mercoledì, febbraio 20, 2013

La7 in vendita: a chi giova l’acquisto?



Mercoledì, 20 febbraio 2013
Mai esprimere giudizi prima di acquisire una piena conoscenza dei fatti. Questa è una regola d’oro persino etica prima che logica, ma che non esclude comunque che su quei fatti si possano sviluppare sospetti meritevoli di approfondimento.
Questo è l’approccio con cui va guardata l’operazione di vendita de La7 dalla Telecom alla Cairo Editore, da oggi in fase di trattativa intensa dopo l’esclusione dell’offerta del Fondo  Clessidra del finanziere Claudio Sposito e  la tardiva richiesta dell’imprenditore Diego Della Valle di partecipare alla gara di aggiudicazione.
«A pensar male degli altri si fa peccato, ma ci s’azzecca» avvertì parecchi anni or sono Giulio Andreotti, acuto uomo di mondo oltre che lungimirante politico, che con quella massima intendeva più semplicemente raccomandare di non fermarsi mai alle apparenze, alla superfice delle cose, ma di guardare più lontano per non farsi mai trovare impreparato da eventuali  sorprese. Infatti, nella trattativa in corso tra la Telecom e la Cairo Editore sarebbe ingenuo fermarsi alla pura fotografia dei fatti, non fosse perché dietro la Casa editrice di Torino c’è quell’Urbano Cairo che per parecchi anni è stato dipendente del Gruppo Fininvest, prima come assistente di Silvio Berlusconi, poi come direttore commerciale e vice direttore generale di Publitalia ’80 e infine come amministratore delegato dell’Arnoldo Mondadori Editore Pubblicità. Se questi precedenti in sé potranno anche essere considerati irrilevanti, nessuno può con certezza escludere che le perplessità che si generano dalla presenza di questo personaggio nella trattativa per l’acquisizione de La7 siano prive di fondamento. Non va altresì dimenticato, - nonostante i biografi di Urbano Cairo tacciano i particolari, - che l’uomo fu indagato tra il ‘94 ed il ’95 per una faccenda di false fatturazioni a Publitalia ’80 emesse dalla Publivis s.a.s., società di cui era amministratore unico la signora Maria Giulia Castelli, madre del neo tycoon, che avrebbero dovuto coprire il pagamento delle provvigioni per l’attività di vendita della pubblicità previste dal contratto di dipendenza con la stessa Publitalia ’80. Tali fatti furono accertati dalla GdF nel corso delle indagini svolte al tempo anche su un’accusa di appropriazione indebita mossagli nel ruolo di AD di Mondadori Pubblicità, tant’è che Cairo avanzò una richiesta di patteggiamento  respinta poi dai magistrati.
Il profilo che emerge, dunque, è quello di un uomo con qualche compromissione di troppo con Berlusconi, Dell’Utri e soci, che indubbiamente impone lascia qualche attenzione sulla trasparenza della trattativa avviata. Peraltro, l’inconsueta velocità con la quale la Telecom sembrerebbe intenzionata a chiudere l’affare in quest’ultimo scorcio preelettorale autorizza ad amplificare la richiesta di estrema chiarezza sull’intera vicenda, rimuovendo le zone d’ombra nelle quali potrebbero muoversi personaggi non meglio identificati coinvolti nell’operazione.
Abbiamo visto nei giorni passati che la crisi del mercato pubblicitario sta attanagliando i maggiori gruppi editoriali del Paese, e le vicende della RCS ne sono una prova inconfutabile. In questa situazione, in cui anche la televisione sta subendo una contrazione dei ricavi a causa della riduzione degli investimenti degli inserzionisti, quantunque la televisione ne abbia risentito in modo minore, l’ingresso nel mercato del piccolo schermo rappresenta comunque una sfida per chiunque. Certamente Telecom non avrebbe mai alienato un asset come La7  se il ritorno dell’investimento fosse stato positivo, e non va trascurato che la rete in questione, nata nel 2001 sulle ceneri di Tele Montecarlo, nonostante gli sforzi non ha mai raggiunto gli obiettivi che si era prefissata: uno share almeno del 5% che la ponesse in posizione di significativa alternativa al duopolio Rai-Mediaset. Ciò è stato dovuto in una prima fase al taglio eccessivamente generalista e giovane conferito al palinsesto dell’emittente, in concorrenza con il canale Italia1 di Mediaset, senza però il supporto di investimenti adeguati. La svolta in canale d’informazione e approfondimento, avvenuta a partire dal 2002 con l’ingresso di Marco tronchetti Provera al vertice della proprietaria Telecom, non ha mai impresso la spinta adeguata per il decollo, nonostante i nomi importanti del giornalismo e dello spettacolo reclutati. Voci di corridoio mormorarono al tempo che il basso profilo de La7 fosse una sorta di gioco delle parti tra Tronchetti Provera e Berlusconi, legati da non meglio dimostrati rapporti d’interesse affinché l’emittente mantenesse una posizione di retroguardia.
