venerdì, marzo 29, 2013

L’ipocrisia del potere



Venerdì, 29 marzo 2013
Ipocriti, e della specie peggiore. Di quella specie per la quale è la facciata, la confezione esteriore, ad attribuire valore intrinseco alle cose. Di quella specie per la quale è la forma ad attribuire sostanza alle cose, ancorché la stessa si riveli senza valore alcuno. Qualcuno, insistendo sull’eufemismo ipocrita, definisce l’approccio arte della diplomazia, con ciò spacciando per ineludibile e nobile la teoria secondo la quale la mistificazione linguistica è sinonimo d’eleganza, mentre l’assenza dell’orpello verbale è sintomo di prosaicità, di volgarità inammissibile. Nessuno di questi maître à penser del cosiddetto bon ton si pone il dubbio se nell’affermazione apostrofata come grassa e volgare vi sia sussistenza di verità. La verità è una sorta di optional, di cui ci si può preoccupare solo dopo aver recuperato lo stile, il farisaico restauro del brutto in natura.
Su questo assurdo è caduta la testa di Franco Battiato, reo d’aver apostrofato troie alcune gentili signore dai facili costumi che hanno occupato gli scranni del parlamento della repubblica, qualcuna ancora in servizio permanente effettivo. Sì, perché la qualificazione espressa dal notissimo artista prestato alla politica siciliana nei confronti di qualche deputata che, in quanto a comportamenti o metodi di carriera richiama alla mente il generoso mammifero, ha suscitato uno scalpore sensazionale. Naturalmente ciò che ha offeso non è stato il dispetto per esser stati scoperti nell’esercizio di pratiche sessuali discutibili secondo i canoni della morale corrente, quanto il termine, ritenuto volgare e lesivo della dignità delle istituzioni, dimentiche d’aver dato asilo persino a Cicciolina che certo nella vita privata non aveva brillato per morigeratezza di costumi.
L’altro aspetto che irrita è che autorizzerebbe persino a rincarare la dose già somministrata da Battiato è il solito metodo dei due pesi e delle due misure. Nessuno s’è permesso di inibire l’androne del Quirinale al signor Beppe Grillo, che in quanto a volgarità persino reiterate, ha collezionato un invidiabile primato, includendo nel mazzo di coloro per i quali sono stati spesi epiteti da circolo di Ascot avversari politici, giornalisti, oppositori e financo il Capo dello Stato. Analogo trattamento assolutorio è stato riservato al signor Silvio Berlusconi, autore di contumelie d’ogni sorta nei confronti di magistrati e istituzioni, sia da parlamentare che da capo del governo, con tanto di corna ostentate scherzosamente e gesti da portatore d’ombrello, o al signore di Gemona, tal Umberto Bossi, noto celodurista con il vizietto d'ostentare il dito medio non per fare l'autostop, imitato immediatamente dall’educatissima Daniela Santanché che frequenta salotti d'alto bordo.
Qualcuno, giustamente, potrebbe obiettare che la presenza di qualche porco – i suini ci perdonino l’irriverente accostamento – non giustifica di certo la massificazione della maleducazione ormai in atto. Ma qui non è in discussione la buona o la cattiva educazione, - ché ognuno ha la sua, - quanto il fatto che nell’andazzo che sembrano aver preso le cose non sarà certo il recupero di un linguaggio più genuino e vicino a quello che normalmente utilizza la gente nella vita d’ogni giorno che comprometterà più di quanto non lo sia già per altre ragioni l’immagine dell’Italia.
A riprova del fatto che l’argomento è sostanzialmente aria fritta ad uso e consumo di bigotti e sepolcri imbiancati vengono in mente Crozza e Littizzetto, due dei personaggi di punta della satira nazionale, che non ci sembra utilizzino un linguaggio accademico per registrare il grande successo che riscuotono le loro gag. Stesse considerazioni valgono per il grande Roberto Benigni, che senza finti pudori si rese autore di una lectio magistralis sulla diffusa terminologia regionale impiegata per definire gli attributi sessuali femminili e maschili, non suscitando alcun risentimento di benpensanti  e bacchettoni.
Allora, vien da chiedersi, perché questo gran clamore intorno alle dichiarazioni di Battiato?
La risposta non è agevole e andrebbe trovata non nell’uso della terminologia censurata quanto nella suscettibilità dei destinatari degli epiteti, che in quanto membri della casta ritengono probabilmente di dover godere di un rispetto che va oltre l’intrinseco valore morale che nei fatti esprimono. Dunque, nulla a che vedere con la questione del rispetto delle istituzioni, che parecchi ladri, mafiosi e troie hanno determinato ad avvilire in maniera esemplare, ma solo una difesa di facciata di un pudore personale che da moltissimo tempo risulta smarrito.
Ipocriti!, falliti! Gente che vive dei propri miti, mentre tutto v’a rotoli e uno sconquasso ha sconvolto il sociale, il lavoro e la speranza. E ci dovremmo allora fermare e cospargere il capo di cenere perché un artista, un uomo onesto ha detto coraggiosamente ciò che la maggioranza pensa e confida ad amici e conoscenti?
Vengono in mente le bellissime parole di una storica canzone di Francesco Guccini con cui liquidare il tema e ringraziare del gran gesto il prode Crocetta, presidente della Regione Sicilia, nella cui giunta sedeva Battiato prima dell’esternazione fatale: "tiro avanti, e non mi svesto dei panni che son solito a portare; ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto".
(nella foto, Franco Battiato) tiro

