Scalare Monti con il Cavallo Pazzo
Lunedì, 17 dicembre
2012
Il nome rimanda la memoria al
mitico capo Sioux della tribù Oglala Lakota, che insieme con l’altrettanto mitico Toro Seduto, sconfisse il colonnello
Custer nella storica battagli di Little Big Horn. Il nome, nel tempo, ha finito
per assumere un significato diverso, essendo passato a definire non più un
valoroso guerriero quanto più una persona con qualche problema di stabilità,
bizzarra come un cavallo matto.
E tanto per restare in tema di
paragoni zoologici, il Silvio Berlusconi visto alla corte di Barbara D’Urso
durante la trasmissione Domenica Live più
che il noto caimano è apparso un cavallo pazzo intento a scalpitare nel
recinto. Qualcuno potrà anche sostenere che la comparsata televisiva di
Berlusconi non avrebbe potuto avere tenore diverso, considerato che si recitava
in casa sua e che la D’Urso per
evidenti ragioni non avrebbe mai potuto metterlo a disagio. Tutto esatto e sacrosanto. Il punto non è certo quello di
discutere i salamelecchi al Cavaliere, che, dovuti o meno, rimangono un problema
di chi gli ha posto le domande e ha inteso così metterci la faccia, quanto il contenuto delle cose che ha detto, che a
nostro avviso gli hanno meritato di potersi fregiare del titolo del grande capo indiano.
Come al solito Silvio Berlusconi,
nel suo lungo monologo, ha spaziato dai temi della politica a quelli personali,
senza omettere ancora una volta di sottolineare quanto si consideri un
perseguitato dalla magistratura politicizzata annidata nella Procura di Milano,
rea di essersi inventata il processo Ruby. Nè sono mancate le contraddizioni, le smentite e quanto nel tradizionale repertorio del personaggio: una ne fa, cento ne pensa e un milla ne dice.
Ma è sul tema della politica che ha
lasciato esterrefatti gli ascoltatori, con le considerazioni espresse sul
premier Monti e sulla capacità che avrebbe questi di catalizzare una coalizione
di centro-destra qualora, sciogliendo ogni riserva, decidesse di scendere in
campo e proporsi come capo del futuro governo post elettorale a base conservatrice o -, udite udite!, - in staffetta
con lui.
Nel dire queste cose, ha omesso di precisare che da tempo sparava bordate ad alzo zero sul professore e sul governo dei tecnici e che qualche ora prima il suo fedele maggiordomo Angelino Alfano
aveva recapitato al professore un suo esplicito biglietto di benservito, condito da
una serie di commenti inequivoci di
profonda sfiducia per l’operato del governo nei dodici mesi della sua
vita. E' noto che la coerenza non è una virtù mai ospitata a villa San Martino o a palazzo Grazioli. Anzi questa equivocità congenita è per il nostro personaggio come il ketch-up sull'hot-dog, il metodo rodato con il quale si consente di dire a destra e manca che è stato frainteso quando le sparate che fa non ottengono l'effetto sperato. Ad ogni buon conto e per rassicurare quanti con gli occhi spalancati
stavano assistendo increduli a questo ennesimo inglorioso dietro-front, il sagace
Cavaliere ha dichiarato che il rifiuto di Monti alla sua strepitosa offerta sarebbe una iattura solo per
l’interessato, poiché in quel caso lui sarebbe pronto a ricandidarsi per
offrire in surroga quell’unitarietà di obiettivi al un centro-destra,
sicuramente smarrito, ma ancora in grado di conquistare il governo del Paese.
In parecchi si sono immediatamente interrogati sul perché di quell'offerta a Monti se con lui o senza di lui comunque il Cavaliere ritiene d'avere la vittoria intasca. Quella che in tutta evidenza
potrebbe apparire una sorta di “sindrome di Stoccolma” per il Cavaliere, in
realtà, malcela una serie di
preoccupazioni forti, che vanno alla consapevolezza di perdere il confronto
elettorale a favore delle sinistre nonostante la grancassa messa in azione, alla perdita di ogni paracadute nei
confronti dei suoi processi in corso qualora dovesse subire lo scacco della non
rielezione e, dunque, la perdita dell’immunità parlamentare.
E di questa follia linguistica da illusionista consumato sono ormai consapevoli tutti: i fan, i compagni di viaggio, i portaborse e i lecchini abituali, certi che un suo ritorno in campo non regge e rischia di trascinare tutto l'apparato nel burrone, con tanto di fine della pacchia dello stipendio da parlamentare ed annessi privilegi.
Nella mattinata infatti s’erano
consumati strappi importanti all’interno di un PdL allo sbando e della destra
che dentro quel partito-contenitore era a suo tempo confluita.
Il primo strappo avveniva per
opera dei Leghisti, che per bocca del segretario Roberto Maroni facevano sapere
che non avevano individuato spazi per un’eventuale alleanza con il PdL in
presenza di una ricandidatura Berlusconi, mentre avrebbero in qualche modo potuto
valutare un’intesa in caso di una candidatura Alfano. Per quanto riguardava un
appoggio a Monti, poi, ogni porta era chiusa, se non altro in rispetto alla coerenza
per aver osteggiato quel governo sin dalla sua nascita.
Sul fronte interno Giorgia Meloni,
da una parte, e Guido Crosetto, dall’altra, nella mattinata di ieri all’Auditorium
Conciliazione di Roma rompevano gli indugi e al grido di «O noi o Scajola e Dell’Utri» comunicavano di dissociarsi dalla
linea del PdL e preannunciavano un’iniziativa battezzata “primarie delle idee”,
per mettere insieme quel pezzo del PdL che, per sintetizzare, si è fin dall’inizio
dichiarato contrario a una ricandidatura di Berlusconi e avrebbe voluto
scegliere il candidato del centrodestra con le elezioni primarie, così come era
stato deciso inizialmente anche per bocca di un Angelino Alfano, - che,
definire screditato, non rende affatto l’idea di quanto sia irrimediabilmente appannata la sua
immagine.
Manca a questo
scenario di smottamento catastrofico l’ufficializzazione delle decisioni degli
ex AN, La Russa, Gasparri, Mattioli e degli altri nostalgici federali, che
hanno parlato di un "Centrodestra Italiano", e contezza delle scelte che hanno
anticipato alcuni dei maggiorenti dell’ormai nei fatti disciolto PdL, come
Frattini, Cicchitto, Quagliarello, e altri orfani del ventennio, come Alemanno,
Ronchi e Urso.
Puntare in questo caos a minimizzare
la certezza di una disfatta elettorale, vaneggiando alleanze ed aggregazioni improbabili,
appare impresa alquanto ardua se non del tutto impossibile, specialmente se il
trasporto dei viveri e dei generi di prima necessità dovesse essere affidato al basto
collocato su di un cavallo che ha dato segni di profondo squilibrio nel
trottare in pianura e che, a maggior ragione, avesse un improvvido scarto
durante la scalata, rovinerebbe a valle portandosi dietro nella caduta viveri e
attrezzatura necessaria per la tentata ascesa.
Ma l'ex Unto del Signore, non più caimano ma cavallo bolso, non pare deciso a mollare e c’è da credere che farà fuoco e fiamme pur
di partecipare con ruolo non secondario, e men che meno esterno, alla
spedizione. D'altra parte Cavallo Pazzo un conto se l'è fatto: se l’incidente dovesse effettivamente verificarsi, allora sarà
morto Sansone e anche filistei. D’altra parte si sa che i sogni finiscono all’alba
e, quando finiscono, portano con sé gli angeli e mostri.
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