnico con la quale s’era presentato a suo tempo. Va sottolineato che questo cambio d’abbigliamento non l’ha fatto in quella sala ostentando impudicamente canottiera e mutande tra un abito e l’altro, ma il mutamento è stato virtuale e, quindi, nessuno ha gridato allo scandalo.
Ciò che ha sbigottito il serafico Schifani è stato il tenore del discorso di Monti, che con grande onestà ha voluto precisare che tra lui e il Cavalier Silvio Berlusconi non c’è alcun punto ipotetico di convergenza politica e dunque qualsivoglia ammucchiata centrista o dei moderati non lo vede interessato. Certo non ha precisato se anche lui durante qualche riunione internazionale di capi di governo abbia avuto la tentazione di mostrare le corna o di umettarsi provocantemente le labbra con la lingua rivolgendo lo sguardo a qualche signora presente; e non sapremo probabilmente mai se questi stimoli goliardici o d’irriducibile sexual harrassment non li ostenti per timidezza o un innato self control, che se confessati avrebbero ancora potuto lasciare una speranza a Berlusconi e soci.
Ma Schifani, da buon capufficio della premiata Casa Arcore più che da seconda carica della Repubblica, ha ritenuto doveroso precisare che le parole di Monti, da lui interpretate come veri e propri attacchi nei confronti di Berlusconi, siano state «un manifesto per una candidatura. Credo che sarebbe stato meglio fare questo in altre occasioni. E’ strana una conferenza stampa di un premier che attacca l’ex premier». Ovviamente in questa veste di censore tutore del protocollo Schifani s’è scordato di precisare che le poche cose dette da Monti, peraltro con garbo ed eleganza, sul conto del buontempone di Arcore erano assolutamente inoppugnabili.
A dire il vero, se di sbigottimento si può parlare nella vicenda, a noi sembra alquanto strano che il presidente del Senato rilasci valutazioni di natura politica di parte, considerato che il suo ruolo dovrebbe mantenerlo in una posizione equidistante particolarmente quando si tratta di giudizi che investono un altro organo istituzionale. Ma si sa che oramai è prassi stravolgere l’odine costituito ed entrare a gamba tesa sull’avversario anche se in campo si è arbitri e non giocatori di una delle due squadre che s’affrontano.
Come era stata facile previsione, la propaganda di Silvio è scesa in campo senza deludere le attese. Fabrizio Cicchitto, che meriterebbe il nomignolo di “bocca di panna” per la lievità delle parole che è solito usare nel rivolgersi agli avversari ha tempestivamente fatto sapere che «Monti ha completamente disatteso il discorso sviluppato a Bruxelles in sede Ppe, dove si era parlato di un suo ruolo di federatore del centro e del centrodestra. Al di là della singolare durezza, al limite dell’arroganza, con cui il presidente Monti ha espresso la sua posizione politica e ha rivendicato un anno di governo fatto tutto di luci senza alcuna ombra, per ciò che riguarda il futuro si apre un interrogativo politico di notevole rilievo. Infatti – ha aggiunto Cicchitto  – nella sua intervista alla stampa estera e poi a Lucia Annunziata, di fatto, il presidente Monti ha indirizzato ai centristi il suo messaggio politico e programmatico, attaccando frontalmente il Pdl e dando anche qualche bacchettata alla sinistra. Invece, nell’intervista a Eugenio Scalfari egli ha ipotizzato una alleanza del centro con la sinistra».
Anche Angelino Alfano, il maggiordomo tuttofare dell’ex premier, non ha potuto tacere alle parole di Monti ed al sentito il dovere aziendale di precisare che quello del Professore  è stato «uno sfogo ingeneroso nei confronti di Berlusconi».  Poi ha voluto precisare – non si sa bene a chi, dato che la maggior parte di coloro a cui s’è rivolto durante il governo Monti erano qui e non in gita su Marte - «Sono stati tredici mesi di collaborazione e di rapporti personali cordiali. Per cui le parole del presidente del Consiglio sono state connotate a mio avviso da un eccessivo livore, soprattutto nei confronti di Berlusconi, che mai mi sarei aspettato. Anche sotto il profilo umano». C’è mancato poco che l’Angelino-il-maggiordomo per avvalorare la portata di questa collaborazione facesse l’elenco posticcio delle tante riforme “realizzate” con il disponibile apporto del PdL, ma forse non se l’è sentita solo per evitare di sbigottire chi lo intervistava.