martedì, marzo 26, 2013

La battaglia per il governo: chi vince e chi perde



Martedì, 26 marzo 2013
Diciamocelo con franchezza: la battaglia per la formazione del nuovo governo si gioca tutta sull’ipotesi di salvare dalla galera Silvio Berlusconi. La mano tesa del Caimano a Pierluigi Bersani non è segno del «senso di responsabilità verso il paese», ma l’ennesimo espediente per sottrarsi ai giudici ed alla pena che con ogni probabilità gli affibbieranno in uno dei processi attualmente in corso.
Se fosse consentito scherzare sull’argomento, si potrebbe concludere che l’ipotesi di vedere seduti insieme il cane Berlusconi e il gatto Bersani, non ha alcun fondamento né logico né politico. Due blocchi che non si sono mai risparmiati chiari messaggi di reciproca disistima e che, comunque si guardi alla storia dei rispettivi partiti, hanno radici ideologiche talmente diverse da non consentire neppure per un attimo d’immaginare un tavolo di colloqui composto da Brunetta e Franceschini,  da Alfano e Finocchiaro, da Bersani e Berlusconi. Senza contare che mentre il trucco potrebbe anche servire al centrodestra, avvezzo a saltare i fossi e poi inventare palle micidiali per farsi assolvere dal proprio elettorato cartapecorito, l’esperienza non sarebbe che l’atto formale di suicidio di massa per l’ex partito operaio, che alla prima tornata elettorale farebbe una fine persino peggiore di quella patita da Bertinotti e Diliberto.
Né c’è da chiedersi cosa si nasconda dietro questa incredibile offerta di collaborazione berlusconiana al nemico Bersani. Il movente è molto più evidente di quanto si possa arzigogolare.
Il Cavaliere è chiaramente all’amaro, avendo già da un pezzo superato la fase della frutta, e allora, carezzando le ambizioni del nemico giurato, tenta alla disperata di offrire un ramoscello d’ulivo sotto forma di una fiducia altrimenti quasi impossibile per Bersani, non senza porre però condizioni. La prima è il suo maggiordomo, Angelino Alfano, che dovrebbe in questo governo improbabile ricoprire la posizione di vice presidente del consiglio. La seconda, ancora più irricevibile, è l’opzione per una presidenza della repubblica di area “moderata”, che qualora non prevedesse persino la sua candidatura, dovrebbe riguardare qualcuno che, all’occorrenza, strizzi l’occhio agli interessi della sua fazione – che poi come insegna ormai la storia non sono mai stati diversi dai suoi personali.
Certo, non devono essere notti tranquille quelle che il Cavaliere trascorre, oppresso com’è dall’idea del sole a scacchi e la promessa fattagli da Beppe Grillo che, non appena insediata la giunta per le elezioni del senato, chiederà che venga messa ai voti la sua decadenza per palese ineleggibilità. E anche questa è una bella gatta da pelare per Bersani e i suoi: come farebbe mai a tirarsi indietro da un voto a favore dell’ineleggibilità del Cavaliere senza perdere la faccia con l’elettorato, dopo aver promesso mille volte in campagna elettorale che, un suo eventuale governo, avrebbe immediatamente irrigidito le norme sull’incandidabilità ed il conflitto d’interessi?
In questa trepidante attesa il Cavaliere da una parte blandisce con un collaborazionismo sospetto e dall’altra minaccia sfaceli se al suo partito non verrà riconosciuta la possibilità d’indicare il presidente della repubblica: un’aspettativa bizzarra per un personaggio che non ha esitato a trattare come insulsi zerbini le opposizioni quando la maggioranza è stata dalla sua parte. Ma è cosa ormai ben nota che il Cavaliere si ciba quotidianamente di veleno, rancore e insalate di minacce, anche se ogni tanto a qualche sprovveduto è in grado di confondere le idee ostentando un sorriso benevolo, sotto al quale malcela un odio arrogante e irriducibile.
