Parità e lotta al femminicidio
Mercoledì, 26 dicembre
2012
Chi s’è inventato il termine “femminicidio”
per qualificare la sempre più frequente uccisione di donne meriterebbe il Nobel
per la cretinaggine.
Il neologismo, ancorché brutto di
suo, contrariamente a quanto lasciano intendere le buone intenzioni di denuncia
di un esecrabile fenomeno di violenza estrema sulle donne, rivela due aspetti
mentali gravissimi, che non aiutano certo di per sé una campagna di
sensibilizzazione al fenomeno medesimo e ad emarginare quanti approfittano di
una biologica debolezza fisica delle donne per perpetrare azioni criminali d’ogni
sorta, che non di rado giungono alla soppressione della vittima.
Il primo aspetto non
condivisibile del termine sta nell’indicare la vittima in funzione della sua
sessualità e non certo per il suo status umano. Quando si parla di femmine ci
si riferisce a qualunque animale dotato di requisiti sessuali precisi, senza
distinguere tra una cagna o una gatta; mentre nel caso di una femmina umana, si
vorrà convenire, sarebbe più opportuno oltre che linguisticamente rispettoso
parlare di donna. Nessuno s’è mai sognato di parlare di “maschicidio” ed il
termine per definire questi delitti è omicidio. Nulla osterebbe all’utilizzo
del termine “donnicidio”, qualora si volesse distinguere la natura della
vittima nel descrivere un delitto commesso.
Il secondo aspetto è persino più
grave del precedente, poiché dissimula un approccio profondamente razzista nei
confronti della donna, al punto da dover conferire ai soprusi cui è spesso
sottoposta in ragione della sua minore forza fisica naturale un richiamo d’attenzione,
quasi si trattasse d’una specie protetta da preservare dall’estinzione.
Queste premesse, che non
mancheranno di suscitare probabile dissenso, sono gli elementi affioranti di
una ancestrale cultura nei confronti delle donne, che in vaste aree del pianeta
sono spesso considerate – in qualche caso persino nelle normative ufficiali –
esseri complementari dell’uomo, nella migliore delle ipotesi, se non subalterne
o vere proprie schiave della supremazia maschile.
A questa infezione percettiva non
è estranea anche la cultura occidentale, dove la donna, molto spesso
destinataria di apprezzamento per le sue qualità intellettive e per le sue
capacità di eseguire altrettanto egregiamente attività umane un tempo esclusivo
appannaggio dell’uomo, nei fatti è ancora fortemente discriminate nella
carriera, nella retribuzione e nell’attribuzione di ruoli di particolare
rilevanza.
Quantunque sia innegabile che
rimangono ancora forti i pregiudizi nei confronti delle donne, v’è dall’altro
lato un discutibile approccio delle donne verso se stesse, use sovente ad
utilizzare le “armi” improprie della seduzione anche nei frangenti nei quali tali “tecniche”
dovrebbero restare assolutamente estranee, con ciò confermando un’inconscia consapevolezza degli handicap con i quali sono
costrette a misurarsi nel contesto sociale in cui vivono.
A questi complessi
condizionamenti culturali non è estranea anche la Chiesa, che per certi versi
rimane un’istituzione estremamente retriva se non addirittura reazionaria. Sono
sintomi di questa irriducibile mentalità ottusa le frequenti dichiarazioni sul
ruolo della donna nella società, le tesi addotte contro la contraccezione e l’interruzione
della gravidanza. Il rifiuto delle scelte di rinnovamento ecclesiastico e le polemiche sul sacerdozio
femminile sono la roccaforte culturale dell’oscurantistica visione di subalternità
della donna nella società; una società secondo la Chiesa in cui la donna non ha
né il diritto di disporre del proprio corpo né di assumere ruoli pastorali e di
guida della fede.
Non stupisce, dunque, la polemica
accesasi in queste ore nel comune ligure di San Terenzo di Lerici a causa di un manifesto affisso sul portone della chiesa
dal parroco don Piero Corsi. In poche righe l’illuminato prelato attribuisce alle
donne gran parte della colpa dei femminicidi. L'estratto dalla lettera
apostolica «Mulieres dignitatem»,
commentata da Bruno Volpe, editorialista del famigerato sito Pontifex.it, dal titolo «Donne e il femminicidio, facciano sana
autocritica. Quante volte provocano?», è stato così affisso sulle porte
della chiesa con sconcerto dei parrocchiani.
Sostanzialmente, il volantino
accusa le donne di meritarsi il peggio per essersi allontanate dalla virtù e
dalla famiglia, al punto da meritare la sorte in cui incappano molte di
loro. Né dalle più alte gerarchie della Chiesa, difronte a tanta insulsa
idiozia, ci si è sentiti in dovere di richiamare il curato a rimuovere il volantino e a mantenere un
maggiore equilibrio per il futuro nel rivolgersi ai fedeli della sua comunità.
D’altra parte Pontifex.it, organo di
stampa della corrente più oscurantista e
integralista della Curia romana, è da sempre un megafono della peggiore
reazione del clero conservatore che alberga in Vaticano e che annovera
proseliti tra le file anche nelle diocesi periferiche. Piero Corsi, il parroco che
ha curato l'affissione del manifestino, era già noto alle cronache per la sua
passione per il «tazebao» scandalistico e provocatorio, avendo già dedicato
fogliettoni satirici all'Islam e contro agli immigrati, con l'affissione alla porta
della chiesa di deliranti proclami razzisti.
Chissà quando effettivamente le
donne acquisiranno veramente quel rispetto e quell’eguaglianza nella società,
fuori da ogni blandimento di maniera e senza il ricorso alle scorciatoie cui si
costringono quotidianamente. Certo non è con le sole dichiarazioni d’intento o
con i proclami, con tanto di ridicole quote rosa, che potrà realizzarsi
effettivamente quella parità di diritti e doveri che rende gli individui eguali
nella società.
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