(nella foto, Renato Schifani)

mercoledì, dicembre 26, 2012

Parità e lotta al femminicidio



Mercoledì, 26 dicembre 2012
Chi s’è inventato il termine “femminicidio” per qualificare la sempre più frequente uccisione di donne meriterebbe il Nobel per la cretinaggine.
Il neologismo, ancorché brutto di suo, contrariamente a quanto lasciano intendere le buone intenzioni di denuncia di un esecrabile fenomeno di violenza estrema sulle donne, rivela due aspetti mentali gravissimi, che non aiutano certo di per sé una campagna di sensibilizzazione al fenomeno medesimo e ad emarginare quanti approfittano di una biologica debolezza fisica delle donne per perpetrare azioni criminali d’ogni sorta, che non di rado giungono alla soppressione della vittima.
Il primo aspetto non condivisibile del termine sta nell’indicare la vittima in funzione della sua sessualità e non certo per il suo status umano. Quando si parla di femmine ci si riferisce a qualunque animale dotato di requisiti sessuali precisi, senza distinguere tra una cagna o una gatta; mentre nel caso di una femmina umana, si vorrà convenire, sarebbe più opportuno oltre che linguisticamente rispettoso parlare di donna. Nessuno s’è mai sognato di parlare di “maschicidio” ed il termine per definire questi delitti è omicidio. Nulla osterebbe all’utilizzo del termine “donnicidio”, qualora si volesse distinguere la natura della vittima nel descrivere un delitto commesso.
Il secondo aspetto è persino più grave del precedente, poiché dissimula un approccio profondamente razzista nei confronti della donna, al punto da dover conferire ai soprusi cui è spesso sottoposta in ragione della sua minore forza fisica naturale un richiamo d’attenzione, quasi si trattasse d’una specie protetta da preservare dall’estinzione.
Queste premesse, che non mancheranno di suscitare probabile dissenso, sono gli elementi affioranti di una ancestrale cultura nei confronti delle donne, che in vaste aree del pianeta sono spesso considerate – in qualche caso persino nelle normative ufficiali – esseri complementari dell’uomo, nella migliore delle ipotesi, se non subalterne o vere proprie schiave della supremazia maschile.
A questa infezione percettiva non è estranea anche la cultura occidentale, dove la donna, molto spesso destinataria di apprezzamento per le sue qualità intellettive e per le sue capacità di eseguire altrettanto egregiamente attività umane un tempo esclusivo appannaggio dell’uomo, nei fatti è ancora fortemente discriminate nella carriera, nella retribuzione e nell’attribuzione di ruoli di particolare rilevanza.
Quantunque sia innegabile che rimangono ancora forti i pregiudizi nei confronti delle donne, v’è dall’altro lato un discutibile approccio delle donne verso se stesse, use sovente ad utilizzare le “armi” improprie della seduzione anche nei frangenti nei quali tali “tecniche” dovrebbero restare assolutamente estranee, con ciò confermando un’inconscia  consapevolezza degli handicap con i quali sono costrette a misurarsi nel contesto sociale in cui vivono.
A questi complessi condizionamenti culturali non è estranea anche la Chiesa, che per certi versi rimane un’istituzione estremamente retriva se non addirittura reazionaria. Sono sintomi di questa irriducibile mentalità ottusa le frequenti dichiarazioni sul ruolo della donna nella società, le tesi addotte contro la contraccezione e l’interruzione della gravidanza. Il rifiuto delle scelte di rinnovamento  ecclesiastico e le polemiche sul sacerdozio femminile sono la roccaforte culturale dell’oscurantistica visione di subalternità della donna nella società; una società secondo la Chiesa in cui la donna non ha né il diritto di disporre del proprio corpo né di assumere ruoli pastorali e di guida della fede.
Non stupisce, dunque, la polemica accesasi in queste ore nel comune ligure di San Terenzo di Lerici a causa di  un manifesto affisso sul portone della chiesa dal parroco don Piero Corsi. In poche righe l’illuminato prelato attribuisce alle donne gran parte della colpa dei femminicidi. L'estratto dalla lettera apostolica «Mulieres dignitatem», commentata da Bruno Volpe, editorialista del famigerato sito Pontifex.it, dal titolo «Donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?», è stato così affisso sulle porte della chiesa con sconcerto dei parrocchiani.