Proprio per dimostrare quanto poco gli importi il destino dell’Italia al di là delle pompose dichiarazioni ufficiali e sia piuttosto ossessionato dall’idea di fare la fine di un altro dei suoi scagnozzi, Marcello Dell’Utri, ha scatenato l’ennesimo scherano, tal  Raffaello Vignali, uomo di CL rieletto in Lombardia nella lista del Popolo delle Libertà e già presidente della Compagnia delle Opere, che ha presentato  l’ennesima proposta di legge che dovrebbe estendere la tutale dai processi penali ai parlamentari, non più consentiti senza l’autorizzazione della camera d’appartenenza. Un passo indietro lungo vent'anni, quando all'indomani di Tangentopoli fu esclusa la possibilità che un deputato o un senatore venissero salvati sia dai processi che dalle sentenze in via definitiva.
Come si evince, la ricerca di una via di fuga è senza tregua al punto da suggerire di giocare su più fronti pur di trovare una via d’uscita.
A scanso di ogni equivoco e perché non si strumentalizzi la posizione di chi scrive, che non è affatto un giacobino assetato di livorosa vendetta nei confronti di Silvio Berlusconi, sarebbe il caso di chiedersi con serenità se è mai verosimile immaginare falangi di magistrati variopinti inventarsi assurde trame per far fuori il prode Cavaliere o, piuttosto, se piuttosto l’ex Unto del Signore non ne abbia combinate così tante da essere diventato l’ovvio bersaglio di chi è preposto all’amministrazione della giustizia.
E’ stupefacente come i tanti elettori del Cavaliere siano talmente ottusi da non porsi domande sulle ragioni per le quali un uomo del tutto innocente abbia sprecato così tanto tempo, peraltro a danno del governo delle emergenze del paese, per far emanare leggi che hanno cancellato il falso in bilancio, provvedimenti che hanno accorciato in modo preoccupante i termini di prescrizione, lodi svariati per non presentarsi nei tribunali e così via. Una persona onesta e specchiata, che non ha commesso nulla d’illecito, che deve le sue fortune non alla compravendita di giudici ma alla sua capacità imprenditoriale, non ha certo necessità di profondere energie oltre ogni ragionevole impegno per dimostrare la propria illibatezza. I tribunali potranno anche sbagliare, ma è statisticamente impossibile che sbaglino sempre  e sistematicamente con lo stesso soggetto in sedi e procedimenti diversi. Né questa conclusione potrebbe mai essere eccepita per dimostrare l’esistenza della congiura giudiziaria reclamata dal Cavaliere, considerato che parecchi degli uomini a lui vicini, coimputati nei processi che lo hanno riguardato, sono stati condannati solo perché sprovvisti di quelle armi interdittive delle quali lui ha ampiamente abusato.
Questa situazione personale del Cavaliere, assai chiara a Bersani ed a tutte le forze politiche presenti nel nuovo scenario politico emerso dalle urne, non lascia margini di manovra: chiunque mostrasse segni di cedimento nei suoi confronti pur di poter realizzare un governo commetterebbe un errore esiziale, difficilmente perdonabile dall’elettorato. Ed è questa, allo stesso tempo, la ragione per la quale non trova alcuna giustificazione plausibile il frontismo di Grillo e del suo M5S, che con le sue chiusure sta di fatto offrendo solo opportunità inammissibili al PdL ed al suo inquisito leader.

