Epifania che Monti si porta via
Venerdì, 21 dicembre
2012
Finalmente il grande giorno è
arrivato. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, sta consumando le ultime
ore di permanenza a palazzo Chigi, dopodiché renderà definitive le dimissioni
sue e del suo governo.
Chi s’augurerebbe di non doverlo
più rivedere in posizioni di governo, tuttavia è probabile vada deluso, stante
la sequela di dichiarazioni, frasi a mezza bocca e sottintesi lessicali con i
quali il Professore è passato da una posizione che escludeva categoricamente un
suo impegno personale al termine della sua esperienza di governo ad un suo
possibile ritorno in campo alla guida di una coalizione centrista. I nomi che
lo sostengono non mancano e vanno dal sempiterno Casini a Fini, da Riccardi a
Montezemolo, da Rutelli a Tabacci, e persino nel PD c’è qualcuno, come Ichino e
Fioroni che non disdegnano l’idea che il Professore possa riproporsi a capo del
governo post elezioni e continuare sulla strada del risanamento sin qui
condotta.
Francamente l’ipotesi appare oggi
più che mai e alla luce dell’esperienza degli ultimi tredici mesi di
premiership Monti una iattura per il Paese, non fosse perché al di là degli
indubbi meriti di aver condotto l’Italia al ruolo di prestigio internazionale
che meritava dopo la nefasta esperienza Berlusconi, di tutto ha bisogno il
Paese tranne che di un personaggio che ha dimostrato nei fatti una sfrenata
vocazione all’uso sconsiderato della tassazione e a snobbare i problemi del sociale
e della gente comune. I provvedimenti del suo governo in tema di pensioni,
carico fiscale, lavoro e sviluppo economico, per citare le aree sulle quali ha
concentrato gli interventi, hanno certamente determinato condizioni di
tendenziale riequilibrio dei conti pubblici, ma i sacrifici imposti ai
cittadini, particolarmente a quanti erano già in stato di potenziale indigenza,
e alle cosiddette classi medie, costituiscono un conto salatissimo che va ad
offuscare gravemente il significato delle sue buone dichiarazioni d’intento.
Il governo Monti ha agito nel
modo più classico con cui avrebbe operato qualunque esecutivo di destra, priva
di lungimiranza, di sensibilità e di senso dell’equità, avendo scaricato sul
lavoro dipendente e sui redditi medio-bassi il peso del risanamento e lasciato
quasi del tutto indenne quel 10% della popolazione nelle cui mani, secondo le
statistiche ufficiali, risiede oltre il 50% della ricchezza nazionale. Né vanno
trascurati gli interventi a favore delle banche, vittime delle spericolate
operazioni speculative decise dal loro management, e rimpinguate di miliardi di
euro a danno della collettività.
Qualcuno ricordava alcuni giorni
or sono le parole del grande Ettore Petrolini che con ironica amarezza
sosteneva: «Conviene chiedere soldi hai
poveri perché anche se ne hanno pochi sono di più». E l’operato di questo
governo, nonostante le dichiarazioni spesso tronfie dei ministri Cancellieri o Grilli
o Passera a proposito di lotta all’evasione, si è pervicacemente diretto all’esproprio
di parti cospicue di reddito dalle tasche delle gente comune, con IMU,
innalzamenti delle aliquote IVA, tagli agli assegni di pensione, riduzione dei
fondi per la CIG, indifferenza alle politiche restrittive del credito alle
imprese da parte delle banche. Nulla è stato fatto per ridurre i costi
parassitari della politica, - vero cancro del Paese, - per la riduzione del numero
dei rappresentanti (di se stessi) parlamentari, per il riordino delle
istituzioni periferiche dello stato, per imporre un contributo significativo ai
grandi patrimoni, peraltro molto spesso di sospetta provenienza e dubbia
accumulazione.
Mentre rimane la certezza che il
professore Monti difficilmente abbia avuto il coraggio di guardarsi allo
specchio per rammentarsi la provenienza accademica e dare un senso più “economico”
ai suoi provvedimenti, rimane insoluto il quesito su quanto abbia pesato nelle
sue decisioni la pressione che le solite lobby di potere devono aver
esercitato. Se queste pressioni non ci fossero state, d’altra parte, non si
spiegherebbe la ragione per la quale ha spesso ostentato i muscoli, ricorrendo
ad un raffinato humor anglosassone, per fustigare il dissenso e mollare davanti
a forzature inammissibili in tema di giustizia, incandidabilità dei condannati
ed altre amenità di esclusiva incidenza degli interessi dei sepolcri imbiancati
sparsi a macchia di leopardo in questa triste Repubblica. E se qualcuno
potrebbe sostenere che una maggiore testardaggine di Monti avrebbe portato
ancor prima alle elezioni anticipate, francamente non ci pare che il risultato
avrebbe potuto essere molto diverso: voteremo due mesi prima della scadenza
naturale della legislatura e se avessimo i due mesi d’anticipo fossero stati quattro
o cinque ci saremmo ritrovati con una legge di stabilità rinviata alle
competenze del nuovo parlamento e nulla più. In Grecia, additata come nazione stracciona
e sull’orlo del fallimento dalle cassandre opportunistiche di turno, le
elezioni si sono tenute in una situazione ben più grave di quella italiana ed
oggi, contrariamente ad ogni previsione, si annuncia a gran voce che il
previsto fallimento non ci sarà più.
Nel frattempo Monti, di cui non è
dato sapere il motivo del cambiamento d’opinione, sembra preparare la sua
campagna elettorale, quantunque non è certo un’addomesticata platea di fabbrica
che può offrire idea concreta dell’eventuale successo. A Melfi, dove s’è recato
in compagnia del famigerato Marchionne, ha indirettamente sottolineato i
successi del suo esecutivo: «Penso che
sarebbe irresponsabile dissipare i tanti sacrifici che gli italiani si sono
assunti facendo ripiombare il Paese in uno stato nirvanico». Poi ha aggiunto solenne: «l'Italia aveva febbre alta e non bastava un' aspirina», serviva una «medicina amara non facile da digerire ma assolutamente necessaria per
estirpare la malattia». Naturalmente, s’è ben guardato nell’ampollosa
generalizzazione dall’indicare a chi la medicina fosse stata somministrata e se
la stessa non abbia prodotto gravi effetti collaterali. Certo è che se le
speranze debbono fondarsi sulle sue previsioni, «A Melfi nel '93 è nata la Punto oggi nasce punto e a capo, cioè una
svolta, una ripartenza nel rapporti tra la Fiat e l'Italia», non c’è da
stare affatto tranquilli, specialmente se la “ripartenza dei rapporti” cui
intendeva alludere è quella basata sull’azzeramento dei diritti dei lavoratori ad
opera del tiranno Marchionne e un sindacato lecchino pronto a svendere qualunque
intesa con la promessa di miliardari quanto improbabili nuovi investimenti.
Il quadro è dunque delineato. Un
Monti pressoché deciso a non farsi da parte e sempre più in sintonia con quel
capitalismo padrone che confida di prosperare sulla pelle dei lavoratori. E
mentre non rimane che nel confidare sul responso delle urne, che sperabilmente
dia una regolata alle sfrenate ambizioni del Professore, è allo stesso tempo
opportuno esprimere un rammarico: ma non avrebbe fatto meglio a pensare di continuare
a dare il suo contributo da Capo dello Stato, ruolo al quale sembrava il più
probabile candidato, piuttosto che schierarsi con una discesa in campo che,
ancorché di incerto successo, gli preclude ogni possibilità?
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