L’avvicendamento di Bernabè a Tronchetti Provera al vertice di Telecom, non porterà sostanziali risultati all’emittente, per quanto nel corso del tempo siano stati fatti grandi sforzi per renderla maggiormente competitiva con il reclutamento di  Enrico Mentana, Maurizio Crozza, Luisella Costamagna, Luca Telese e tanti altri in affiancamento a personaggi storici come Gad Lerner e Antonello Piroso. Lo stesso inserimento del trio Santoro-Travaglio-Vauro, con il loro Servizio Pubblico, nel palinsesto  dell’emittente non ha apportato sostanziali benefici all’audience de La7, che nel quadriennio 2009/2012 è passata dal 3,18% al 3,68% di share, confermandosi così network di nicchia ben lungi da quell’ambito 5% fissato ancora un decennio prima. Il successo di Servizio Pubblico, trasmissione acquisita nell’ultima stagione sulla rete, d’altra parte, non è stato sufficiente a determinare un’inversione di rotta neanche al conto economico che, stando ai bilanci, registra perdite per oltre 110 milioni all’anno.
C’è da augurarsi che Cairo sia effettivamente in grado d’imprimere il colpo d’ala ad una televisione che effettivamente sembra possedere tutte le potenzialità per abbandonare la soglia di share cui sembra ancorata per giocare tangibilmente quel ruolo di terzo polo sperato e mai conquistato. Tuttavia sull’operazione incombe il sospetto. Il sospetto che questo passaggio di proprietà possa finire in qualche modo per avvantaggiare Silvio Berlusconi e le sue reti, grazie agli antichi intrecci che intercorrono tra il potente Cavaliere ed il suo ex collaboratore, peraltro con l’eventuale obiettivo di indebolire le reti del servizio pubblico, che già soffrono strutturalmente di un’afasia cronica a causa delle limitazioni alla raccolta pubblicitaria e dell’ingombrate condizionamento della politica.
E la politica non ha mancato di far sentire la sua voce. «Siccome siamo in una settimana cruciale – ha dichiarato in proposito ieri Pierluigi Bersani - tendo a ragionare come se fossi già al governo e devo preoccuparmi che le decisioni siano prese in assenza di conflitti di interessi e senza costruire posizioni dominanti. C'è un tavolo delle regole e un tavolo industriale. Non so se Cairo è collegato a Mediaset. Ci sono delle autorità che si occupano di queste cose, ma chi governa è amico di tutti e parente di nessuno. Una rilettura dell'Antitrust è necessaria».
Pronta la risposta del Cavaliere, che ha ribattuto: «Su La7 Bersani ha fatto un avvertimento mafioso. Ha detto: aspettate a vendere perché se saremo al governo interverremo a fare non so cosa a Mediaset per cui La7 varrà di più. È una situazione da denunciare».  
«A Berlusconi le regole danno l' orticaria» è stata la controreplica di Bersani, che confermando i diffusi sospetti che dietro l’operazione possano esserci convergenze di interessi ha lasciato intendere che non sarà certo la situazione di vuoto di potere dovuta alla campagna elettorale che farà passare in secondo piano l’attenzione per  il riassetto delle proprietà nel settore dell’informazione e nel mercato della pubblicità.

sabato, febbraio 16, 2013

Il paese dei ladri e le radici della sua filosofia



Sabato, 16 febbraio 2013
Neanche il tempo di denunciare come questo sia il Paese dei ladri che, come per incanto e per confermare che da noi il ladrocinio è diventato un vero e proprio concorso, vengono alla luce come i funghi nuovi casi di malaffare.