sabato, marzo 23, 2013

Il paese nelle mani dei ciarlatani



Sabato, 23 marzo 2013
Nello scorso mese di febbraio con gli esiti delle urne elettorali s’è chiuso un giro di boa epocale, non solo per la politica italiana ma, probabilmente, per lo stesso sistema di convivenza democratica cui ci si era plasmati dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla proclamazione della repubblica.
Il ciclo, indiscutibilmente inaugurato da Silvio Berlusconi nel lontano 1994 con la sua comparsa in campo sulle rovine del crollo DC/PSI, ha visto con il trionfo dei seguaci di Beppe Grillo l’emergere di un new deal fondato su alcuni pilastri ancora poco compresi dai tradizionalisti e dagli operatori politici legati ai vecchi schemi di gestione della rappresentatività e del consenso, ancorati ad una concezione della politica come enunciazione di progettualità eterea e nobile che, per sua natura, passa sopra la percezione effettiva dei bisogni.
Per comprendere a pieno quale siano stati i fattori di successo del berlusconismo, da una parte, e del grillismo, sua deriva populo-qualunquista dall’altra, occorre osservare i  fenomeni sociali e tecnologici succedutisi nell’ultimo quarto di secolo,  sull’onda della potente diffusione di internet, dell’affermazione dei social network, dell’acuirsi della crisi economica e dell’impennata del processo di globalizzazione e delle trasformazioni profonde registrate nel mercato del lavoro.
Nel primo caso, il berlusconismo ha rappresentato un modo innovativo di rappresentare la politica. Forte di un indiscutibile successo imprenditoriale autoreferenziale, in un contesto sociale in cui le vicende di “mani pulite” aveva travolto i punti di riferimento ed il sistema dei valori, Silvio Berlusconi ha saputo vendere in maniera del tutto nuova gli ingredienti della speranza, grazie alle innate doti di venditore di sogni, alla sua capacità di blandire l’immaginario, alla bravura con la quale ha saputo con linguaggio popolare vendere l’illusione che la via del successo fosse un rettilineo senza incroci e semafori, un’opportunità alla portata di tutti.
Quell’illusione è durata un ventennio e s’è frantumata, nonostante ancora ci sia qualche irriducibile che confidi nel probabile arrivo di Babbo Natale, per svariate ragioni: gli eccessi del leader, l’evidenza dell’impossibilità di mantenere certe promesse, gli interminabili guai giudiziari frutto delle tante scorciatoie con le quali il profeta di Arcore aveva raggiunto il successo e non certo di congiure persecutorie della magistratura. Il re alla fine s’è dimostrato nudo, alla stregua di un ciarlatano qualsiasi, che per anni ha infarcito di speranze i sogni di tanti incauti creduloni, convinti che il benessere e il successo fossero ormai divenuti prodotti da supermarket alla portata di tutte le tasche.
Mentre si consumava l’illusione berlusconiana, su un altro versante, un altro ciarlatano si faceva prepotentemente strada, convinto che l’era informatica potesse consentire l’emersione di un nuovo modo di far politica e di catalizzare il consenso dei tanti delusi dello spettacolo indecoroso che i partiti tradizionali avevano cominciato a dare convinti essi stessi che Berlusconi e il suo populismo potessero trovare la sconfitta solo sul loro terreno.
Nasce così un movimento, il 5 Stelle di Beppe Grillo, quel movimento che è in grado giorno dopo giorno, attingendo agli strumenti della comunicazione deviata, di saldare una rete di protesta, contestazioni, malcontento, rifiuto della politica partitica, illuso di poter ribaltare i tradizionali meccanismi del consenso a favore di sterili e insignificanti sms, twit  e altre diavolerie inventate dal web per sublimare concetti e punti di vista espressi spesso più con la pancia che non con la testa.
