Il paese dei ladri e le radici della sua filosofia
Sabato, 16 febbraio
2013
Neanche il tempo di denunciare
come questo sia il Paese dei ladri che, come per incanto e per confermare che
da noi il ladrocinio è diventato un vero e proprio concorso, vengono alla luce
come i funghi nuovi casi di malaffare.
Il primo riguarda Roberto Formigoni, già
presidente della regione Lombardia, che viene rinviato a giudizio per una
storia di mazzette milionarie nel settore della sanità, nonostante davanti a
elementi di prova schiaccianti, si continui a dichiarare estraneo alle accuse
delle Procura di Milano.
Contemporaneamente finisce in galera l'ex responsabile
dell'area finanza di Banca Monte dei Paschi, Gianluca Baldassarri, uno del
cosiddetto “clan del 5%”, fermato giovedì a Milano per gravi indizi di
colpevolezza raccolti a suo carico nell’affaire MPS e in procinto, pare, di prendere la fuga.
Finisce in manette anche Angelo
Rizzoli, il plurinquisito e pluricondannato imprenditore e produttore
cinematografico, un tempo editore, che si sarebbe reso autore di bancarotta
fraudolenta per 30 milioni di euro, di cui 20 dovuti all’erario e ad enti
previdenziali. Al di là dei trascorsi turbolenti per i quali non pare abbia perso il vizietto, adesso risultava comunque lindo come acqua di fonte, grazie ad un perdono giudiziale che gli aveva smacchiato la fedina penale.
Ma la notizia più eclatante è che
in gattabuia c’è finito il signor Giuseppe Orsi, presidente da pochi mesi di
Finmeccanica, al vertice della quale era stato designato da Mario Monti dopo il
defenestramento di un altro stinco di santo, Pier Francesco Guarguaglini,
indagato per frode fiscale e falsa fatturazione e che per uscire di scena aveva
ricevuto il modico obolo 5,5 milioni di buonuscita.
E il signor Orsi l’avrebbe fatta
veramente grossa, visto che per aggiudicarsi un appalto in India per la
fornitura di 14 elicotteri avrebbe messo mano alla borsa e corrotto qualcuno
che ha agevolato la conclusione del contratto. Per carità, il signor Orsi non è
né il primo né l’ultimo che ricorre e ricorrerà a strumenti illeciti pur di
portare a casa un contratto interessante. Ma il punto è che è la natura di tali
strumenti che deve essere chiarita, altrimenti si rischia di far passare dalla
finestra ciò che mai si permetterebbe entrasse dalla porta principale.
In altri termini, nulla vi
sarebbe di contestabile se l’aggiudicazione di un appalto prevedesse anche il
pagamento di commissioni a mediatori. Tali commissioni però devono trovare
chiara e trasparente contabilizzazione e, soprattutto, non è ammissibile che provengano
da scorte in nero, vengano utilizzate
anche per ungere ingranaggi indebiti o, peggio, qualche banconota rimanga appiccicata nelle mani degli untori.
Il sempre presente Berlusconi,
- che secondo D’Alema di queste cose deve intendersi, - è prontamente intervenuto
in difesa di Orsi, dichiarando che è noto a tutti come la partecipazione a gare
d’appalto internazionali implichi il pagamento di “commissioni” e, pertanto,
scandalizzarsi di fronte a queste pratiche consolidate è una mera ipocrisia. Naturalmente
al coro indignato di protesta che s’è levato nei suoi confronti, per
dichiarazioni sicuramente oltre il senso comune persino dell’immoralità, il serafico
Berlusconi ha precisato di non aver mai parlato di tangenti, smentendo com’è
sua consuetudine quanto tutti hanno ben udito da lui affermato in proposito.
In ogni caso, premesso che il Cavaliere
ha omesso di precisare che la pratica è nel nostro Paese assai diffusa anche
per appalti e commesse nazionali, c’è del vero in ciò che dice ed effettivamente
conferma ciò che è tristemente noto a tutti, quantunque questa verità non sdogani di
certo una pratica abietta che Di Pietro non ha esitato a definire, con
altrettanta chiarezza, come l’anello di congiunzione mancante tra l’imprenditoria
onesta e quella mafiosa.
Non interessa qui approfondire
gli elementi a conferma della colpevolezza di Orsi, ma il coperchio sollevatosi
definitivamente con la vicenda e le affermazioni di un Berlusconi, peraltro ex
capo del governo, fanno emergere il marciume putrido che alberga nella
filosofia della nostra imprenditoria e, allo stesso tempo, nella filosofia di
chi ha governato e pretende di governare le nostre istituzioni.
Molto probabilmente chi ha svelato la consuetudine di
queste pratiche gridando all’ipocrisia è incapace di rendersi conto che, su
queste basi, qualunque scempio avrebbe diritto alla patente di legalità, in
omaggio alla logica del “così fan tutti”. E c’è da tirare un sospiro di
sollievo se le pratiche corruttive si limitano alla sola distribuzione di
denaro sporco, poiché s’è fortunati se
ci vengono risparmiate richieste di assoluzione di delitti ancor più gravi come la tortura,
lo stupro o l’omicidio. In altri termini, se prima d’aprir bocca s’avesse il
pudore di vagliare il senso degli spropositi o, più propriamente, delle
cialtronerie che si vomitano senza ritegno alcuno, si eviterebbero i paralleli
infelici condensati nelle conclusioni di Di Pietro.
Ma d’innanzi a questi scempi
della logica e dell’etica c’è poi da chiedersi come personaggi di questa
levatura, per non dire bassezza, abbiano il coraggio di presentarsi alla gente
e chiedere il consenso per assumere cariche
istituzionali e di guida del paese. E’ su questi presupposti che nella nostra
realtà trovano terreno di coltura la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta e le
loro derivazioni: chi potrebbe mai contestare che queste organizzazioni sono
vere e proprie attività imprenditoriali che offrono opportunità di lavoro e
distribuiscono reddito. A parte la condanna del core business di quelle imprese,
spesso le attività malavitose sono esercitate con l’impiego di capitali in
affari del tutto leciti, come le costruzioni o il commercio. Ma è la
provenienza originaria di quei capitali che si contesta, così come si contesta
il pagamento di tangenti, mazzette, bustarelle e quant’altro assimilabile per
ottenere autorizzazioni, aggiudicarsi la commessa o l’appalto, talvolta per far
fuori una concorrenza onesta ma scomoda. E dove la corruzione non basta, spesso
è la polvere da sparo a risolvere in via definitiva le questioni pendenti.
Le considerazioni sintetiche sin
qui fatte, che potrebbero essere ritenute in parte fuori tema rispetto alla
vicenda Finmeccanica, confermano purtroppo il quadro che avevamo tracciato
qualche giorno fa parlando dell’Italia come di in paese di ladri. E fino a
quando ci saranno personaggi come Silvio Berlusconi che ritengono che i tempi
del mitico far west non siano mai stati consegnati definitivamente alla storia,
allora non c’è speranza né di progresso civile né di una vittoria sulla
cancrena del malaffare che attanaglia la vita d’ogni giorno. Credere che il
progresso e lo sviluppo sociale nella nostra epoca debba continuare a basarsi
esclusivamente sulla quantità di grasso da gettare in ingranaggi devianti,
significa avere una visione della convivenza radicata sul sopruso e l’arroganza
in cui c’è spazio solo per l’imbroglio e non per il merito della capacità.
(nella foto, l'ad di Finmeccanica Giuseppe Orsi)
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