Il primo riguarda Roberto Formigoni, già presidente della regione Lombardia, che viene rinviato a giudizio per una storia di mazzette milionarie nel settore della sanità, nonostante davanti a elementi di prova schiaccianti, si continui a dichiarare estraneo alle accuse delle Procura di Milano.
Contemporaneamente finisce in galera l'ex responsabile dell'area finanza di Banca Monte dei Paschi, Gianluca Baldassarri, uno del cosiddetto “clan del 5%”, fermato giovedì a Milano per gravi indizi di colpevolezza raccolti a suo carico nell’affaire MPS e in procinto, pare, di prendere la fuga.
Finisce in manette anche Angelo Rizzoli, il plurinquisito e pluricondannato imprenditore e produttore cinematografico, un tempo editore, che si sarebbe reso autore di bancarotta fraudolenta per 30 milioni di euro, di cui 20 dovuti all’erario e ad enti previdenziali. Al di là dei trascorsi turbolenti per i quali non pare abbia perso il vizietto, adesso risultava comunque lindo come acqua di fonte, grazie ad un perdono giudiziale che gli aveva smacchiato la fedina penale.
Ma la notizia più eclatante è che in gattabuia c’è finito il signor Giuseppe Orsi, presidente da pochi mesi di Finmeccanica, al vertice della quale era stato designato da Mario Monti dopo il defenestramento di un altro stinco di santo, Pier Francesco Guarguaglini, indagato per frode fiscale e falsa fatturazione e che per uscire di scena aveva ricevuto il modico obolo 5,5 milioni di buonuscita.
E il signor Orsi l’avrebbe fatta veramente grossa, visto che per aggiudicarsi un appalto in India per la fornitura di 14 elicotteri avrebbe messo mano alla borsa e corrotto qualcuno che ha agevolato la conclusione del contratto. Per carità, il signor Orsi non è né il primo né l’ultimo che ricorre e ricorrerà a strumenti illeciti pur di portare a casa un contratto interessante. Ma il punto è che è la natura di tali strumenti che deve essere chiarita, altrimenti si rischia di far passare dalla finestra ciò che mai si permetterebbe entrasse dalla porta principale.
In altri termini, nulla vi sarebbe di contestabile se l’aggiudicazione di un appalto prevedesse anche il pagamento di commissioni a mediatori. Tali commissioni però devono trovare chiara e trasparente contabilizzazione e, soprattutto, non è ammissibile che provengano da scorte in nero,  vengano utilizzate anche per ungere ingranaggi indebiti o, peggio, qualche banconota rimanga appiccicata nelle mani degli untori.
Il sempre presente Berlusconi, - che secondo D’Alema di queste cose deve intendersi, - è prontamente intervenuto in difesa di Orsi, dichiarando che è noto a tutti come la partecipazione a gare d’appalto internazionali implichi il pagamento di “commissioni” e, pertanto, scandalizzarsi di fronte a queste pratiche consolidate è una mera ipocrisia. Naturalmente al coro indignato di protesta che s’è levato nei suoi confronti, per dichiarazioni sicuramente oltre il senso comune persino dell’immoralità, il serafico Berlusconi ha precisato di non aver mai parlato di tangenti, smentendo com’è sua consuetudine quanto tutti hanno ben udito da lui affermato in proposito.
In ogni caso, premesso che il Cavaliere ha omesso di precisare che la pratica è nel nostro Paese assai diffusa anche per appalti e commesse nazionali, c’è del vero in ciò che dice ed effettivamente conferma ciò che è tristemente noto a tutti, quantunque questa verità non sdogani di certo una pratica abietta che Di Pietro non ha esitato a definire, con altrettanta chiarezza, come l’anello di congiunzione mancante tra l’imprenditoria onesta e quella mafiosa.
Non interessa qui approfondire gli elementi a conferma della colpevolezza di Orsi, ma il coperchio sollevatosi definitivamente con la vicenda e le affermazioni di un Berlusconi, peraltro ex capo del governo, fanno emergere il marciume putrido che alberga nella filosofia della nostra imprenditoria e, allo stesso tempo, nella filosofia di chi ha governato e pretende di governare le nostre istituzioni.