In effetti, l’incapacità della politica tradizionale di interpretare il fenomeno e, quel che è peggio, di meditare autocriticamente sul progressivo e inarrestabile distacco dai cittadini e dai loro effettivi bisogni, ha costituito il brodo di coltura in cui ha preso forma il movimento di Grillo. Lo stesso epilogo della crisi del governo Berlusconi, sostituito da un esecutivo che passerà certamente alla storia per l’insulsaggine e la tracotante arroganza con le quali ha inteso raddrizzare le conseguenze di una crisi economica, politica e sociale oramai giunta al capolinea, ha rappresentato l’ingrediente finale per dare consistenza ad una compagine senza volto e senza storia, ma portatrice di una rabbia sordida nei confronti di un apparato vergognosamente ostinato ad addossare a quella maggioranza dei cittadini già vessata l’onere di trascinare il paese fuori dalle secche in cui era precipitato.
A ben guardare, il governo Monti è stato per certi versi sicuramente peggio di quello Berlusconi: incapace di un briciolo d’umanità e di senso di giustizia sociale, con le sue scelte su pensioni, tassazione, lavoro – ma qui sarebbe il caso di parlare di non scelte, - prono senza riserve ad eseguire i diktat provenienti dall’Europa, ha determinato la fine di ogni speranza di uscire dal tunnel e di ogni credibilità della politica, ostinatamente indirizzata a calpestare ogni residua parvenza di giustizia sociale pur di raggiungere i propri obiettivi e salvare la poltrona. C’è voluto solo un innato disprezzo per l’evidenza per consentire a un Monti di proporsi quale potenziale leader di un nuovo soggetto politico in corsa per il governo del paese: illudersi di poter convogliare consenso dopo un anno di feroce macelleria sociale perpetrata da lui e i suoi sedicenti ministri tecnici la dice lunga sulla minuscola statura intellettuale e morale di un personaggio che all’esordio, almeno dalle dichiarazioni, era sembrato l’unico in grado di evitare all’Italia di precipitare nel baratro.
Ecco che in questo clima, fatto di sordido rancore, di “particulare” represso, di speranze deluse, che un furbo ex(?) comico, attaccando persino con il vilipendio tutto e tutti, è riuscito ad affermarsi senza mezzi termini, mettendo insieme una squadra di sbandati sconosciuti – certo favorito da quella legge elettorale su cui sputa sdegnosamente – coesi dall’unico obiettivo di far fuori la vecchia politica e sostituirsi ad essa con istanze sì vicine agli umori della gente, ma che nel breve termine sembrano estratti a caso da un libro dei sogni.
Senza poi trascurare il metodo, fatto di minacce, diffide, scomuniche, divieti, che nulla hanno in comune con la pratica democratica, essendo più prossimi alle regole di una setta che non al decalogo di un circolo democratico.
Alla luce degli esordi che il giovane M5S ha avuto nello scenario politico italiano, sembrerebbe poter affermare che le raccomandazioni disattese dai partiti tradizionali rischiano di divenire il punto di disgregazione del Movimento di Grillo. Chi ha votato Grillo e i suoi cittadini, - come amano definirsi, - s’attendeva un esordio certamente intransigente rispetto ai vecchi giochi di palazzo, ma non una blindatura a tutto tondo al punto da inibire qualunque possibilità di varare un governo, anche provvisorio, per il disbrigo delle emergenze e il varo di una nuova legge elettorale fondamentale per ricorrere nuovamente alle urne, - come appare sempre più inevitabile. Il frontismo così radicale ostentato da Grillo è invece preludio al ridimensionamento che certamente subirà l’M5S, al quale sicuramente sarebbe imputato l’inevitabile aggravamento di una crisi già grave e rimasta per giunta senza risposta per troppo tempo, ostaggio degli umori di un movimento settario a corto d’idee e di flessibilità.

