sabato, marzo 23, 2013

Il paese nelle mani dei ciarlatani



Sabato, 23 marzo 2013
Nello scorso mese di febbraio con gli esiti delle urne elettorali s’è chiuso un giro di boa epocale, non solo per la politica italiana ma, probabilmente, per lo stesso sistema di convivenza democratica cui ci si era plasmati dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla proclamazione della repubblica.
Il ciclo, indiscutibilmente inaugurato da Silvio Berlusconi nel lontano 1994 con la sua comparsa in campo sulle rovine del crollo DC/PSI, ha visto con il trionfo dei seguaci di Beppe Grillo l’emergere di un new deal fondato su alcuni pilastri ancora poco compresi dai tradizionalisti e dagli operatori politici legati ai vecchi schemi di gestione della rappresentatività e del consenso, ancorati ad una concezione della politica come enunciazione di progettualità eterea e nobile che, per sua natura, passa sopra la percezione effettiva dei bisogni.
Per comprendere a pieno quale siano stati i fattori di successo del berlusconismo, da una parte, e del grillismo, sua deriva populo-qualunquista dall’altra, occorre osservare i  fenomeni sociali e tecnologici succedutisi nell’ultimo quarto di secolo,  sull’onda della potente diffusione di internet, dell’affermazione dei social network, dell’acuirsi della crisi economica e dell’impennata del processo di globalizzazione e delle trasformazioni profonde registrate nel mercato del lavoro.
Nel primo caso, il berlusconismo ha rappresentato un modo innovativo di rappresentare la politica. Forte di un indiscutibile successo imprenditoriale autoreferenziale, in un contesto sociale in cui le vicende di “mani pulite” aveva travolto i punti di riferimento ed il sistema dei valori, Silvio Berlusconi ha saputo vendere in maniera del tutto nuova gli ingredienti della speranza, grazie alle innate doti di venditore di sogni, alla sua capacità di blandire l’immaginario, alla bravura con la quale ha saputo con linguaggio popolare vendere l’illusione che la via del successo fosse un rettilineo senza incroci e semafori, un’opportunità alla portata di tutti.
Quell’illusione è durata un ventennio e s’è frantumata, nonostante ancora ci sia qualche irriducibile che confidi nel probabile arrivo di Babbo Natale, per svariate ragioni: gli eccessi del leader, l’evidenza dell’impossibilità di mantenere certe promesse, gli interminabili guai giudiziari frutto delle tante scorciatoie con le quali il profeta di Arcore aveva raggiunto il successo e non certo di congiure persecutorie della magistratura. Il re alla fine s’è dimostrato nudo, alla stregua di un ciarlatano qualsiasi, che per anni ha infarcito di speranze i sogni di tanti incauti creduloni, convinti che il benessere e il successo fossero ormai divenuti prodotti da supermarket alla portata di tutte le tasche.
Mentre si consumava l’illusione berlusconiana, su un altro versante, un altro ciarlatano si faceva prepotentemente strada, convinto che l’era informatica potesse consentire l’emersione di un nuovo modo di far politica e di catalizzare il consenso dei tanti delusi dello spettacolo indecoroso che i partiti tradizionali avevano cominciato a dare convinti essi stessi che Berlusconi e il suo populismo potessero trovare la sconfitta solo sul loro terreno.
Nasce così un movimento, il 5 Stelle di Beppe Grillo, quel movimento che è in grado giorno dopo giorno, attingendo agli strumenti della comunicazione deviata, di saldare una rete di protesta, contestazioni, malcontento, rifiuto della politica partitica, illuso di poter ribaltare i tradizionali meccanismi del consenso a favore di sterili e insignificanti sms, twit  e altre diavolerie inventate dal web per sublimare concetti e punti di vista espressi spesso più con la pancia che non con la testa.
In effetti, l’incapacità della politica tradizionale di interpretare il fenomeno e, quel che è peggio, di meditare autocriticamente sul progressivo e inarrestabile distacco dai cittadini e dai loro effettivi bisogni, ha costituito il brodo di coltura in cui ha preso forma il movimento di Grillo. Lo stesso epilogo della crisi del governo Berlusconi, sostituito da un esecutivo che passerà certamente alla storia per l’insulsaggine e la tracotante arroganza con le quali ha inteso raddrizzare le conseguenze di una crisi economica, politica e sociale oramai giunta al capolinea, ha rappresentato l’ingrediente finale per dare consistenza ad una compagine senza volto e senza storia, ma portatrice di una rabbia sordida nei confronti di un apparato vergognosamente ostinato ad addossare a quella maggioranza dei cittadini già vessata l’onere di trascinare il paese fuori dalle secche in cui era precipitato.
A ben guardare, il governo Monti è stato per certi versi sicuramente peggio di quello Berlusconi: incapace di un briciolo d’umanità e di senso di giustizia sociale, con le sue scelte su pensioni, tassazione, lavoro – ma qui sarebbe il caso di parlare di non scelte, - prono senza riserve ad eseguire i diktat provenienti dall’Europa, ha determinato la fine di ogni speranza di uscire dal tunnel e di ogni credibilità della politica, ostinatamente indirizzata a calpestare ogni residua parvenza di giustizia sociale pur di raggiungere i propri obiettivi e salvare la poltrona. C’è voluto solo un innato disprezzo per l’evidenza per consentire a un Monti di proporsi quale potenziale leader di un nuovo soggetto politico in corsa per il governo del paese: illudersi di poter convogliare consenso dopo un anno di feroce macelleria sociale perpetrata da lui e i suoi sedicenti ministri tecnici la dice lunga sulla minuscola statura intellettuale e morale di un personaggio che all’esordio, almeno dalle dichiarazioni, era sembrato l’unico in grado di evitare all’Italia di precipitare nel baratro.
Ecco che in questo clima, fatto di sordido rancore, di “particulare” represso, di speranze deluse, che un furbo ex(?) comico, attaccando persino con il vilipendio tutto e tutti, è riuscito ad affermarsi senza mezzi termini, mettendo insieme una squadra di sbandati sconosciuti – certo favorito da quella legge elettorale su cui sputa sdegnosamente – coesi dall’unico obiettivo di far fuori la vecchia politica e sostituirsi ad essa con istanze sì vicine agli umori della gente, ma che nel breve termine sembrano estratti a caso da un libro dei sogni.
Senza poi trascurare il metodo, fatto di minacce, diffide, scomuniche, divieti, che nulla hanno in comune con la pratica democratica, essendo più prossimi alle regole di una setta che non al decalogo di un circolo democratico.
Alla luce degli esordi che il giovane M5S ha avuto nello scenario politico italiano, sembrerebbe poter affermare che le raccomandazioni disattese dai partiti tradizionali rischiano di divenire il punto di disgregazione del Movimento di Grillo. Chi ha votato Grillo e i suoi cittadini, - come amano definirsi, - s’attendeva un esordio certamente intransigente rispetto ai vecchi giochi di palazzo, ma non una blindatura a tutto tondo al punto da inibire qualunque possibilità di varare un governo, anche provvisorio, per il disbrigo delle emergenze e il varo di una nuova legge elettorale fondamentale per ricorrere nuovamente alle urne, - come appare sempre più inevitabile. Il frontismo così radicale ostentato da Grillo è invece preludio al ridimensionamento che certamente subirà l’M5S, al quale sicuramente sarebbe imputato l’inevitabile aggravamento di una crisi già grave e rimasta per giunta senza risposta per troppo tempo, ostaggio degli umori di un movimento settario a corto d’idee e di flessibilità.

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