Molto probabilmente chi ha svelato la consuetudine di queste pratiche gridando all’ipocrisia è incapace di rendersi conto che, su queste basi, qualunque scempio avrebbe diritto alla patente di legalità, in omaggio alla logica del “così fan tutti”. E c’è da tirare un sospiro di sollievo se le pratiche corruttive si limitano alla sola distribuzione di denaro sporco, poiché  s’è fortunati se ci vengono risparmiate richieste di assoluzione di delitti ancor più gravi come la tortura, lo stupro o l’omicidio. In altri termini, se prima d’aprir bocca s’avesse il pudore di vagliare il senso degli spropositi o, più propriamente, delle cialtronerie che si vomitano senza ritegno alcuno, si eviterebbero i paralleli infelici condensati nelle conclusioni di Di Pietro.
Ma d’innanzi a questi scempi della logica e dell’etica c’è poi da chiedersi come personaggi di questa levatura, per non dire bassezza, abbiano il coraggio di presentarsi alla gente e chiedere il consenso  per assumere cariche istituzionali e di guida del paese. E’ su questi presupposti che nella nostra realtà trovano terreno di coltura la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e le loro derivazioni: chi potrebbe mai contestare che queste organizzazioni sono vere e proprie attività imprenditoriali che offrono opportunità di lavoro e distribuiscono reddito. A parte la condanna del core business di quelle imprese, spesso le attività malavitose sono esercitate con l’impiego di capitali in affari del tutto leciti, come le costruzioni o il commercio. Ma è la provenienza originaria di quei capitali che si contesta, così come si contesta il pagamento di tangenti, mazzette, bustarelle e quant’altro assimilabile per ottenere autorizzazioni, aggiudicarsi la commessa o l’appalto, talvolta per far fuori una concorrenza onesta ma scomoda. E dove la corruzione non basta, spesso è la polvere da sparo a risolvere in via definitiva le questioni pendenti.
Le considerazioni sintetiche sin qui fatte, che potrebbero essere ritenute in parte fuori tema rispetto alla vicenda Finmeccanica, confermano purtroppo il quadro che avevamo tracciato qualche giorno fa parlando dell’Italia come di in paese di ladri. E fino a quando ci saranno personaggi come Silvio Berlusconi che ritengono che i tempi del mitico far west non siano mai stati consegnati definitivamente alla storia, allora non c’è speranza né di progresso civile né di una vittoria sulla cancrena del malaffare che attanaglia la vita d’ogni giorno. Credere che il progresso e lo sviluppo sociale nella nostra epoca debba continuare a basarsi esclusivamente sulla quantità di grasso da gettare in ingranaggi devianti, significa avere una visione della convivenza radicata sul sopruso e l’arroganza in cui c’è spazio solo per l’imbroglio e non per il merito della capacità. 
(nella foto, l'ad di Finmeccanica Giuseppe Orsi)


venerdì, febbraio 15, 2013

Il Gruppo RCS ad un bivio storico



Venerdì, 15 febbraio 2013
C’è un paradosso in atto: la pubblicità sui giornali è calata nel corso del 2012 di oltre il 14%, rendendo ancora più acuta la crisi dell’editoria già segnata da un calo del 22% delle inserzioni nel 2011, mentre il numero dei lettori è cresciuto nell’ultimo decennio di oltre 4 milioni di persone.
I dati sono il frutto di uno studio realizzato dall’Osservatorio Tecnico “Carlo Lombardi” in collaborazione con l’ASIG, presentato a Torino durante la XV Edizione di WAN-IFRA Italia - Progettare lo sviluppo, la Conferenza internazionale per l’industria editoriale e della stampa italiana, promossa da WAN-IFRA (Associazione mondiale degli editori), FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) e ASIG (Associazione Stampatori Italiana Giornali).
A rendere più complesso il fenomeno ci sono anche i dati sul mercato editoriale, che confermano l’andamento negativo che da cinque anni investe il settore: la diffusione media giornaliera  dei  quotidiani a pagamento è scesa sotto i 4,5 milioni di copie giornaliere; in soli  cinque anni, tra  il 2006  e il 2011,  si è perso più  di un  milione di copie giornaliere di diffusione, pari a poco meno del 20% del totale.
La sintesi che emerge da questi dati è che si legge certamente di più, nonostante la forte concorrenza di tele e radio giornali, ma i costi di edizione e stampa hanno raggiunto un livello tale da indurre gli editori a contrarre il numero delle copie nel tentativo di realizzare un difficilissimo equilibrio del conto economico.