domenica, marzo 17, 2013

I deliri del burattinaio



Domenica, 17 marzo 2013
Era prevedibile, come la pioggia quando il cielo è plumbeo, ed è arrivata. La scomunica di Beppe Grillo, l’ex(?) comico con il pallino della politica, è arrivata puntuale per coloro che, disattendendo l’ordine del novello führer di Camaldoli, hanno deciso di votare Pietro Grasso al senato per inibire l’eventuale rielezione del picciotto Renato Schifani.
Al podestà ossesso non interessava si facessero passi avanti nel fare pulizia delle facce del passato, interessava solo che i suoi burattini obbedissero ciecamente ai suoi ordini e, dunque, se l’ordine era stato di votare scheda bianca o il proprio candidato, tutti avrebbero dovuto attenervisi pedissequamente, anche se in virtù di quell’ordine cretino ci fosse stato il rischio d’eleggere alla presidenza del senato una bandito qualunque o una prostituta di passaggio.
Questo è il succo del Grillo-pensiero, un pensiero tanto vuoto quanto deviante al punto da ritenere il rispetto acritico della norma al di sopra dell’effetto in grado di determinare, scisso da ogni valutazione di conseguenza. Un approccio aberrante se non più verosimilmente patologico, che non lascia alcuna speranza ad inversioni di rotta o rinsavimenti.
Poi il blog a cui Grillo affida la reprimenda nei confronti dei dodici dissidenti e nel quale espone per l’ennesima volta il credo al quale debbono far riferimento gli eletti del M5S. Un blog che scatena immediatamente il web e che con il passare delle ore da dibattito pro e contro finisce per trasformarsi in una lacerazione sanguinante che divide con toni accesi il popolo dei cittadini.
Nella notte i commenti schizzavano alle stelle, qualcuno di essi diventava anche il più votato. Ferdinand Bardamu (uno pseudonimo da antieroe ispirato a quel Voyage au bout de la nuit di Louis Ferdinand Céline) urlava - su internet usare il tutto maiuscole equivale a lanciare un grido – la sua rabbia per la «svolta autoritaria del M5S», e invitava «i senatori dell'M5S che hanno avuto il coraggio e la serietà di ribellarsi ai diktat vergognosi di Grillo e ai suoi deliri di onnipotenza». E qui Grillo commette un errore mortale. Ad una certa ora del mattino, il post di Bardamu improvvisamente scompare, nonostante le numerosissime condivisioni accordategli. Il coro delle proteste si fa sempre più numeroso, finché un altro utente, Dario Raimo, che ha conservato il post incriminato, non lo ripubblica, denunciando a sua volta le censure subite per aver espresso il proprio dissenso rispetto al pensiero del podestà Grillo. Non mancano nei confronti del leader commenti al vetriolo, malcelati nell’uso della parafrasi della stessa battuta che Fini fece al Cavaliere: «Beppe, che fa li cacci? ».
Intanto i senatori Cinque Stelle - invitati a dimettersi in quanto avrebbero tradito gli elettori - stavolta non tacciono. Con toni diversi, rispondono al leader, rivendicando autonomia di giudizio senza per questo aver voluto tradire la linea del movimento. Lo stesso Vito Crimi, capogruppo al senato del Movimento, sente il dovere d’intervenire per stemperare il calore dell’incendio che è divampato. «Sicuramente ieri nella cabina elettorale qualcuno di noi ha agito in coscienza e questa è stata una grande espressione di libertà, di quello che è il nostro spirito-  dice Crimi. - Il candidato ideale del Movimento era Luis Orellana. Dobbiamo però dare atto che in questi mesi siamo riusciti a stimolare le forze politiche a tirar fuori dei nomi un po' più distaccati rispetto all'apparato di partito, un po' più nuovi rispetto al Partito democratico. Ci possiamo prendere questo merito». Né lesina il suo commento anche Orellana a La Stampa, che nonostante abbia mancato il successo ammette con onestà: «Non siamo telecomandati. Ognuno di noi ha una propria sensibilità. Segue la propria coscienza. E certamente Pietro Grasso non faceva, e non fa, parte del vecchio apparato».
Su Facebook si aggiunge anche la voce di Francesco Molinari, senatore in quota al Movimento, che risponde al messaggio di Grillo con parole altrettanto nette: «Meno reazioni isteriche e più fiducia!", raccomanda. A Grillo, il senatore suggerisce di «stare sereno, non c'è nessun traditore» e lo rassicura sul fatto che il Movimento 5 stelle al Senato «è unito: nessuna alleanza, nessuna fiducia». In fine, un consiglio, presumibilmente al grande burattinaio: «studiare le differenze fra cariche istituzionali e ruoli politici non farebbe male».
Nel frattempo non mancano i messaggi di dissenso, con elettori che ammettono di aver dato fiducia al movimento, ma che, a queste condizioni, ben difficilmente torneranno a votare per un movimento che sta dando prova di sostanziale irresponsabilità, di un frontismo che non conduce che al vicolo cieco dell’ingovernabilità e dell’impossibilità di fornire risposte rapide ai temi più urgenti della crisi.
Chissà cosa dirà Grillo il giorno in cui si deciderà a scendere dall’assurdo Aventino su cui s’è arroccato anche a proposito dell’eutanasia, cui sembra irrimediabilmente destinato così continuando il suo Movimento.
(nella foto, Vito Crimi, neopresidente dei senatori 5 Stelle)