venerdì, dicembre 07, 2012

Caimano disperato



Venerdì, 7 dicembre 2012
Ha sonnecchiato per oltre un anno, leccandosi le ferite e dando l’impressione di aver rinunciato definitivamente all’agone. Ma, come avevamo ampiamente previsto all’annuncio del suo ritiro dalla politica, si trattava solo di una finta, di una ritirata strategica, di un periodo di riposo durante il quale con l’aiuto dei suoi mastini sperava poter risolvere in sordina i guai giudiziari che ancora l’affliggono e, forse a quel punto, godersi sì una fine vecchiaia serena tra gnocca e bunga-bunga.
Le cose non sono andate come pensava e sperava. I suoi emissari, a cominciare da quell’Alfano indicato da lui stesso come suo delfino, s’è rivelato una fragile triglia in mezzo ad un branco di squali di ragguardevole misura, pronti a divorarlo nella guerra di successione che nei fatti con l’abbandono del governo Silvio Berlusconi aveva aperto.
E’ così sfilata una teoria di mezza tacche convinta di poter rilevare la guida del PdL, rispondenti al nome di Santanché, Meloni, Samorì e lo stesso Alfano, convinti di trovare in improbabili primarie la legittimazione a reclamare l’eredità berlusconiana . Nello stesso tempo chi s’esponeva sul palco delle elezioni di partito doveva fare i conti con il silente ma duro dissenso dei La Russa e dell’ala ex AN del partito, al punto che, ancora qualche settimana fa, il Caimano disperato e inquieto minacciava dalla torre del silenzio di varare un nuovo soggetto politico, così da emarginare i nostalgici di Salò e riportare verso il centro la prua della nave.
Un centro sempre più congestionato non solo da Casini e dalla sua armata Brancaleone API e Fli, ma dall’arrivo nientemeno che di Montezemolo e il movimento dei montiani, e dal qualunquismo disfattista di un Beppe Grillo sempre più ringalluzzito dai risultati delle elezioni siciliane.
Nessuno, e men che meno il Cavaliere Caimano, aveva fatto i conti con il successo delle primarie in casa centro-sinistra, che hanno visto trionfare non Matteo Renzi, sindaco di Firenze e capofila dei rottamatori, ma il vecchio Pierluigi Bersani, dimostratosi non un cavallo bolso come sperava la dirigenza del PdL, ma il destriero ancora vitale in grado di riconciliare una buona parte dell’elettorato della sinistra con quella politica avvilita e avvelenata da un ventennio di spocchia berlusconiana e dal cattivo esempio inoculato a tutto il quadro politico nazionale.
Il populista Renzi è uscito irrimediabilmente sconfitto dal confronto con il compassato e realista Bersani. E questo è stato un campanello d’allarme stridente negli orecchi del Cavaliere, certo che un successo del giovane rottamatore gli avrebbe consentito di gestire con più favorevoli fortune una campagna elettorale nella quale il suo PdL parte svantaggiato. La vittoria di Bersani rende l’impresa del PdL di recuperare sul terreno dei consensi molto più difficile, non fosse perché il PD al governo, come sembra paventarsi, guidato dalla vecchia nomenklatura ha parecchi sassolini nelle scarpe di cui liberarsi – non ultima quella mai varata legge sul legittimo impedimento – le cui conseguenze probabilmente gli sarebbero state risparmiata da un eventuale successo di Renzi, più accomodante e necessario di presentarsi per consolidare il proprio prestigio con un volto più accondiscendente.
Se queste considerazioni si muovono dal campo delle ipotesi, meno ipotetiche sono reazioni che Berlusconi deve avere avuto al fallimento dell’ennesimo tentativo di far passare una norma a suo favore, come quella su un quarto grado di giudizio, che avrebbe rimesso in discussione lo sfavorevole esito della causa Mondadori-De Benedetti, la sentenza con la quale è stato condannato per frode fiscale  nel processo Mediaset e gli esiti del processo Ruby in corso, che si prevedono assai sfavorevoli per lui.
In questo panorama disperante al Caimano non restava che sferrare un poderoso colpo di coda e tentare di far piazza puliti di quanti in questo momento, fatti e persone, gli stanno rendendo difficilissima la respirazione.
I sondaggi nel frattempo parlano chiari: il suo partito, o meglio ciò che ne resta, potrà puntare nella migliore delle ipotesi ad un 15% dei consensi, che è ben miserabile cosa rispetto a quel 38% con cui trionfò nel 2008. La Lega di Maroni, ancora con le ossa rotte in esito allo scandalo che ha travolto il patriarca Bossi, ancorché decida di seguirlo in un’improbabile coalizione, si prevede ad un 4% e non sarebbero certo i voti dell’ex ministro dell’economia Tremonti, fondatore di recente di un movimento politico personale, l’atout in grado di capovolgere la drammaticità dei numeri.
A torto o ragione, per il momento i colonnelli del Cavaliere hanno piegato come di consueto la testa e, ubbidienti, hanno aperto le ostilità verso il governo Monti, al quale hanno sostanzialmente ritirato ogni appoggio, trincerandosi dietro un’incomprensibile astensione sia alla Camera che in Senato. Contemporaneamente hanno aperto il battage elettorale con slogan ed accuse a Monti, che, se non provenissero proprio dalle fila di chi ha ridotto allo sfascio il Paese e lo ha messo alla berlina internazionale, potrebbero forse avere un fondo di verità.  
Le reazioni internazionali a questa ennesima buffonata del Caimano e delle sue truppe di burattini non s’è fatta attendere: lo spread è risalito di una quindicina di punti e la borsa italiana  ha chiuso ripetutamente in negativo, nell’incubo non tanto del ritorno del Cavaliere in posizione di potere, quanto dell’immagine di grave instabilità che il Paese offrirà nei prossimi mesi che ci separano dalle elezioni.
C’è da augurarsi che questa volta gli italiani sappiano punire in modo esemplare chi li ha non solo illusi, ma chi da un ventennio ha calcato la scena politica esclusivamente per meglio poter arrangiare i propri fattacci personali, infischiandosene del naufragio in cui veniva coinvolto il sistema Italia; di questo novello Schettino festaiolo che ha sempre pensato a salvare primariamente se stesso. E sicuramente da questo epilogo non esce bene anche il suo equipaggio, fatto di burattini senza capacità autonoma, a cui è stato sufficiente minacciare di togliere le pile per ridurlo a più miti consigli. D’altra parte le interminabili sceneggiate sulla legge elettorale hanno dimostrato che sino a quando è un solo uomo a decidere di candidature e liste, il ricatto ha il sopravvento sul coraggio e, ciò che più conta, persino sulla dignità.

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