Sostanzialmente, il volantino accusa le donne di meritarsi il peggio per essersi allontanate dalla virtù e dalla famiglia, al punto da meritare la sorte in cui incappano molte di loro. Né dalle più alte gerarchie della Chiesa, difronte a tanta insulsa idiozia, ci si è sentiti in dovere di richiamare il curato a rimuovere il volantino e a mantenere un maggiore equilibrio per il futuro nel rivolgersi ai fedeli della sua comunità. D’altra parte Pontifex.it, organo di stampa della corrente più oscurantista e integralista della Curia romana, è da sempre un megafono della peggiore reazione del clero conservatore che alberga in Vaticano e che annovera proseliti tra le file anche nelle diocesi periferiche. Piero Corsi, il parroco che ha curato l'affissione del manifestino, era già noto alle cronache per la sua passione per il «tazebao» scandalistico e provocatorio, avendo già dedicato fogliettoni satirici all'Islam e contro agli immigrati, con l'affissione alla porta della chiesa di deliranti proclami razzisti.
Chissà quando effettivamente le donne acquisiranno veramente quel rispetto e quell’eguaglianza nella società, fuori da ogni blandimento di maniera e senza il ricorso alle scorciatoie cui si costringono quotidianamente. Certo non è con le sole dichiarazioni d’intento o con i proclami, con tanto di ridicole quote rosa, che potrà realizzarsi effettivamente quella parità di diritti e doveri che rende gli individui eguali nella società.  

lunedì, dicembre 24, 2012

Quel che non ha capito Mario Monti



Lunedì, 24 dicembre 2012
Com’era nelle premesse, il discorso di commiato di Mario Monti di ieri s’è trasformato in una dichiarazione ufficiale di disponibilità politica a continuare una futura esperienza di governo. Questa disponibilità, sebbene circoscritta da severe condizioni, sia di natura tecnica – Monti è senatore a vita e, dunque, non potrà candidarsi – che politica, – l’accettazione integrale della sua Agenda, vero e proprio testamento programmatico, - è stata dichiarata in modo inequivoco, con ciò sciogliendo la suspense che  intorno alla sua figura si era costruita nelle ultime settimane sugli intendimenti che avrebbero accompagnato la conclusione del suo mandato di governo.
Il discorso di commiato è stato dedicato all’illustrazione di ciò che il governo ha fatto negli oltre 400 giorni di esercizio e non sono mancate precise considerazioni sullo stato del Paese all’esordio del suo incarico, o riferimenti all’operato di chi lo aveva preceduto. In qualche passaggio, infatti, il suo commento è apparso anche l’occasione per togliersi parecchi sassolini dalle scarpe e per rispondere in maniera molto chiara alle lusinghe di un Berlusconi che, dopo averlo sfiduciato per bocca di Angelino Alfano, avrebbe preteso di trovarselo al fianco quale leader di una fantomatica coalizione dei moderati.
«Gratitudine ma anche sbigottimento» per Berlusconi, ha dichiarato Mario Monti, sebbene «talora faccio fatica a seguire la linearità del suo pensiero», ha aggiunto con franchezza. Non afferro la logica di chi mi chiede un impegno al suo fianco dopo avermi sfiduciato il giorno precedente, è stata la sintesi delle sue dichiarazioni all’invito di Silvio Berlusconi.
Ma quantunque occorra riconoscere al professor Monti l’eleganza e la serietà con la quale ha ripercorso l’operato del suo esecutivo, nonché gli innegabili successi sul piano della politica internazionale e sulla recuperata immagine dell’Italia nel contesto Europeo, non si può non dissentire e criticarlo profondamente su alcuni aspetti che hanno contrassegnato la sua lacunosa presenza a palazzo Chigi.
In tanti ricorderanno che il suo governo s’era insediato dichiarando obiettivi ambiziosi, che nei fatti sono stati disattesi o addirittura elusi. Risanamento, equità, lavoro e sviluppo erano stati gli slogan dichiarati all’indomani del suo esordio ed oggi, a consuntivo, se non può non prendere atto di quanto abbia realizzato sulla strada del risanamento, non può sottacersi quanto fallimentare sia stata l’azione del suo esecutivo sulla via dell’equità, delle politiche del lavoro e del rilancio occupazionale e dello sviluppo. Questi obiettivi sono sostanzialmente rimasti a livello delle dichiarazioni d’intento e, pertanto, ogni valutazione sulla capacità di Monti di determinare una svolta innovativa su temi rilevanti che affliggono la società italiana non può che restare sospesa.