E’ di questi giorni la notizia che il Gruppo RCS guidato da Pietro Scott Jovane intende avviare una razionalizzazione dei conti  attraverso una complessa operazione di taglio e vendita di parecchi dei suoi prodotti editoriali  - ben dieci periodici, tra i quali figurano Brava Casa, Ok Salute, Yacht & Sails, Max, l’Europeo, Novella 2000, Visto, Astra e il polo dedicato all’enigmistica – e l’alienazione di immobili non strategici come la sede storica di via Solferino nella quale vengono redatti il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, che dovrebbero essere trasferiti nella periferica sede di via Rizzoli. Chiude il piano di ristrutturazione l’ipotesi di riduzione del personale di ben 800 unità, di cui 640 in Italia ed il resto in Spagna, dove RCS controlla il gruppo Recoletos, editore tra gli altri de El Mundo e Marca.
Pietro Scott Jovane ha presentato con questi dati al CAE, il Comitato aziendale europeo, l'organismo che racchiude le rappresentanze sindacali delle varie testate europee, parlando di ristrutturazione «imposta da un crisi senza precedenti del mercato pubblicitario». I tagli al personale interessano giornalisti, impiegati e poligrafici, ma non è ancora dato sapere quali saranno i criteri cui intende ricorrere il Gruppo per affrontare la cura dimagrante, né i tempi entro i quali l’operazione dovrebbe concludersi. Ovviamente sia le organizzazioni sindacali europee che i comitati di redazione hanno già espresso il loro netto dissenso all’operazione, proclamando ben 10 giornate di sciopero. Dissenso al quale sembrano associarsi Ferruccio De Bortoli,  direttore del Corriere della Sera, già impegnatosi di recente con la redazione per il mantenimento della sede di via Solferino, che Piergaetano Marchettti, ex presidente e attuale consigliere,  determinato a mettere il giovane manager in un angolo. Una situazione che ripete le stesse dinamiche dell’estate del 2006, quando l’allora amministratore delegato dell’editrice, Vittorio Colao, venne costretto alle dimissioni dallo stesso Marchetti.
Il casus belli, che aveva fatto finire Colao nel tritacarne dei grandi azionisti, era stato il suo rifiuto di firmare l’acquisizione del gruppo spagnolo Recoletos. Ovvero l’operazione che – con dinamiche molto simili a quelle dell’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena - una volta portata a termine dal successore di Colao, Antonello Perricone, fece realizzare lauti guadagni ai venditori (la stessa famiglia Botin di Antonveneta). RCS, invece, come nel tempo s’è evidenziato, incassò un vero e proprio bidone, il cui contenuto è ancora oggi motivo di rilevanti perdite. Anche in questo caso un particolare ringraziamento va dato all’azionista-consulente dell’operazione, Mediobanca, che, guarda caso, è lo stesso a suo tempo presente anche al tavolo dell’affare Mps-Santander per la cessione del Banco Ambroveneto.
Né a fronte dei sacrifici richiesti basta il beau gest del presidente Angelo Provasoli, di Scott Jovane e dei loro collaboratori, che hanno fatto sapere di volersi ridurre lo stipendio del 10% come segno tangibile di una loro partecipazione alle misure anticrisi. Ma difronte alle distanze tra la posizione dei rappresentati degli azionisti e le maestranze quale potrebbe essere la cura più adeguata per curare il malato?
Non v’è dubbio che un ridimensionamento degli organici possa ritenersi inevitabile, così come potrebbe essere inevitabile la chiusura o la vendita di qualche testata la cui tiratura è da tempo in evidente contrazione. Queste operazioni, oltre ad essere accompagnate da misure per eventuali recuperi di produttività – sempre possibili in realtà così articolate come quella del Gruppo RCS – dovrebbero allo stesso tempo essere accompagnate da massicce iniziative di riqualificazione e conversione del personale giornalistico, da indirizzare sull’impiego di nuove tecnologie editoriali legate al web ed alle sue potenzialità. 