Né è pensabile assumere ad elemento a favore del suo successo la riforma delle pensioni partorita dal ministro Fornero, in una parola, pessima, o il claudicante ridisegno delle regole del mercato del lavoro con tanto di tignosa revisione dell’articolo 18 dello Statuto. Se un giudizio dovesse essere espresso sulla base di queste iniziative le conclusioni non potrebbero che essere che fortemente negative. Anzi, per usare le parole stesse del Professore, lascia sbigottiti una riforma che allunga l’obbligatorietà del lavoro a palese danno delle aspettative di chi cerca lavoro in un mercato divenuto occluso per legge. Gli stessi provvedimenti di riforma del mercato del lavoro, che hanno mitigato ma non precluso definitivamente il ricorso ad un precariato diffuso, sono un ulteriore sintomo della politica fallimentare in tema di sviluppo occupazionale. E a questo proposito sbaglia Monti quando, eccedendo in improbabili sofismi linguistici, accusa Vendola di conservatorismo, solo perché reclama il ripristino di regole di garanzia sul lavoro: non si può strumentalmente confondere l’istanza di dar concretezza al dettame costituzionale d’impiego per tutti con tesi involuzioniste, che restaurano strumenti di flessibilità selvaggia senza tutela, strumenti che richiamano alla mente metodi da albori dell’industrializzazione e del capitalismo, basati sullo sfruttamento dello stato di bisogno.
Non può inoltre trascurarsi  l’iniquità dei provvedimenti assunti in questi ultime tredici mesi in materia di tassazione. Non è in discussione l’esigenza di individuare fonti di approvvigionamento per fronteggiare i fabbisogni di bilancio dello stato e l’acquisto di medicine adeguate per fronteggiare la crisi economica. Ma è indubbio che la distribuzione dei sacrifici, al di là della pesantezza, si è concentrata sui contribuenti “sicuri”, cioè su coloro che per la natura dei redditi percepiti non avrebbero potuto avere scampo dall’incremento della pressione fiscale. Né crediamo sia necessario spiegare al professor Monti il significato del termine equità, essendogli certamente noto che per realizzarsi effettivamente avrebbe dovuto imporre un appesantimento degli oneri a carico di chi ha indiscutibilmente una maggiore capacità contributiva rispetto ai pensionati, ai lavoratori a reddito fisso ed alle altre categorie di tartassati, sui quali è stato preferito concentrare il peso del drenaggio fiscale.
Monti e la sua squadra, davanti a questa débâcle d’equità sociale e le critiche che vengono loro mosse non hanno alcun diritto né di risentirsi né, tantomeno, di ricorrere all’humor sprezzante con il quale sono avvezzi eludere l’assunzione di circostanziate responsabilità. Anzi, questo comportamento svaluta senza appello ciò che di buono in qualche misura è stato fatto da quel governo ed accentua il rigetto dei cittadini comuni all'idea di un eventuale ritorno del Professore in cabina di regia.
Certo, un indiscusso merito va riconosciuto a Monti, - probabilmente più all’uomo che ai suoi discutibili tecnicismi, - quello di aver scompaginato le posizioni di rendita dei partiti tradizionali, mettendo con le sue dichiarazioni e la trasparenza delle verità il Paese in condizione di poter giudicare la politica sui fatti più che sugli slogan elettoralistici. In particolare, dall’esperienza Monti esce con le ossa rotte il centro-destra e la politica delle illusioni che ha prodotto nell’ultimo ventennio, con la caduta definitiva di Silvio Berlusconi e dei suoi squallidi galoppini trasformisti e affaristi. Gli stessi galoppini che già appestano le edicole e lanciano proclami mediatici in sintonia con la cultura del fango quale sono soliti. Ma nel bene o nel male, ciascuno ha le sue convinzioni e credere che sia possibile resuscitare i cadavere è pratica su cui già da secoli si sono esercitati tanti illusi necroferi, che l'evoluzione scientifica non ha certo cancellato.
D’altra parte pensare di riaccreditarsi agli occhi del Paese puntando ancora una volta sulla suggestione, raccontando sogni ed incubi posticci nei quali Ingroia è ministro della giustizia, Di Pietro alla cultura, Vendola alla famiglia e Fini alle fogne, solo per svillaneggiare gli avversari, denota solo la bassezza morale ed etica di chi li narra, bassezza in cui l’Italia non è certamente più disposta farsi trascinare.