La professione giornalistica è da tempo in crisi significativa a causa dell’imponente diffusione di internet, che richiede una capacità d’impiego di mezzi multimediali molto spesso sconosciuti a chi s’occupa da sempre di carta stampata. U.S. News, una delle riviste che insieme con Time e Newsweek ha contribuito in modo significativo alla storia del giornalismo americano ha deciso di migrare sul web, proprio a causa della degenerazione delle condizioni di mercato. Le dinamiche di vendita delle copie cartacee e le deludenti performance della raccolta pubblicitaria hanno suggerito al management che l’opzione più corretta fosse un passaggio completo al web e non il mantenimento di una redazione ibrida offline-online, come sta avvenendo in Italia per tanti prodotti editoriali. Questa duplicazione, motivata dal probabile timore di perdere una fetta significativa di lettori legati al prodotto cartaceo ed alla consapevolezza che i sistemi di connessione internet nel Paese soffrono di un gravissimo ritardo tecnologico e diffusionale, è alla stesso tempo una delle ragioni principali per le quali risulta difficoltoso razionalizzare i costi e far quadrare i conti. Se d’altra parte si osservano i dati degli investimenti pubblicitari, ci si rende conto che la contrazione ha riguardato principalmente i media tradizionali, mentre ha subito significativi incrementi in direzione di internet, dove i costi risultano ancora appetibili e il ritorno dell’investimento è decisamente positivo. Il passaggio al web, dunque, sembra una decisione da vivere come una sfida e una opportunità. L’editore di U.S. News, Bill Holiber,  e il direttore Brian Kelly, ne sono stati fortemente convinti e in occasione del trasferimento sul web hanno dichiarato: «Significa accelerare la nostra capacità di espandere il business online e trarre vantaggio dalle opportunità di distribuzione dei contenuti nell’emergente mercato dei tablet e degli smartphone. La carta rimarrà uno strumento tattico che verrà utilizzato unicamente per la realizzazione di speciali a tema».
La rinuncia alla carta prevede anche un forte cambiamento nei contenuti da proporre. Di fatto, nel caso di U.S. News nelle intenzioni espresse dal management, vi è la volontà di uscire dal business dell'informazione più tradizionale e puntare su un'informazione specializzata. Fornire contenuti unici, non replicabili, secondo Holiber e Kelly, è la scelta più corretta per stabilire un vantaggio competitivo nel labirinto dell’informazione online. Senza contare, tra l’altro, che anche nel settore libri il futuro sembra inevitabilmente indirizzato verso la produzione elettronica.
Da questa prospettiva discende un’ipotesi nuova di gestione della crisi del settore editoria in cui opera il gruppo RCS, una strada che se affrontata per tempo e con il dovuto coraggio può consentire di aggirare gli effetti di una crisi che, viceversa, sembra affidata esclusivamente all’impiego dei soliti meccanismi, che accollano al lavoro l’onere degli errori commessi da un management miope e subalterno alla logica del risultato a qualunque costo.


sabato, febbraio 09, 2013

Italia, paese di ladri



Sabato, 9 febbraio 2013
A scorrere i giornali o a seguire i notiziari non v’è giorno in cui non venga alla luce una nuova vicenda di ruberie. E queste ruberie sono ormai talmente frequenti e ripetitive da far registrare una sorta di rassegnazione, come se il fenomeno appartenesse alla normalità della vita quotidiana. I settori interessati da questo inveterato vezzo, - tutto italiano per dimensione e diffusione nei cosiddetti paesi avanzati, - vanno dall’industria ai servizi, dall’agricoltura alla pubblica amministrazione, dalla politica alla sedicente società (in)civile, senza eccezione alcuna, come un virus micidiale diffusosi con velocità sorprendente e per il quale non sembra ci sia cura che tenga.
Quantunque il fenomeno non possa ritenersi nuovo, anzi è purtroppo scientificamente provato che la propensione all’atto delinquenziale è una delle caratteristiche dell’essere umano, nei tempi recenti sembra aver subito una fortissima accelerazione. Agli imbrogli a spese dei terremotati dell’Aquila ecco le ruberie dei consiglieri regionali del Lazio e della Lombardia, le mazzette sulla sanità, i falsi invalidi scoperti ogni giorno, le società fantasma con tanto di dipendenti fantasma messe in piedi per truffare l’INPS, i vertici delle banche – peraltro non di istituti bancari di importanza marginale – che si spartiscono bottini miliardari con operazioni di finanza spazzatura e prendono soldi pubblici per coprire i buchi, aziende pubbliche come l’ENI coinvolte in storie di corruzione internazionale  e, ultim’ora, una truffa ai danni dei consumatori perpetrata dalle società operanti nel settore energetico – luce, gas e carburanti – che avrebbero illecitamente trasferito sui consumatori gli oneri loro imposti dalla cosiddetta Robin Tax .
Introdotta nel 2008, la Robin Tax  venne definita un provvedimento "etico", mirato a colpire gli extra profitti di alcune tipologie di imprese. La finalità del provvedimento era stata quella di realizzare un gettito fiscale aggiuntivo, da utilizzare a beneficio della collettività per finanziare opere pubbliche, introducendo un’imposta addizionale sul reddito delle società operanti nei settori predetti. Originariamente del 6,5%, l’addizionale subì un rincaro al 10,5% nel 2011, con l'estensione dei settori di impatto (dai soli petrolifero e produzione di energia, alle reti come Terna e Snam) e con nuove soglie di assoggettamento (a partire da 10 milioni di ricavi e da 1 milione di reddito imponibile). Ulteriore caratteristica dell’addizionale è l’espresso divieto di legge di trasferire sui consumatori l’onere imposto, né sulle bollette di fornitura né sui prezzi alla pompa dei carburanti, ed a questo proposito è stata affidato all’Autorità per l’Energia il compito di vigilare sul rispetto della legge.
Adesso viene fuori che  nel corso dell'attività di vigilanza svolta lo scorso anno sui dati relativi al 2010, l'Autorità ha pizzicato 199 operatori (sui 476 totali), di cui 105 appartenenti al settore dell'energia elettrica e gas e 94 a quello petrolifero, in cui «è stata riscontrata una variazione positiva del margine di contribuzione semestrale riconducibile, almeno in parte, alla dinamica dei prezzi». Insomma, per l'Autorità «è ragionevole supporre che, a seguito dell'introduzione dell'addizionale IRES, gli operatori recuperino la redditività sottratta dal maggior onere fiscale, aumentando il differenziale tra i prezzi di acquisto e i prezzi di vendita».
E’ bene evidenziare che non si sta parlando di bruscolini, ma di una cifra di 1,6 miliardi, equivalente a oltre un terzo dell’importo totale versato per l’IMU, che rappresenta un ulteriore salasso spaventoso e indebito a danno dei cittadini, avvenuto questa volta non con l’introduzione dell’ennesimo balzello ai loro danni, ma per scientifica e criminale iniziativa di società molto spesso a partecipazione pubblica, che hanno così inteso mettersi al riparo dall’erosione dei profitti.
Il numero dei sospetti furbi (199 su 476 società presenti sul mercato dell’energia) è tale da non lasciare molti dubbi sulla fondatezza dei rilievi dell’Autorità, la quale ha già fatto sapere che, come chiarito dal Consiglio di Stato, non dispone di poteri sanzionatori in questo campo (c'è una sorta di incertezza normativa sul soggetto deputato alla sanzione). Dalle indagini eseguite in virtù dei poteri di vigilanza, per l'Autorità nel secondo semestre 2010 per le aziende elettriche e del gas si tratta di una somma pari a circa 0,9 miliardi di euro in più rispetto al corrispondente periodo precedente l’introduzione dell’addizionale, mentre per quelle petrolifere la cifra è appena più bassa e pari a circa 0,7 miliardi di euro. In sostanza, i consumatori sarebbero stati appesantiti di 1,6 miliardi di euro anche per rientrare della Robin Tax.
Cosa succederà adesso è assai facile prevederlo, mentre è molto più aleatoria la conclusione della vicenda. Ci sarà, infatti, la solita apertura d’un fascicolo d’indagini da parte della magistratura, con il probabile invio di avvisi a quanti nelle vesti di legali rappresentanti delle società indagate saranno inquisiti. Sulla scorta dei tantissimi precedenti di cui sono piene le storie giudiziarie d’Italia, nulla lascia spazio all’ottimistica conclusione che alla fine qualcuno paghi per l’ennesima grave truffa ai danni della collettività, neppure se, com’è probabile, vi potranno essere alla fine rinvii a giudizio con tanto di processi celebrati: tra assoluzioni per insufficienza di prove o di non commissione del reato o per le modeste condanne inflitte all’incensurato di turno, tutto si concluderà con la consueta impunità per i colpevoli e la delusione dei cittadini imbrogliati, mentre ci sarebbe tanto bisogno finalmente di una giustizia che desse prova di integerrima e durissima applicazione delle leggi non solo verso i cittadini comuni, ma anche nei confronti dei tantissimi delinquenti parassiti che infestano come piaghe purulente la vita quotidiana degli Italiani senza timore di conseguenze.